Le specialità dei porti italiani

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Political and social notes

In un precedente articolo,  avevamo descritto un quadro della portualità italiana in vista dei nuovi provvedimenti annunciati in questo settore con la conversione in legge del Decreto Sblocca Italia. I provvedimenti in questione dovrebbero incidere sul lato della governance portuale, ovvero ridurre il numero delle Autorità Portuali da 24 a 15, un aspetto che sembra andare nella direzione di una razionalizzazione dell’offerta portuale italiana, caratterizzata da una forte  frammentazione organizzativa e operativa, secondo alcuni in quadro di vera e propria anarchia nel quale si riproducono rendite di posizione e interessi particolari[i]. Ovviamente a discapito della definizione di un vero e proprio modello di sviluppo per i porti italiani del Ventunesimo secolo.

Ma i problemi della portualità italiana non sono, a detta di molti osservatori, solo una questione organizzativa. Anzi il problema della governance sarebbe persino un falso problema, o perlomeno un aspetto secondario sul cammino di una visione strategica del settore, se paragonato alla necessità di individuare specializzazioni e competenze di fronte alle distorsioni del mercato provocate dal fenomeno del gigantismo navale e dalla containerizzazione – quella che Sergio Bologna ha definito la “monocultura del container”. In questo senso buona parte degli operatori, dagli armatori agli agenti marittimi[ii], sembra indicare che il problema sta nel cosa si fa, e che la sua declinazione organizzativa dovrebbe esserne la risultante e non l’inverso.

Sembra quindi che dell’annunciata riforma si potranno vedere i frutti solo se essa avrà prima di tutto la capacità di realizzare seriamente l’integrazione tra strutture portuali e infrastrutture terrestri, in direzione dell’intermodalità. Oltre a ciò va preso atto che il conformismo produttivo e culturale rischia, soprattutto nel caso italiano, di far perdere specificità e competenze di questo settore che non necessariamente diventano obsolete con l’introduzione di nuove tecnologie e con l’aumento dei traffici, ma anzi possono costituire un decisivo elemento di valore aggiunto.

In quell’articolo abbiamo dedicato molto spazio alla questione del container poiché è intorno a questa tipologia di trasporto marittimo che sembrano ruotare buona parte dei ragionamenti e delle prese di posizione sulla stampa e nei convegni sulla portualità. Ma l’economia portuale è ovviamente molto più complessa e la diversificazione potrebbe essere il vero punto di forza di quella italiana.

I porti italiani movimentano circa 470 milioni di tonnellate di merci all’anno. Metà di queste appartengono alla categoria delle rinfuse liquide, perlopiù prodotti petroliferi, che notoriamente non lasciano molto in termini di valore aggiunto in un porto, necessitando di pochi servizi e poca manodopera – non mi riferisco ovviamente qui a quella di bordo. Va comunque richiamato il fatto che nel 2013 è stato proprio un porto italiano, Trieste, ad avere il primato assoluto nella movimentazione di greggio in Europa.

Sul lato delle rotte va invece notato che delle merci sbarcate e imbarcate nei porti italiani, più del 50%, rientrano nel settore del short-sea shipping (SSS, le cosiddette autostrade del mare), nel quale l’Italia ha un primato assoluto sia nel Mediterraneo che nel Mar Nero con quasi 250 milioni di tonnellate movimentate nel 2012 (dati Eurostat). Questo comprende anche il container, ma in misura decisamente minore se pensiamo che circa la metà di questo traffico riguarda ancora le rinfuse liquide (prodotti petroliferi e chimici), seguite dai ro-ro (traghetti per il trasporto di camion merci). Una tipologia di traffico, quest’ultima, che ha dato il via a soluzioni innovative di intermodalità che integrano trasporto marittimo e terrestre, e che iniziano ad essere al centro di nuove strategie di investimento, con l’utilizzo di navi e terminal cosiddetti multi–purpose.

Ne è un esempio quanto sta accadendo recentemente nel porto di Trieste da dove alcuni operatori sono riusciti, sfruttando sinergie con operatori ferroviari stranieri, a raggiungere mercati che si trovano a solo 200 chilometri da Rotterdam ed Anversa, ovvero i porti europei più importanti in termini di traffico e di mercato[iii]. Il problema della rete ferroviaria e autostradale, e delle molte strozzature che rappresenta, è uno dei principali elementi critici per lo sviluppo di un sistema logistico e dei trasporti italiano che, unitamente al fatto che gli operatori italiani del settore preferiscono non investire e sfruttare manodopera sottopagata che lavora in condizioni disastrose – lasciando quindi importanti fette di mercato agli operatori stranieri -, sconta anche i ritardi causati dalla lentezza delle procedure doganali.

I porti italiani hanno un traffico consistente anche nei carichi break-bulk, ovvero merci non unitizzate che comprendono anche i cosiddetti project cargo, una categoria di traffici altamente specializzati, ad alto valore aggiunto[iv].

