Il falso liberismo dell’ordoliberismo

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Political and social notes

In Occidente, dalla Seconda guerra mondiale e fino agli anni Settanta del secolo scorso, l’ideologia che ha vinto la battaglia all’interno della società civile diventando egemone è stata quella keynesiana. Dagli anni ’80 in poi è invece avvenuto un netto cambiamento con l’affermazione della egemonia neoliberista, sia pure con differenti configurazioni a seconda dei diversi contesti nazionali. Dapprima in Germania e poi in Europa è stata la variante tedesca “ordoliberista a vincere il dibattito culturale, così da diffondersi attraverso gli “apparati ideologici di Stato”, diventando senso comune e creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. Spesso questo avviene senza percezione da parte della maggioranza della popolazione, tant’è che vi è una grande confusione in merito al suo effettivo contenuto. Nelle prossime pagine, si cercherà di fare chiarezza su questo tema, ricostruendone le idee e il periodo storico nel quale si è affermato.

Il momento fondativo del neoliberismo è collocabile al convegno Walter Lippmann tenutosi a Parigi, nel 1938 e in cui parteciparono, tra gli altri, von Hayek, Röpke e von Rüstow (Dardot e Laval, 2013). Al convegno per la prima volta venne usato il termine “neoliberismo” (Davies, 2014) e questo rappresenta di fatto il primo tentativo di creazione di una vera e propria “Internazionale neoliberista”. Nove anni dopo, nel 1947, Hayek fondò la Mont Pelérin Society con l’obiettivo di darne seguito con un think tank che riunisse tutti gli intellettuali neoliberisti del mondo. La nuova associazione diventerà il baluardo del neoliberismo agendo nell’accademia, nei media e nel business allo scopo di inserire membri e simpatizzanti in ruoli chiave, sia politici che economici, e divenendo famosa grazie anche agli otto premi Nobel assegnati ai suoi membri (tra i quali Milton Friedman e lo stesso Hayek) (Miroski e Plehwe, 2009). La volontà di incidere soprattutto sul cambiamento di lungo periodo ha portato i neoliberisti a combinare produzioni di élite con scritture popolari, analisi teoriche con semplificazioni populiste, produzioni di libri di testo e creazioni di diversi istituti e organismi internazionali, come l’Institute of Economic Affairs (IEA) e il Forum economico mondiale che si svolge ogni anno a Davos in Svizzera (Dardot e Laval, 2013).

All’interno dell’internazionale neoliberista si devono tuttavia distinguere due tendenze: quella Neo-austriaca di Hayek e von Mises e quella tedesca dell’Ordoliberismo. Comunque, secondo il pensiero dello storico e filosofo Mirowski (2009), dal punto di vista della storia della scienza economica l’ideologia ordoliberista e quella neo-austriaca possono essere entrambe assegnate a ciò che egli ha chiamato un unico “pensiero collettivo neoliberista”. L’avversione al socialismo e al collettivismo, la libertà individuale e la libera concorrenza sono il comune denominatore, essendo loro obiettivo primario quello di costruire un “ordine di concorrenza” fondato sul meccanismo dei prezzi. Si può vedere una sostanziale equivalenza tra il concetto di funzione segnaletica del sistema dei prezzi di cui parla Eucken ed il concetto di concorrenza come “processo di scoperta” sviluppato da Hayek: per entrambi i prezzi sono il “principio ordinatore” del mercato (Forte e Felice, 2010, p.15).

Entrambe riconoscono che era in corso, a partire dalla fine del XIX secolo, una crisi del capitalismo che aveva provocato un riorientamento dell’azione dello Stato verso politiche redistributive, di ammortizzazione sociale, di pianificazione e di protezionismo. Queste politiche venivano percepite come un passo verso una collettivizzazione dell’economia e quindi, per ostacolarne la tendenza, si doveva contrapporre una nuova ideologia che riprendesse il pensiero liberista del XVIII e XIX secolo.

Ciò che, però, differenzia queste posizioni tra loro è la contrapposta visione del mercato: “naturalistica” per i neo-austriaci e “costruttivista” per gli ordoliberisti. Per i primi il mercato è una realtà autonoma con proprie leggi e meccanismi che, senza alcun intervento esterno, è in grado di fornire il massimo benessere agli individui; per i secondi il mercato, per poter funzionare in modo concorrenziale, richiede un ordinamento attivo da parte dello Stato. Da questa diversa visione derivano indicazioni differenti sul ruolo dell’intervento pubblico: se i primi gli riconoscono poca legittimazione, gli altri ritengono fondamentale un “ordine costituzionale” che fissi in modo chiaro i principi fondamentali dell’economia e dell’intervento pubblico. Così, l’ideologia neo-austriaca ha fornito indicazioni verso la privatizzazione delle imprese pubbliche, la deregolamentazione dei mercati e ha posto l’enfasi su un ruolo statale limitato alla salvaguardia dai poteri monopolistici; quella ordoliberista ha spinto invece verso uno Stato “ordinatore” capace di usare la concorrenza come norma e strumento dell’attività di governo fino ad occuparsi addirittura di questioni socio-antropologiche. Queste differenze risultano utili per capire perché il neoliberismo non si realizzi come un fenomeno internazionale coerente ed omogeneo, ma crei di volta in volta combinazioni politiche differenti a seconda delle realtà nazionali sociali, economiche ed istituzionali incontrate.

