Banche: fusioni e worst practices nella valutazione

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This article’s objective is twofold: a) to argue that mergers and acquisitions among banks do not always advantage the financial system’s stability or the merging banks’ profitability (against the current storytelling that M&As are panacean); b) to highlight some widespread worst practices in valuing aggregation synergies as well as the share exchange of merging banks, showing the ample range of discretionary/manoeuvrable values in capital valuation.

 

Aggregarsi conviene?

Le fusioni e acquisizioni oggi in Italia sono da più parti indicate come la panacea ai mali del sistema bancario nostrano. Le raccomandano le Autorità di Vigilanza [1], il Governo [2], che vara leggi per favorirle (per esempio la legge 33 sulla trasformazione in spa delle popolari maggiori), i commentatori più o meno competenti della materia.

In alcuni casi la motivazione addotta è quella della maggiore stabilità del sistema.

Questa motivazione omette di considerare quanto emerge dall’evidenza empirica internazionale [3]  sul legame positivo tra rischio sistemico e dimensione delle banche, sia come effetto diretto, che anche come effetto indiretto. Con riferimento a quest’ultimo, da alcuni studi emerge che la maggiore incidenza sull’income (la somma dei margini dell’attività bancaria) del margine non da interessi comporta un maggiore rischio sistemico della banca: in genere la maggiore dimensione si associa ad un mix delle attività più orientato verso attività diverse da quelle tradizionali di intermediazione creditizia (per esempio il trading).

A ciò si aggiunge l’incentivo che la maggiore dimensione genera sui comportamenti di moral hazard da parte degli amministratori delle banche, per effetto del too big to fail, con implicazioni quindi sul rischio assunto.

La maggiore dimensione, inoltre: i) determina una maggiore complicazione delle attività svolte dalla banca, e quindi maggiore difficoltà a valutare e controllare l’esposizione ai rischi, sia da parte degli amministratori che dei controllori interni e delle autorità di vigilanza; ii) accentua i conflitti di interesse nel sistema finanziario, dipendendo la maggiore parte di essi dalla coesistenza dentro la stessa banca di funzioni le più disparate, da quelle commerciali, che godono della tutela pubblica, a quelle più rischiose quali l’asset management  e il trading proprietario [4].

Non è un caso che nell’Annual Report del 2009 la Banca dei Regolamenti Internazionali (la madre delle regole di Basilea, per intenderci) abbia auspicato: “..le banche devono riprendere l’attività creditizia, ma devono altresì operare un aggiustamento divenendo più piccole, più semplici e più sicure.  …In futuro, un’impresa finanziaria troppo grande o troppo interconnessa per fallire dovrà anche essere troppo grande per esistere”.

In altri casi le aggregazioni sono considerate una possibile soluzione alla bassa redditività delle banche in contesto di tassi prossimi allo zero [5]. Questo effetto positivo, che passa per le economie di scala, non è tuttavia l’unica strada percorribile, né quella più scontata, per aumentare la redditività.

Ruozi, in un recente articolo su Milano Finanza [6], richiamando evidenze recenti sulle community banks statunitensi, sottolinea come in contesti di instabilità monetaria, crescita nulla o limitata dell’economia reale e cambiamenti marcati di regolamentazioni e tecnologie, le economie di scala non si traducono più in maniera automatica e scontata in aumenti di redditività. Altri fattori, aziendali (le strategie, le caratteristiche strutturali e funzionali della banca, i modelli organizzativi) e di contesto (il grado di concorrenza delle zone di presenza della banca, la quota di mercato posseduta in queste zone, le loro caratteristiche economico-sociali) possono avere un impatto più marcato e più efficace dell’aumento dimensionale sulla redditività, soprattutto perché oggi rispetto al passato le differenze tra banche per questi fattori sono più evidenti e quindi il loro peso sulla redditività è maggiormente difforme.

Uno studio del Gruppo dei Dieci del 2001[7]  ha analizzato gli effetti delle aggregazioni tra banche negli anni 90: emergono molti lati oscuri sui versanti rischio, efficienza e concorrenza, che sostanzialmente confermano le osservazioni precedenti. Ecco alcune delle implicazioni che emergono, comuni ai diversi paesi indagati [8], seppure con rilevanza diversa.

