Gli effetti dell’austerity: un confronto internazionale

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La crisi planetaria degli anni 2008-2014 può essere senz’altro considerata come la più grave depressione economica degli ultimi 70 anni, seconda solo alla violenta recessione globale generata dal tracollo finanziario della Borsa di Wall Street nel 1929.  Le conseguenze della deflagrazione della gigantesca bolla immobiliare statunitense – palesatasi attraverso l’insolvenza dei mutui subprime (mutui caratterizzati da un elevato rischio finanziario ed elargiti a clienti a forte rischio debitorio) – hanno investito indiscriminatamente tutte le grandi economie occidentali, con considerevoli ripercussioni negative sul reddito e sull’occupazione. Ovviamente, com’è lecito attendersi in queste particolari congiunture, gli effetti della crisi finanziaria si sono presto traslati sul benessere e sulla qualità della vita della popolazione, innescando pericolosi conflitti sociali e danneggiando la coesione di ampi strati della società stessa. Un esempio calzante è rappresentato dalla situazione italiana, dove negli ultimi anni si è assistito ad una crescente concentrazione del reddito che ha accentuato le divergenze fra soggetti relativamente poveri e soggetti relativamente ricchi [1]. Tuttavia, non tutti i Paesi colpiti dalla recessione hanno adottato politiche economiche omogenee per rispondere alla crescente disuguaglianza; anzi, possiamo rilevare una sostanziale divergenza fra economie avanzate appartenenti all’Eurozona e grandi economie esterne all’area Euro.

Sulla scorta di tali considerazioni, cercheremo di realizzare un’analisi comparata delle scelte e degli output economici di due gruppi di Paesi: i Paesi in difficoltà dell’area Euro (Cipro, Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Francia, Olanda e Finlandia) e alcune grandi economie in sostanziale ripresa che non adottano la moneta unica europea (Australia, Canada, Islanda, Svezia, Norvegia, USA, Israele, Nuova Zelanda, Svizzera, Giappone e UK). [2]

In particolare, eseguiremo un esercizio empirico (dimostrativo) teso a quantificare l’incidenza  degli investimenti fissi lordi [compreso l’ammortamento (in altre parole, il costo del deprezzamento subito dal capitale a causa del trascorrere del tempo] sul  PIL  pro capite  e sul  tasso di disoccupazione nel periodo 2009-2013. Tuttavia, prima di mettere in correlazione tali variabili è bene analizzarne la dinamica relativa per il medesimo periodo. Gli investimenti fissi dei soggetti privati rappresentano un elemento fondamentale della domanda aggregata ed identificano lo stock di capitale produttivo  presente nel sistema economico. Nel periodo 2009-2013, notiamo chiaramente una divaricazione crescente fra il livello degli investimenti medi sul PIL dei Paesi avanzati esterni all’Euro e di quelli della zona Euro. I primi sono cresciuti progressivamente, mentre i secondi hanno registrato una notevole picchiata verso il basso.

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In seconda battuta, esaminiamo la dinamica del PIL pro capite medio (PPA) per i medesimi gruppi. Il grafico sottostante mostra inequivocabilmente come i due gruppi seguano direttrici divergenti: i Paesi esterni alla zona Euro hanno fatto registrare un aumento medio di 4.347,2 dollari (+11,53%), a fronte di un esiguo incremento medio di 525,85 dollari (+1,69%) per l’economie appartenenti all’Eurozona. Tuttavia, il dato più eclatante lo si ottiene disaggregando parzialmente i dati e considerando solo i cosiddetti PIIGS (acronimo coniato dal settimanale “Business Week” per definire le economie europee periferiche in crisi), i quali hanno fatto registrare addirittura una perdita media di 206,39 dollari (-0,70%).

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Infine, valutiamo l’andamento del tasso di disoccupazione medio. Ebbene, la tendenza sembra confermata: i Paesi dell’Eurozona sono stati caratterizzati da un aumento quasi esponenziale del tasso di disoccupazione (15,23% medio nel 2013) con uno scostamento positivo di 5,93 punti percentuali rispetto al 2009 (per i PIIGS addirittura +7,68 punti), mentre le economie esterne all’Eurozona hanno fatto registrare una lieve ma costante diminuzione del medesimo tasso, con un decremento netto di 1,02 punti percentuali.

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E’ interessante notare come nonostante una moderata diminuzione media del PIL pro capite, i PIIGS abbiano conosciuto un così consistente incremento della disoccupazione. [3] Passiamo adesso all’esercizio vero e proprio, con la regressione fra gli scostamenti medi degli investimenti fissi (calcolati come sommatoria delle variazione percentuali assolute annuali per ciascun Paese) e la variazione del PIL pro capite nel periodo 2009-2013 (calcolata come scostamento assoluto in unità monetarie).