In Europa, è stata la visione ordoliberista a diventare egemone, a partire dal suo successo nella Repubblica federale tedesca e poi nella successiva costruzione dell’Unione Europea dal Trattato di Maastricht del 1992 e soprattutto nella Costituzione del 2005, che poi diventerà il Trattato di Lisbona, il cui articolo 3 delinea l’obiettivo dell’UE come «un’economia sociale di mercato altamente competitiva» col riconoscimento delle quattro libertà del mercato interno (delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali) come diritti fondamentali dei cittadini europei.

L’ordoliberismo nasce negli anni Trenta a Friburgo da economisti come Walter Eucken, giuristi come Franz Böhm e Hans Grossmann-Doerth e sociologi come Alfred Müller-Armack, Wilhelm Röpke e Alexander von Rüstow. Esso si definisce così perché costituitosi attorno alla rivista Ordo fondata da Eucken nel 1940 e si afferma come pensiero e politica dominante con la fondazione della Repubblica Federale nel 1949 e con la “svolta monetarista” della Bundesbank del 1970, anche attraverso la nomina di Ludwing Erhard a ministro dell’economia, una posizione mantenuta per quattordici anni consecutivi (Pühringer, 2016). Il suo dogma è stato “la concorrenza prima di tutto” (Dardot e Laval, 2013) e la sua “economia sociale di mercato” ha potuto affermarsi anche grazie alle circostanze politiche della Germania post-1945, legate soprattutto al fatto che gli Stati Uniti hanno appoggiato tutte le sue scelte allo scopo di costruire un blocco antagonista al collettivismo sovietico e che gli economisti di sinistra erano stati eliminati dai nazisti o erano stati costretti ad emigrare (Miroski e Plehwe, 2009). Dopo un arresto dell’applicazione delle politiche ordoliberiste tra gli anni Sessanta e inizio anni Ottanta quando in tutta Europa si erano affermate politiche economiche keynesiane, con l’ascesa al potere dell’Unione Cristiano Democratica (Cdu). In Italia l’economista più affine a questa ideologia è stato Luigi Einaudi, legato ad alcuni esponenti di spicco della tradizione ordoliberista, in modo particolare a Wilhelm Röpke (Forte e Felice, 2010). Al suo pensiero si richiama Alberto Alesina che è stato definito come il suo “pieno erede” nonché il network legato all’Università della Bocconi, i c.d. “Bocconi Boys”, che comprende economisti come Giavazzi, Tabellini, Perotti, Ardagna, Trebbi, Schiantarelli, Favero, Angeloni, Galasso e Grilli (Oddný , 2016).

La caratteristica principale dell’ideologia ordoliberista è quella di essere una proposta sociale, politica ed economica che si presenta come una terza via tra il liberismo e l’economia pianificata e può essere definita paradossalmente come un neoliberismo stato-centrico (Bonefeld, 2012). Non si tratta della teorizzazione di un ritorno al dogma del laissez-faire, ma di una organizzazione economica in cui si costruisce giuridicamente uno Stato di diritto e un ordine di mercato, la c.d. “economia sociale di mercato” in cui il termine “sociale” rimanda ad una forma di società fondata sulla concorrenza come modalità di legame tra gli attori economici. La concorrenza però non è considerata un fatto naturale, ma come una creazione contingente del legislatore. È quindi in questa prospettiva che viene ripensato il ruolo dello Stato: una politica attiva, tesa alla creazione cosciente di un ordine legale all’interno del quale l’iniziativa privata può dispiegarsi liberamente, purché sottomessa alle leggi della concorrenza. Infatti, oltre al totalitarismo e al collettivismo, sono considerati nemici mortali anche i monopoli, i cartelli e, in generale, le concentrazioni di potere all’interno dei mercati causati non da fattori endogeni, ma da politiche di privilegio e di protezione portate avanti da uno Stato controllato da qualche grande gruppo di interesse privato.

Onde evitare queste distorsioni le regole fondamentali dell’ordinamento economico e dell’intervento statale vanno costituzionalizzate, non lasciando alcun spazio ad un interventismo amministrativo che possa disturbare o intralciare la libertà di azione delle imprese e il meccanismo di formazione dei prezzi. Per poter stabilire se un’azione politica è conforme o meno a questo principio, si deve considerare come discriminante una logica procedurale basata sul rispetto della concorrenza. Quindi, la grande svolta ideologica rispetto al liberismo non è tanto la considerazione che il fallimento del mercato deve autorizzare un intervento statale, quanto piuttosto la teorizzazione della trasformazione dell’azione pubblica che deve risultare governata da rigide regole di concorrenza e sottoposta a costrizioni di efficienza simili a quelle delle imprese private.