Sul versante rischio finanziario, gli effetti non sembrano univoci. Il processo di concentrazione dell’industria finanziaria sembrerebbe ridurre il rischio aziendale per il tramite della potenziale diversificazione (soprattutto geografica) delle attività. Questa riduzione, tuttavia, non è certa ma dipende da come effettivamente varia la composizione del portafoglio delle banche in seguito al merger. In seguito al consolidamento, infatti, alcune banche modificano tale composizione in favore di attività più rischiose e mostrano un aumento di altri rischi, quali il rischio operativo e quello derivante dalla complessità della struttura manageriale. Se si guarda poi al rischio sistemico, questo risulta più facilmente trasmissibile all’economia reale attraverso le attività all’ingrosso delle istituzioni finanziarie e dei mercati, inclusi i sistemi di pagamento e di regolamento.

Confermato anche il rischio del too big to fail: se una banca di grandi dimensioni e a struttura complessa versa in una situazione finanziaria grave, il consolidamento accresce la probabilità che la liquidazione/riorganizzazione risulti difficile ovvero conseguibile in maniera disordinata. Dal momento che intermediari di tale genere sono quelli le cui difficoltà possono tradursi in rischi di ampia portata, il processo di concentrazione può quindi comportare un aumento della probabilità che situazioni di dissesto aziendale producano ripercussioni sul sistema. Si aggiunge poi, come effetto potenziale del consolidamento sul rischio sistemico, la maggiore interdipendenza tra organizzazioni finanziarie grandi e complesse. Un elevato grado di interdipendenza implica un potenziale rischio sistemico.

Il consolidamento risulta poi avere un effetto duplice (con esito finale non certo) sulla capacità del mercato di valutare l’assunzione di rischio da parte di istituzioni finanziarie grandi e complesse. Se da un lato, infatti, una maggiore apertura al mercato aumenta la trasparenza e incoraggia la disciplina di mercato, dall’altro, la maggiore complessità rende più difficile la valutazione delle condizioni finanziarie di un intermediario. L’aumento delle dimensioni aziendali può poi accentuare i problemi di moral hazard.

Sul versante efficienza, non emerge alcuna garanzia di riduzioni di costi e di guadagni di efficienza. L’evidenza empirica suggerisce che in generale solo banche piccole possono realizzare incrementi di efficienza aumentando la loro dimensione. In generale, banche più efficienti acquisiscono banche relativamente inefficienti, ma vi è scarsa evidenza che questo si traduca in una successiva riduzione dei costi. Le operazioni effettuate negli anni novanta provano un qualche miglioramento soprattutto dal lato dei ricavi, ma si tratta di guadagni di entità inferiore a quella prevista dagli operatori. Nel settore della negoziazione in titoli le economie di scala si conseguono soltanto per banche piccole, mentre le economie di scopo non appaiono rilevanti.

Sul versante concorrenza, infine, emerge che una maggiore concentrazione genera condizioni meno favorevoli per i consumatori, in particolare nel mercato del credito alle piccole imprese, dei depositi al dettaglio e dei servizi di pagamento. Le concentrazioni bancarie riducono la percentuale di portafoglio investita in prestiti alle piccole imprese (esistono evidenze su Italia e Stati Uniti). I dati tuttavia mostrano che le banche non interessate da operazioni di consolidamento e le banche di nuova creazione tendono a compensare questa riduzione dell’offerta di credito alle PMI. Si rileva, inoltre, una lieve diminuzione del credito erogato ai debitori di peggiore qualità.

E’ certamente vero che lo studio riguarda i processi di consolidamento avvenuti negli anni novanta e che i cambiamenti intercorsi nel frattempo sono di grande rilievo (nelle tecnologie, nella struttura del mercato, nella deregolamentazione/globalizzazione, nello sviluppo della finanza online, ecc.) con ripercussioni conseguenti sul ruolo/contenuto delle economie di scala e di scopo, sul setting competitivo, sulle barriere all’entrata, ecc.; e tuttavia si tratta di esperienza che dovrebbe indurre cautela nel magnificare i benefici delle fusioni tra banche, anche perché alcune delle criticità emerse da quella indagine si sono concretamente realizzate nel decennio successivo.

