Al Consiglio europeo l’austerità resta un tabù

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Political and social notes

Nell’ultimo Consiglio europeo (14 e 15 marzo 2013), a parte le dichiarazioni di principio sulla necessità di favorire la crescita e l’occupazione, non è stato compiuto nessun passo avanti sostanziale sul terreno della revisione dei rigidi vincoli di bilancio e di finanza pubblica imposti agli Stati membri dal Patto di stabilità. Nella sostanza è stata confermata la linea del rigore sostenuta dai paesi nordici e, segnatamente dai tedeschi, che sul capitolo del consolidamento dei conti pubblici hanno letteralmente puntato i piedi.

La cronaca dei due giorni riferisce di uno scontro tra francesi e tedeschi sul tema dell’austerità, con i primi a sostenere che c’è un “rischio di rigetto dell’Europa in quanto tale” se il risanamento procede “troppo in fretta” ed i secondi a ribadire che l’obiettivo del pareggio di bilancio “non è in contraddizione ma deve essere visto come interdipendente con la crescita“.

A dire il vero nessuna delle due posizioni ha espresso una consapevolezza piena delle difficoltà in cui versano le varie economie nazionali. Ed anche l’atteggiamento dei francesi è apparso del tutto ingabbiato nella logica rigorista assurta a filosofia dominante in ambito Ue. Alla fine a spuntarla è stata però la Cancelliera tedesca, com’è facilmente desumibile da un confronto tra le sue dichiarazioni rese nel corso del vertice e le conclusioni dello stesso trasfuse nel documento ufficiale. Molto chiaro, da questo punto di vista, il punto 3 delle Conclusioni del Consiglio, che tutte le delegazioni hanno sottoscritto: “Nel percorso verso bilanci strutturalmente in pareggio si stanno compiendo progressi sostanziali che devono continuare. Il Consiglio europeo sottolinea in particolare la necessità di un risanamento di bilancio differenziato e favorevole alla crescita, ricordando nel contempo le possibilità offerte dalle norme di bilancio vigenti del patto di stabilità e crescita e del trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance”.[1] Cosa dice questo punto? Che la disciplina del Fiscal Compact sul pareggio di bilancio rimane in piedi e continuerà a guidare le scelte di finanza pubblica dei paesi membri. E che solo nell’ambito dei vincoli previsti dallo stesso, e dal Patto di Stabilità e Crescita (PSC), si potranno concepire misure dirette a favorire la crescita dell’economia e dell’occupazione. Come a dire: vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca! Da un certo punto di vista queste conclusioni rappresentano un vero passo indietro, perché ripropongono una visione “espansiva” dell’austerità che è stata clamorosamente smentita dalla realtà di questi anni. Cosa significa d’altro canto l’espressione “possibilità offerte dalle norme di bilancio vigenti” se non la riproposizione dello schema secondo il quale le politiche di bilancio restrittive possono costituire delle leve per lo sviluppo dell’economia?

Diciamolo chiaramente: i governanti di questa Europa assomigliano sempre più ai passeggeri del Titanic, disinvolti, festanti, su una nave prossima ad inabissarsi. Eppure di segnali preoccupanti in giro per l’Europa ce ne sono tanti, dalla Grecia alla Spagna, passando per la Slovenia, il Portogallo, l’Ungheria, la stessa Italia. Paesi dove la grave crisi economica, indotta dalle misure di austerità, si sta sempre più impastando a una vistosa crisi politica e a una pericolosa deriva della democrazia. Populismo, sfiducia nelle istituzioni, antipolitica, punteggiano sinistramente il panorama politico europeo, mentre masse sempre più grandi sono tagliate fuori dal benessere e risucchiate dal vortice della povertà. Questo il contesto. Ma i 27 capi di Stato e di governo che si sono incontrati a Bruxelles dal 14 al 15 marzo scorso hanno ragionato come se di fronte avessero una situazione di relativa “normalità”.

Una dimostrazione è venuta anche dalla posizione espressa da Mario Monti, che è arrivato al vertice in rappresentanza (Si fa per dire) di una Italia sbrindellata, smarrita, in profonda crisi, sia economica che politica. In sostanza il nostro Presidente del Consiglio ha chiesto, e ottenuto, che il paese possa ricominciare a spendere denaro pubblico per investimenti, a condizione che il deficit strutturale di bilancio si mantenga in un range compreso tra il pareggio e il 3% del Pil. La montagna ha partorito il topolino, verrebbe subito da dire. Intanto perché non è ancora chiara la tipologia degli investimenti produttivi che potrebbero essere scomputati dal calcolo del deficit pubblico e le modalità con cui si andranno a definire le procedure di scorporo saranno stabilite soltanto nei prossimi mesi, in seguito a negoziati con la Commissione, e tra gli Stati membri, che non si annunciano né facili né scontati. Per l’Italia, nondimeno, gioca sfavorevolmente anche l’assenza di una chiara prospettiva di governo, essendo previsto per il prossimo mese di aprile l’avvio dei negoziati, dopo l’approvazione da parte del parlamento del Programma Nazionale di Riforme (PNR) previsto dal Six pack, il pacchetto di regolamenti varato nel 2011 per rafforzare la governance europea in tema di bilanci pubblici.

Poi c’è il merito della questione, che sta racchiuso in questa frase dello stesso Monti: “Il rigore fiscale resta la priorità”. Certo, perché l’obiettivo del pareggio di bilancio, con quello che ne discende in termini di tagli alla spesa e misure di austerità, rimane praticamente in piedi.

A proposito della tipologia di investimenti da scorporare dal calcolo del deficit si parla, ad esempio, della quota di cofinanziamento dei fondi strutturali europei e dei crediti delle imprese verso le amministrazioni pubbliche. Bene. Ma se non si mette in discussione il folle obiettivo contenuto nel Trattato di Stabilità di ridurre di un ventesimo all’anno la quota del debito che eccede il 60% del Pil, che per l’Italia significherebbe rastrellare circa 50 miliardi all’anno tra tagli alla spesa e nuove tasse, l’effetto sull’economia delle risorse “liberate” verrebbe ad essere immediatamente annullato, neutralizzato, dalle parallele misure di rigore atte a conseguirlo. Delle due l’una: o si applica una moratoria all’abbattimento del debito (c’è chi ha proposto una sua stabilizzazione[2]) e, quindi, si liberano davvero risorse per rilanciare l’economia oppure ogni misura per la crescita sarà solo un palliativo, se non un buco nell’acqua vero e proprio.

L’Europa unita è un vascello in piena tempesta, non comprendere che è arrivato il momento di cambiare a questo punto potrebbe essere davvero un errore esiziale.

[1] EUCO 23/13, Conclusioni del Consiglio europeo (Bruxelles 14 e 15 marzo 2013).
[2] Stabilizzare il debito per arginare l’austerità, di Riccardo Realfonzo, in Economia e Politica, 07.03.2013

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