Inoltre, la concorrenza deve essere posta alla base non solo del mercato ma anche dell’ordine politico: l’ideale sociale ordoliberale vagheggia una società di piccoli imprenditori, in cui nessuno è in grado di esercitare un potere esclusivo e arbitrario sul mercato e contemporaneamente un regime di democrazia dei consumatori che esercitano quotidianamente il loro potere individuale di scelta (Dardot e Laval, 2013, p. 214).

Si configura così un contratto tra consumatori e Stato, in cui la “costituzione economica”, incoronando la sovranità del consumatore, incorona anche l’interesse generale. Sempre in nome dell’interesse generale viene anche ripensata l’idea di sovranità popolare. Per poter resistere a tutti i gruppi di pressione, infatti, si riconosce come necessario uno Stato forte governato da élite competenti che non rappresentino interessi o appetiti popolari. Per evitare quindi un intervento generalizzato e illimitato dello Stato, è necessario limitare il potere del popolo alla sola elezione dei governi e proteggere l’esecutivo dalle interferenze capricciose delle popolazioni e, se necessario, sospendere temporaneamente le regole democratiche per poter intervenire in situazioni di emergenza (Tribe, 2007). In pratica, ciò che è auspicabile è una de-democratizzazione dello Stato. Questo processo comporta che i dirigenti politici non rispondano più ai propri cittadini, ma al controllo di agenzie di rating e della comunità finanziaria internazionale. Ciò modifica in modo sostanziale i rapporti democratici perché, assumendo efficienza e rendimento finanziario come obiettivi prioritari, il rapporto tra Stato e cittadini/clienti si trasforma in un mero calcolo di costi/benefici, ossia tra le tasse pagate e i servizi resi, eliminando qualsiasi possibilità di partecipazione e di critica che non siano meramente economiche.

La politica sociale va quindi limitata ad una legislazione minima a protezione dei lavoratori, operando una redistribuzione fiscale molto moderata che permetta ad ognuno di poter continuare a partecipare al “gioco del mercato”. Ma siccome la giustizia sociale deve essere garantita non solo nella fase della distribuzione dei profitti, bensì già nel corso del processo di produzione per minimizzare il numero di persone che possono aver bisogno di assistenza sociale pubblica, l’ordoliberismo dà allo Stato un altro obiettivo, quello di trasformare gli individui (Dardot e Laval, 2013). Nel linguaggio degli ordoliberisti questa politica è chiamata Vitalpolitik e viene descritta come una politica sociale in grado di trasformare i «lavoratori recalcitranti in imprenditori responsabili del loro lavoro» (Bonefeld, 2012). Gli individui devono sviluppare capacità imprenditoriali, che pure sono riconosciute come non naturali e che devono essere costruite nel tempo, con l’obiettivo finale di farli arrivare a percepire sé stessi come un’impresa. I lavoratori vanno trasformati in individui innovativi, competitivi, propensi al rischio, eternamente mobili, auto-sufficienti e auto-responsabili che percepiscono la povertà come un incentivo a fare meglio e la disoccupazione come un’opportunità per migliorare. Questa trasformazione permetterebbe ai lavoratori di emanciparsi dalla loro condizione di dipendenza economica, realizzando così la loro piena libertà e responsabilità.

Innalzare un edificio politico minimale dell’Unione Europea sulla base dei principi di una economia concorrenziale di mercato posti a livello costituzionale sembra essere la concretizzazione perfetta del modello ordoliberista, ma ovviamente non si tratta di un modello puro affermato in modo univoco e lineare in tutti i paesi europei, poiché esso si è dovuto adattare, come ogni ideologia, alle specifiche caratteristiche nazionali.

Bibliografia

Bonefeld, W. (2012), “Freedom and the Strong State: On German Ordoliberalism”, New Political Economy, 17:5

Dardot, P. e Laval, C. (2013), La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma

Davies, W. (2014), “Neoliberism: A Bibliographic Review”, Theory, Culture & Society, Vol. 31 (7/8)

Forte, F. e Felice, F. (a cura di) (2010), Il liberalismo delle regole – Genesi ed eredità dell’economia sociale di mercato, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli

Mirowsi, P. – Plehwe, D. (a cura di) (2009), The Road from Mont Pelérin – The making of the Neoliberal Thought Collective, Harvard University Press, Cambridge – London

Oddný, H (2016), “The Bocconi boys go to Brussels: Italian economic ideas, professional networks and European austerity”, Journal of European Public Policy, 23:3, p. 392-409

Pühringer, S. (2016),Think Tank networks of German neoliberalism. Power structures in economics and economic policies in post-war Germany”, ICAE Working Paper Series, No.53

Tribe, K. (2007), “Ordoliberalism and the Social Market Economy”, The History of Economic Thought, Volume 49, No. 1

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.