Worst practices: sinergie di costo e di ricavo, valutate come?

Sul versante dell’effettiva consistenza delle sinergie di costo e ricavo che di norma sono portate a supporto della fusione, va evidenziata una worst practice diffusa in Italia in sede di concreta quantificazione di queste sinergie e quindi del conseguente aumento di valore che l’aggregazione comporterebbe. Gli advisors finanziari spesso si trovano a quantificare queste sinergie in assenza di piani industriali analitici, che mostrino in dettaglio dove e come la banca risultante dalla fusione faccia meglio e di più delle due banche stand alone. Non quantificano quindi analiticamente in termini economico-finanziari i  benefici e i costi dell’aggregazione e le strategie/politiche operative da cui discendono,  ma assumono ipotesi sintetiche e genericamente definite, per esempio quantificando le sinergie di costo in termini di percentuali fisse di risparmio della somma dei costi operativi attuali delle due banche e quelle di ricavi in termini di percentuali fisse di incremento della somma dei loro proventi operativi; percentuali derivate da medie calcolate su panel di mergers avvenute in passato e definite (con molta audacia) comparabili. Purtroppo, la comparabilità appare difficile da dimostrare, trattandosi in genere di deals limitati in numero, avvenuti in periodi temporali molto diversi e riguardanti entità aggregate molto differenti da quelle coinvolte nella fusione oggetto di valutazione.

Si aggiunga a ciò che, anche quando il piano industriale è reso noto, spesso manca di un approccio probabilistico (come suggerirebbero invece la letteratura/prassi più evolute), reso indispensabile dalla turbolenza attesa del contesto macro-economico in generale e del business bancario in particolare. Nelle pratiche più diffuse, si fa riferimento ad uno scenario unico, mentre sarebbe buona norma ipotizzare almeno 2-3 scenari alternativi (pessimistico e ottimistico oltre a quello medio), con conseguente analisi di sensitività dei target dell’operazione di fusione  rispetto ai drivers più rilevanti.

Inoltre, perché la stima delle sinergie sia attendibile, serve un confronto puntuale del piano della banca post fusione con i bilanci pro-forma in ipotesi stand alone delle banche nubende, sullo stesso arco temporale. Confronto che nella maggior parte delle operazioni è del tutto omesso.

Altra cattiva pratica diffusa nella stima del valore creato dalla fusione è quella di usare, come tasso per tradurre in valori attuali le sinergie di costo e di ricavo che si manifesteranno in un certo numero di anni dalla fusione, lo stesso tasso utilizzato per la determinazione del valore stand alone delle due entità (cfr. oltre). Ovviamente è una pratica metodologicamente discutibile: l’ottenimento delle sinergie ipotizzate è strettamente connesso al successo del processo di integrazione delle due unità, che rappresenta un cambiamento radicale e non certo scontato (e quindi maggiormente rischioso) rispetto all’ipotesi di continuazione dell’attività nella stima del valore del capitale delle due banche in assenza di aggregazione, cioè stand alone. Questo tasso, inoltre, dovrebbe essere ragionevolmente maggiore di quello utilizzato per attualizzare i costi dell’integrazione/ristrutturazione da sostenere per ottenere le sinergie: in genere, i costi di integrazione sono quasi certi e soprattutto maggiormente sotto il controllo delle banche che si aggregano.

In breve, serve un grande atto di fede per considerare attendibili e appropriabili le sinergie di costo e di ricavo dichiarate nel magnificare la creazione di valore conseguente alla fusione.

Worst practices: le banche hanno tutte lo stesso rischio?

Strettamente associato al tema fusioni/acquisizioni è quello della stima del valore delle banche che si aggregano, per la determinazione del rapporto di partecipazione e del conseguente concambio.

I vari advisors finanziari (per lo più internazionali) applicano per la valutazione delle banche nubende metodi consolidati, ormai largamente conosciuti e diffusi nella prassi professionale. Tuttavia, la modalità di applicazione di questi metodi largamente diffusi, in termini di cura e rigore nella determinazione dei parametri utilizzati nella valutazione, non è in sé neutrale. Viceversa, può influenzare radicalmente i valori stimati e i concambi che ne discendono.