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L’indice di correlazione lineare è particolarmente alto, risultando pari a +0,85 (esso denota una forte concordanza fra le variabili in questione). A questo si aggiunge un r-quadro piuttosto robusto e significativo, che sottolinea un buon adattamento del modello al fenomeno. Infine, l’equazione della retta di regressione lineare ci dice che in media ogni punto percentuale supplementare di investimenti fissi, permette di generare 659,55 dollari (circa 490,34 euro) di PIL pro capite addizionale.

Successivamente, eseguiamo il medesimo esercizio mantenendo fisso il regressore ma modificando la variabile dipendente, che sarà rappresentata dallo scostamento medio del tasso di disoccupazione. Anche in questo caso l’indice di correlazione lineare è molto buono, essendo pari a +0,81 (con un r-quadro dello 0,66). Inoltre, l’equazione della nostra retta di regressione ci dice che in media ogni punto percentuale aggiuntivo di investimenti fissi, determina un decremento dell’1,27% del tasso di disoccupazione.

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L’output sembra piuttosto chiaro: le regressioni evidenziano come una maggiore propensione all’investimento dei Paesi esterni all’Eurozona, abbia favorito una ripresa dell’economia e un riassorbimento della disoccupazione, a dispetto del lassismo dei Paesi dell’Eurozona ivi considerati, che avrebbe favorito l’accentuarsi della crisi. A questo punto ci si potrebbe chiedere il perché di tali divergenze. La risposta più logica e probabilmente più banale risiede nella divergenza in termini di politiche economiche adottate, che hanno visto i Paesi dell’Eurozona optare per una decisa strategia di austerity. In altre parole, tali Paesi hanno inseguito il mito e l’utopia della cosiddetta austerità espansiva, così tanto propugnata e caldeggiata dalla Banca Centrale Europea. Tuttavia, non ci si può limitare ad un analisi superficiale del fenomeno; è assolutamente necessario analizzare alcune variabili chiave che possano darci una dimensione chiara di quanto è accaduto negli ultimi anni. Il grafico sottostante mostra l’andamento della spesa pubblica media in percentuale del PIL. Esso evidenzia un calo tutto sommato omogeneo sia per i Paesi in ripresa che per quelli in difficoltà. Tuttavia, se l’analisi viene fatta partire dal 2010, notiamo come i Paesi dell’Eurozona abbiano fatto registrare un tracollo della spesa stessa, con un taglio medio del 4% (per i PIIGS la decurtazione si attesta sul 6,11%) a fronte del -1,74% dei Paesi in ripresa.

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Tuttavia, tale differenza non è suscettibile di dimostrare la divaricazione in termini di stimolo all’investimento nelle due macro aree. Per questo motivo analizziamo anche la dinamica delle entrate fiscali in percentuale del PIL.

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In questo caso, il differenziale in termini di scostamento è notevole: i Paesi dell’Eurozona hanno fatto segnare un incremento medio del 2,84% del gettito fiscale (+3,08% per i PIIGS), mentre quelli all’esterno dell’Eurozona si sono attestati su un esiguo aumento dello 0,44%. Il dato è particolarmente significativo alla luce dell’evidente scostamento in termine di PIL pro capite medio (Grafico 2); infatti è logico aspettarsi che il gettito fiscale sia funzione lineare diretta del reddito prodotto. Tuttavia, mentre nei Paesi dell’Eurozona, ad un ridotto incremento del PIL pro capite medio  è seguito un sostanziale aumento delle entrate fiscali, in quelli esterni all’Euro, ad un aumento del PIL pro capite medio dell’11,53% è seguito un marginale incremento del gettito (addirittura nel biennio 2009-2010 c’è stata una contrazione).

Quindi ad una politica di forte spending review, i Paesi dell’Eurozona hanno affiancato anche una stringente politica fiscale restrittiva. Lo stesso Blanchard (capo economista del FMI), ha di recente sconfessato le sue iniziali previsioni sui moltiplicatori fiscali, confermando un lapalissiano errore di calcolo. Infatti, mentre le stime previsionali davano il moltiplicatore a 0,5 (per 1 euro di contrazione fiscale si produce una depressione economica di 0,5 euro),  a consuntivo esso si è attestato addirittura sul valore di 1,5. [4] Ovviamente, tali scelte hanno prodotti effetti molto negativi anche in termini di sostenibilità del debito pubblico, che come evidenziato dal grafico 8, è cresciuto con particolare veemenza nei Paesi Euro considerati.