Interessante notare che tali carichi sembrano essere particolarmente vantaggiosi anche per i terminalisti del container, come scopriamo dal racconto di un lavoratore del terminal container di Trieste, da me intervistato:

“Di break-bulk cargo non ne facevamo molti fino a qualche anno fa. Sono tutte merci fuori sagoma, che non consentono l’uso dei contenitori, per le quali si usano i bilancini di sollevamento. Altrimenti viene smontato lo spreader della gru e si lavora alla maniera classica, con cavi, pendagli, fasce, gambetti. I vecchi lavori. Che hanno tempi e tariffe diversi, perché ci vuole più tempo e più specializzazioni.

“I coordinatori negli anni hanno fatto corsi appositi, ora ne faranno altri, ma non esistono in realtà corsi che ti insegnano a fare questa cosa, la impari solo lavorando.

“E ora lo facciamo sempre, su quasi ogni nave oceanica. Facciamo thruster,ad esempio, eliche, e ne facciamo molte. Eliche giganti per navi, roba da 50-60 tonnellate. Poi cassoni vari, con motori prodotti qui dalla Wartsila. E poi yacht, imbarchiamo molti yacht.

“È un bel giro, ed è interessante, perché è un lavoro particolare, non è la solita routine del contenitore. Se, ad esempio, su una portacontainer Maersk che arriva imbarchiamo 6 thruster in stiva, significa sei virate in stiva, e poi la gente che viene a rizzare: c’è tutto un indotto di lavoro non indifferente, e sono già almeno tre anni che lavoriamo molto su queste cose, dalle quali saltano fuori un bel po’ di soldi”.

Da questa testimonianza è possibile comprendere diversi aspetti riguardanti il lavoro portuale di oggi. Innanzitutto a parlare è un lavoratore dell’ultima generazione, quella entrata nei porti durante o immediatamente prima dell’inizio del cosiddetto super-cycle iniziato nel 2002, con il quale il trasporto su container ha rivoluzionato i traffici globali, espandendoli a dismisura. Nella sua testimonianza non c’è quindi nostalgia per “i vecchi lavori”, non c’è nessun passato mitico a cui tornare, ma la consapevolezza che nei porti odierni è necessario che continuino a svilupparsi professionalità e competenze che comprendono anche certi “vecchi lavori”. Il ciclo del container è quanto di più simile a un ciclo industriale, almeno nelle intenzioni di chi lo dirige e ne trae profitti. L’introduzione del container ha significato tentare di eliminare o perlomeno ridurre le troppe incognite che da sempre distinguono la produzione portuale da qualsiasi altro ciclo produttivo[v]. A chi lavora nei terminal – e nello specifico proprio in un terminal container che, anno per anno, deve confrontarsi con la concorrenza immediata di altri tre porti vicini (Koper, Rijeka e Venezia) – è chiaro che diversificare la specializzazione produttiva ha immediate ricadute economiche in termini di valore aggiunto, di occupazione, ma anche di riconoscimento della dignità e della qualità del lavoro che si svolge.

Ma la questione non riguarda soltanto gli aspetti più direttamente materiali della produzione nei porti. Per molti versi la rivoluzione dei traffici marittimi che ha investito il settore da trent’anni a questa parte ha a che fare con quella che Sergio Bologna definisce knowledge economy del settore, ovvero il terziario marittimo che coinvolge gli aspetti finanziari e assicurativi, ma anche di servizi alla nave, ad altissimo valore aggiunto e che difficilmente si sviluppano attorno al ciclo del container. Esistono operatori italiani di questo settore che però in Italia operano in pochissimi porti – Genova e Napoli principalmente – e sono invece tra i più qualificati in altri mercati mondiali, ma le cui competenze sono il frutto di una tradizione legata alla portualità e che l’Italia rischia di fatto di vedere scomparire rapidamente.

Tutti questi elementi, che si riferiscono a un periodo di crisi economica che potrebbe rivelarsi strutturale, per certi versi dimostrano che il rilancio di un sistema portuale potrebbe rivelarsi assolutamente competitivo non tentando di inseguire i concorrenti sul loro stesso terreno – cioè quello del container –, o illudendosi che riforme della governance siano in grado di innescare verticalmente innovazione e cambiamento, ma puntando su competenze e specializzazioni che facciano la differenza, con tutta probabilità rimettendo al centro il lavoro portuale, anziché considerarlo, come troppo spesso accade, solo un problema di costi.

*dottorando dell’Università della Calabria

 

[i] Vedi l’articolo Porti italiani, regna l’anarchia, pubblicato su Il Secolo XIX del 2 ottobre 2014 a firma di Giorgio Carozzi.
[ii] Vedi intervento di Sergio Bologna al convegno di Federagenti dal titolo “Accettare la nuova normalità, Considerazioni sull’attuale fase del mercato marittimo-portuale”, Trieste, 20 giugno 2014.
[iii] Vedi Il Piccolo del 18 gennaio 2014.
[iv] I termini break-bulk e general cargo in linea di massima coincidono, e servono a distinguere modalità molto varie di gestione del carico o della spedizione, da quelle cosiddette invece bulk, per le quali si parla di liquid bulk cargo, per riferirsi alle rinfuse liquide (greggio, olii, liquidi in generale) e dry bulk cargo, rinfuse solide (che possono comprendere grani, minerali etc..).
[v] Si veda il capitolo 3, Il ciclo portuale come ciclo industriale: i terminal container in Sergio Bologna, Le multinazionali del mare, Egea.

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