La valutazione finanziaria non è un mestiere facile e certamente non è un automatismo: si basa su stime di variabili future e quindi incerte, presenta elevati spazi di discrezionalità da parte del valutatore, che deve ben conoscere la realtà oggetto di valutazione, al fine di stimare correttamente le variabili chiave sulla base delle informazioni a disposizione e contestualizzare i metodi applicati ai casi di specie, assumendo una posizione il più possibile neutrale ed esplicitando chiaramente le ipotesi assunte.

In aggiunta, proprio per l’incertezza ineliminabile del processo, è buona norma adottare un approccio probabilistico alla valutazione, che consideri diversi scenari realistici e stimi i valori in corrispondenza di questi diversi scenari, determinando quindi un range di valori del capitale delle banche che si aggregano e in conseguenza un range di rapporti di partecipazione relativi. E’ evidente come questo sia un elemento cruciale quanto più il business di riferimento delle unità oggetto di valutazione sia caratterizzato da elevata incertezza prospettica, come sicuramente è il settore bancario.

E’ chiaro a tutti che il rapporto di partecipazione (quanto spetta della banca che nasce dalla fusione agli azionisti delle due banche nubende) fissato dalle parti è frutto della negoziazione tra loro e quindi include molti elementi non strettamente tecnici, ma politici e strategici (oltreché di governance: chi occuperà i posti di comando nella nuova banca). E tuttavia, il compito del tecnico è quello di garantire che il rapporto di partecipazione negoziato tra le parti (dopo e non prima della conclusione del processo di valutazione, che altrimenti rischia di essere una giustificazione ex post di accordi già presi) sia supportato dai fondamentali economico-finanziari delle banche nubende, sulla base di metodi applicati con rigore e approccio critico.

In breve, per giudicare della fondatezza dei valori stimati (per esempio in sede di Relazione degli Esperti ai sensi dell’art. 2501-sexies del codice civile) non basta assicurarsi che siano stati applicati tutti e solo i metodi valutativi riconosciuti dalla prassi, ma occorre una disamina attenta e circostanziata di come questi metodi siano stati applicati. Per intenderci, non è una verifica formale (una spunta della lista), ma un controllo di sostanza.

Per essere più specifici su questo punto, vengono di seguito evidenziate alcune worst practices  rinvenibili con una certa frequenza nella valutazione delle banche nelle fusioni. Se ne parlerà cercando di trattare l’argomento (che è evidentemente molto tecnico) in maniera comprensibile anche ai non addetti, senza perdere in rigore della trattazione.

Un primo fattore cruciale nella valutazione, relativamente all’applicazione dei metodi analitici (cioè dei metodi che esplicitano per un certo arco temporale futuro gli utili o i flussi di cassa che le banche oggetto di valutazione produrranno: in genere, nel caso delle banche, rientra in questo ambito il metodo DDM ovvero il discounted dividend model), riguarda la determinazione del costo del capitale delle banche. Si tratta di determinare il tasso da utilizzare per l’attualizzazione di questi utili o flussi di cassa e misurarne quindi il valore oggi.

Bisogna essere consapevoli che a questo tasso il valore che si ottiene come risultato della valutazione è molto sensibile: bastano variazioni di 1-2 punti percentuali del tasso, per rovesciare completamente il rapporto di partecipazione tra le due banche che si aggregano. Quindi è della massima importanza che la stima di questo tasso sia accurata. Un primo elemento critico che si rinviene in casi recenti di valutazione riguarda la pratica diffusa di utilizzare lo stesso costo del capitale per la determinazione del valore stand alone di entrambe le banche interessate dall’aggregazione.

Ora, questa scelta è metodologicamente discutibile nei casi in cui le banche nubende differiscono sensibilmente tra loro per i fondamentali economico-finanziari da cui dipende il costo del capitale. Il costo del capitale ha due componenti:

  • il tasso risk-free, cioè la remunerazione del valore temporale del denaro (100 euro oggi sono diversi da 100 euro tra 10 anni), che non differisce tra banche dello stesso sistema (per esempio se banche che operano entrambe nel mercato europeo);
  • il premio per il rischio sistematico, cioè il rischio della banca (volatilità dei suoi rendimenti) che è dipendente da fattori sistemici dell’economia nel complesso e del comparto bancario-finanziario in esso compreso: alcune banche sono più sensibili, altre meno a questi fattori.

E’ evidente come questa ultima componente differisca tra banche se le banche hanno rischio sistemico differente. Studi recenti (citati in nota 3) mostrano per esempio che la dimensione delle banche comporti un rischio sistemico diverso (banche più grandi hanno rischi maggiori); sempre la letteratura internazionale mostra anche come la composizione delle attività influenzi il rischio sistemico: una maggiore incidenza sull’income dei margini derivanti da attività non di intermediazione comporta un maggiore rischio sistemico. Se le due banche che si aggregano sono significativamente diverse per questi due aspetti, non è sensato applicare per la determinazione del valore del capitale stand alone delle due banche lo stesso premio per il rischio sistematico e quindi lo stesso costo del capitale. Se si usa, viceversa, lo stesso tasso, si rischia di sopravvalutare la banca più rischiosa e sottovalutare quella meno rischiosa, alterando il relativo rapporto di concambio. La determinazione del premio per il rischio utilizza il cosiddetto beta, cioè la misura del rischio sistemico della banca: per stimarlo si fa riferimento di norma non allo specifico beta della banca oggetto di valutazione, ma alla media dei beta di un set di banche comparabili (ciò al fine di livellare variazioni anomale di prezzi e rendimenti di mercato, magari per speculazioni connesse all’aggregazione), che però devono essere omogenee tra loro e con la banca di cui si deve stimare il costo del capitale.

E’ frequente che questo requisito nella pratica più rozza non sia rispettato, facendo la media tra i beta di tutte le banche quotate, anche molto diverse per dimensione e mix attività, che sono appunto i fattori da cui il beta dipende (si rinvia a quanto sarà detto dopo sul set di comparabili). Considerare la media o la mediana di beta (dati Bloomberg su rendimenti mensili) che vanno da 1,52 di Banco Popolare a 0,86 di Popolare di Sondrio appare privo di senso. Si tenga conto che differenze anche minime del beta portano a differenze anche consistenti del costo del capitale, perché il beta è un moltiplicatore del premio per il rischio di mercato: per esempio, con un premio per il rischio di mercato del 7%, anche una differenza di 0,3 del beta determina un differenziale di oltre due punti percentuali nel costo del capitale.

Worst practices: i multipli e il pollo di Trilussa

Un secondo aspetto, collegato al precedente, riguarda l’applicazione del metodo dei multipli, metodo di frequente incluso tra quelli utilizzati per la stima del valore del capitale delle banche che si aggregano.

In questo caso si tratta di un metodo di valutazione sintetico, che cioè lega “sinteticamente” il valore del capitale della banca a qualche grandezza economico-finanziaria che ne rappresenta il principale driver. Ad esempio, il multiplo price/earnings (P/E) lega il prezzo di borsa dell’azione all’utile per azione; il multiplo valore di mercato/valore contabile del capitale (P/BV), invece, collega il valore di mercato del capitale proprio della banca al valore di bilancio, cioè contabile (book value) dello stesso. In questo caso, si moltiplica per la grandezza al denominatore del multiplo, stimata per la singola banca (depurandola di fatti straordinari e non correnti), un valore medio o mediano del multiplo, calcolato per un gruppo di banche comparabili, ottenendo così il valore al numeratore (nei due multipli precedenti, rispettivamente prezzo per azione e valore di mercato del capitale proprio), da cui si ricava poi il valore del capitale della banca.

L’uso del gruppo di banche comparabili su cui si calcola il multiplo medio o mediano mira ad eliminare (compensandoli) i fattori di disturbo che di norma “sporcano” i prezzi di mercato, per esempio in comparti (e quello bancario è un esempio eclatante) in cui intervengono fattori speculativi sulle singole banche quotate che alterano i prezzi di mercato rispetto a quelli che si ritengono i valori teorici del capitale economico.

E’ quindi di cruciale importanza che il valore medio/mediano venga calcolato su un set di banche che siano “effettivamente comparabili”. Che lo siano cioè per i fondamentali economico-finanziari da cui i multipli sono influenzati. A titolo di esempio, la letteratura internazionale [9] evidenzia come i seguenti fondamentali economico-finanziari delle banche influenzino variamente i multipli e in alcuni casi in maniera determinante: i) il rischio e il costo del capitale che lo remunera; ii) il tasso di crescita degli utili; iii) il ROE; iv) il peso dei crediti deteriorati (non performing loans).

E’ cioè fondamentale che le banche comparabili ricomprese nel gruppo preso come riferimento siano omogenee tra loro e singolarmente omogenee con la banca da valutare. Quindi, per valutare le due banche nubende, se significativamente diverse tra loro per le grandezze sopra riportate, andranno definiti due distinti gruppi di comparabili e quindi due distinti valori medi/mediani di ciascun multiplo, da applicare distintamente alle due banche.

Anche in questo caso pratiche diffuse di valutazione mostrano rozzezze rilevanti nella selezione del set di comparabili. A titolo di esempio, quando si definiscono comparabili banche molto diverse per dimensione, redditività, mix impieghi, ecc., come ad esempio le seguenti: Intesa San Paolo, Banco Popolare, Ubi Banca, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare di Sondrio, Credito Emiliano e Credito Valtellinese. Hanno fondamentali economico-finanziari molto diversi come mostra la tabella seguente (si riassumono alcune delle variabili chiave delle banche citate, riferite al 2013, per mostrare appunto la loro evidente disomogeneità). Conseguentemente, avranno multipli molto differenti tra loro: per esempio, per il multiplo P/E, si va da un minimo di 7,6 di Bper a un massimo di 14,2 di Credem; per il multiplo P/BV, da un minimo di 0,29 di Banco Popolare ad un massimo di 0,89 di Intesa San Paolo; ne risulta che il valore medio/mediano del multiplo che si ottiene (rispettivamente 10,4 per P/E e 0,52 per P/BV) è privo di qualunque significato, potremmo dire come il pollo a testa della nota poesia di Trilussa [10].

L’applicazione di valori medi/mediani come sopra determinati avrà l’effetto di sopravvalutare il capitale della banca che ha valore inferiore del multiplo e sottovalutare quello della banca che ha valore superiore, tra le due oggetto di valutazione, se appunto dissimili.

Sia per la stima del costo del capitale che per la stima dei multipli, varie motivazioni vengono addotte per giustificare queste worst practices: il numero limitato di banche dalle quali trarre le comparabili, il requisito dell’omogeneità del framework di valutazione, ecc. Si tratta di motivazioni deboli e facilmente contestabili.

Per esempio, la limitatezza del set di comparabili sarebbe facilmente superabile se si esprimesse (con una semplice regressione) ciascun multiplo in funzione dei fondamentali da cui dipende (usando tutto il set di banche, anche se non omogenee), in modo tale da determinare il multiplo da applicare alla singola banca oggetto di valutazione sulla base dei parametri stimati dalla regressione applicati ai valori delle determinanti suoi propri. Idem per la stima del beta a fini misurazione del costo del capitale.

Analogamente, il giusto requisito dell’omogeneità del framework di valutazione deve attenere al modello/metodo applicato e non certo ai valori che si ottengono applicandolo (se appunto i drivers del multiplo ovvero del costo del capitale differiscono tra banche valutate). Se si portasse alle estreme conseguenze questo malinteso approccio dell’omogeneità, si arriverebbe al paradosso di applicare lo stesso valore alle due banche che si aggregano.

 

Tabella 1. Fondamentali economico-finanziari di banche italiane quotate

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Fonte: Mediobanca-R&S (www.mbres.it)

 

Worst practices: approccio probabilistico o esercizio numerico?

Da ultimo, una considerazione critica sull’approccio probabilistico spesso usato nella valutazione. Si usa elaborare la cosiddetta analisi di sensitività: un’analisi che calcola come cambia il valore del capitale delle due banche (e quindi il rapporto di partecipazione conseguente) al variare di alcuni parametri della valutazione, soprattutto quelli di più incerta stima.

Le best practices in tema di valutazione suggeriscono:

  1. di effettuare un’analisi di sensitività del valore stimato a modifiche probabili dei valori dei parametri da cui il valore dipende (i drivers del valore), ciò al fine di individuare quale/i parametro/i influenzano maggiormente la stima del valore e per utilizzare per questi parametri critici dei range opportuni di valori rispetto ai quali calcolare corrispondenti range di valore delle banche oggetto di valutazione;
  2. di derivare la forchetta o range di valori del capitale delle banche applicando il metodo degli scenari, cioè effettuando la stima in un certo numero di scenari plausibili, assumendo per ogni scenario un mix coerente di valori o range di valori dei parametri, ed esplicitando la interdipendenza tra tutti o almeno alcuni dei parametri del modello.

Una worst practice frequente e diffusa è quella di applicare l’analisi di sensitività in maniera meccanica: si modificano cioè alcuni dei parametri (usati nella valutazione) uno o due per volta, ipotizzando scalette di loro variazioni (per esempio variazioni fisse in aumento o diminuzione del valore assunto inizialmente) e si calcolano i valori del capitale che ne risultano. Nel caso di input modificati a coppie, generalmente accade che si ometta di formulare ipotesi concrete e motivate dal punto di vista economico-finanziario di correlazione tra le variazioni supposte dei parametri, ignorando del tutto la ragionevolezza delle coppie di valori via via supposti: incuria grave se i parametri sono finanziariamente legati, come normalmente accade. L’analisi per scenari, poi, è in genere del tutto omessa.

Un’altra ragione per cui la modalità meccanica di applicazione dell’analisi di sensitività (sopra descritta) falsa la forchetta di valori delle due banche che si ottiene (e quindi la conseguente forchetta dei rapporti di partecipazione relativi) è che essa attribuisce implicitamente la stessa probabilità di verificarsi ai diversi valori dei parametri modificati singolarmente o a coppia, e quindi la stessa probabilità ai valori del capitale delle banche che da questi parametri discendono.

Un approccio rigoroso suggerirebbe, di contro, di costruire le distribuzioni di probabilità soggettive dei parametri da cui maggiormente è influenzato il valore, individuando quindi stime ottimistiche e pessimistiche equiprobabili di questi parametri, e determinando il range di valore delle quote corrispondente al range tra stima ottimistica e stima pessimistica del parametro. L’analisi per scenari, poi, proprio perché impone di ragionare sul realismo del singolo scenario e quindi del mix di variazioni degli inputs assunto, ha il vantaggio di associare a ciascuno scenario una probabilità (seppure soggettivamente stimata) di sua verificazione, consentendo quindi di valutare la gamma di valori possibili ottenuti anche alla luce delle corrispondenti probabilità di verificarsi.

Una fusione al giorno toglie il medico di torno?

In conclusione, quanto precede, evidenzia le molte trappole dei processi di aggregazione, sia sul piano degli effettivi benefici che dai processi di aggregazione si possono trarre, sia sul piano delle metodologie che nella prassi sono applicate per quantificare questi benefici e per stimare il rapporto di partecipazione alla nuova entità da parte delle banche che si fondono e quindi in definitiva il concambio tra le due.

Le argomentazioni teoriche richiamate e le evidenze empiriche passate non sembrano supportare più di tanto l’ottimismo fideista che permea le posizioni recenti assunte da più parti a favore dei processi di aggregazione tra banche. Benefici possibili, ma non scontati e soprattutto non appropriabili in automatico; spesso, come mostra l’evidenza empirica internazionale [11], sopravvalutati per effetto dello hubris dei manager (Roll dimostra che i premi di acquisizione, cioè prezzi pagati più alti di quelli economicamente giustificati, tendono a riflettere gli ego degli amministratori delle unità acquirenti); costi e difficoltà di integrazione (di strutture, culture, personale, meccanismi operativi, ecc.) certi e onerosi.

Se ci si sposta poi sul piano del metodo, il quadro appare ancora più problematico.

Sono molti gli ambiti di discrezionalità nel processo di valutazione e molti i versanti in cui pratiche valutative disinvolte e superficiali possono proliferare, distorcendo i valori e quindi, prima ancora che i termini dell’accordo tra le parti, lo stesso rationale economico-finanziario della scelta di aggregarsi (con spazi di manovrabilità dei valori finali davvero ampi).

Il prevalere, peraltro, ormai sul piano professionale, di approcci valutativi pre-confezionati, basati su modelli e processi standardizzati e formalmente corretti, spesso molto complessi, offerti ormai senza differenze effettive dai vari advisors internazionali più noti, rappresenta una barriera quasi impenetrabile al discernimento critico, agli approfondimenti, alle varianti mirate, ad una analisi oltre l’apparenza, non formale ma di sostanza. I modelli diventano una specie di scatola nera dove inserire gli inputs e ottenere i valori, senza indagare troppo e meno che mai mettere in discussione il processo di trasformazione degli inputs in outputs.

L’essere prassi consolidate e metodi diffusi e generalmente applicati appare motivo sufficiente a legittimarne la bontà, inibendo nei fatti un’analisi più attenta e rigorosa nel merito della loro applicazione, che come si è provato a dimostrare sopra rappresenta un aspetto niente affatto neutrale. E induce il falso convincimento che i valori ottenuti, quelli e non altri, sono veri, oggettivi e incontestabili.

Aggiornando la legge di Gresham, c’è il rischio che le cattive pratiche scaccino quelle buone.

In un contesto come quello descritto, risulta della massima importanza il ruolo che assumono nei diversi step del processo gli organi di controllo e le autorità di vigilanza, che però devono adottare un approccio critico e non fermarsi all’apparente rassicurazione del così fan tutti.

 

 

* Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento di Economia

 

 

 

 

 

[1]     Il Governatore della Banca d’Italia, nella recente Giornata del Risparmio dell’Acri, ha definito un successo la fusione tra Banco Popolare/Banca Popolare di Milano, definendola un esempio per le altre popolari, e più in generale per le banche medio-piccole; ha poi  confermato che le autorità internazionali sono determinate a concludere nel minore tempo possibile la riforma dei regolamenti sui requisiti prudenziali delle banche, la cui stesura definitiva dissiperà le incertezze normative che stanno frenando il processo di consolidamento degli istituti.

[2]     Da una recente intervista del ministro Padoan: “I vincoli normativi da parte dell’Europa oggi sono molto più forti di ieri. Abbiamo fatto tutto quanto è lecito fare, e per questo è importante che il sistema decida in autonomia tutte le iniziative ulteriori con una valenza di stabilità sistemica. Il nostro lavoro è ispirato da una filosofia di fondo: favorire le aggregazioni. Ebbene, il processo deve andare avanti, perché in Italia ci sono ancora troppe banche“.

[3]    Si vedano, per esempio: Baele-De Jonghe-Vennet, “Does the stock market value bank diversification?”, Journal of Banking and Finance, 2007, 31, pp. 1999-2023; Stiroh, “A portfolio view of banking with interest and noninterest activities”, Journal of Money Credit and Banking, 2006, 38, pp. 1351-1361

[4]     Walter I., “Conflicts of interest and market discipline among financial service firms”, European Management Journal, 2004, 22(4), pp.361-376

[5]     Draghi (settembre 2016):  “..se gli istituti soffrono di scarsa redditività non è perché la Bce ha tagliato i tassi a zero, ma perché le banche sono troppe, con troppe filiali e con troppe inefficienze“.

[6]    Ruozi R., “Molto spesso una banca che cresce diventa anche più redditizia. Ma non è sempre così”, Milano Finanza, 7 ottobre 2016

[7]     https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/altri-rapporti/2001-g10/italian_summary.pdf.

[8]     Australia, Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti.

[9]     Si veda:  Damodaran A., Valuing financial service firmshttp://pages.stern.nyu.edu/~adamodar/ ; Massari-Gianfrate-Zanetti, The Valuation of Financial Companies: Tools and Techniques to Measure the Value of Banks, Insurance Companies and Other Financial Institutions, Wiley 2014

[10]    “Me spiego: da li conti che se fanno seconno le statistiche d’adesso risurta che te tocca un pollo all’anno: e, se nun entra ne le spese tue, t’entra ne la statistica lo stesso perche’ c’e’ un antro che ne magna due”. (Trilussa, La statistica)

[11]   Roll R., “The hubris hypothesis of corporate takeovers”, Journal of Business, 1986, 59, pp.97-216

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