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In media si è registrato un aumento medio del 33,28% del rapporto debito/PIL, (nei PIIGS è stato del 40,74%) in netta contrapposizione con quanto avvenuto nei Paesi extra Eurozona, che hanno subito un incremento medio nel medesimo rapporto di appena 7,45 punti percentuali. Alcuni potrebbero sollevare obiezioni e dubbi sul seppur contenuto aumento del debito nella seconda categoria di Paesi analizzati; tuttavia, dal grafico si nota chiaramente come l’incremento riguardi i primi due anni, decorsi i quali si verifica una sostanziale stabilizzazione del rapporto.

L’unico “beneficio” delle politiche di austerità può essere forse ravvisato nel prossimo grafico, avente ad oggetto il saldo della bilancia commerciale.

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Infatti, osserviamo una netta divergenza nelle due direttrici: i Paesi dell’Eurozona hanno colmato progressivamente i loro deficit commerciali verso l’estero (i PIIGS hanno recuperato più di 7 punti percentuali, finendo addirittura in surplus), mentre quelli estranei all’Eurozona sono stati caratterizzati da un andamento lievemente sinusoidale, che conduce ad una variazione pressoché nulla. Tuttavia, è bene sottolineare come le situazioni di partenza siano completamente differenti; infatti, nel 2009 i Paesi dell’Eurozona erano caratterizzati da un deficit endemico e consistente, mentre i secondi presentavano un leggero surplus verso l’estero. Il beneficio effettivo si può ravvisare nella costante riduzione dello  spread (per l’Italia la differenza % fra il rendimento dei titoli BTP decennali e il rendimento dei Bund decennali tedeschi), che ha compresso notevolmente i tassi di interesse pagati sul debito pubblico. Tale considerazione è basata sull’analisi dell’economista tedesco Daniel Gros (replicata successivamente da Emiliano Brancaccio), il quale ha evidenziato come vi fosse una correlazione negativa molto marcata fra l’andamento dei conti con l’estero del triennio 2007-2009 dei Paesi dell’Unione Europea e i relativi spreads del Febbraio 2011 (i quali sembrano essere funzione diretta  del rischio di default degli Stati Sovrani).[5] Non a caso un deficit estero elevato spesso si configura quale importante spia della scarsa competitività e debolezza commerciale di un Paese.

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A ben vedere (in particolar modo per i PIIGS) si tratta di una magra consolazione, in quanto gli altri parametri economici sono in caduta libera e senza alcuna prospettiva di ripresa nel breve termine. Inoltre, è bene precisare che l’effetto della caduta dei tassi  di lungo periodo non ha avuto i medesimi effetti per tutti i PIIGS; infatti, se si contemperano i dati con il tasso di inflazione, la Spagna al Dicembre 2011 aveva un costo reale del debito del 3,25%, mentre lo scorso Maggio 2014 esso era addirittura lievemente aumentato, raggiungendo il 3,35%. Situazione similare per l’Italia, passata nello stesso arco temporale, dal 3,31% al 3,24% [6]. Quindi, soprattutto nei PIIGS aleggia il pericolo di una violenta escalation deflazionistica, che come ricordato da Krugman [7] aggraverebbe ulteriormente le cose. Infatti, lo stesso premio Nobel ha più volte rimarcato l’importanza che una moderata inflazione potrebbe avere nell’alleggerire l’onere dei debiti sovrani.

In conclusione, la mancanza di politiche fiscali espansive, le difficoltà di accesso al credito e il taglio netto della spesa pubblica, sembrano aver accentuato le difficoltà dell’area Euro. Come ricordato più volte da economisti keynesiani, come Riccardo Realfonzo ed Emiliano Brancaccio,  ma anche Krugman e Stiglitz, la recessione attuale è dettata principalmente dalla carenza di domanda da parte dei consumatori. Non c’è una domanda che attivi il motore dell’offerta e stimoli contestualmente gli investimenti del settore privato, i quali rappresentano l’unico viatico possibile per l’assorbimento della disoccupazione e per la rivitalizzazione del sistema economico.

Quindi, ci sembra auspicabile una rinegoziazione dei parametri di Maastricht (con forte accento sul vincolo del 3% del rapporto deficit/PIL), che accantoni definitivamente le strategie di demonizzazione della spesa pubblica e rimetta al centro del dibattito politico l’importanza dell’intervento statale nel coadiuvare e nel favorire l’investimento privato.

 

[1] Secondo il rapporto OCSE 2008 “Growing Unequal”, l’Italia è il sesto Paese col più ampio differenziale fra soggetti relativamente ricchi e soggetti relativamente poveri (fra i Paesi OCSE). A questo va aggiunto l’alto tasso di immobilità sociale intergenerazionale (rapporto fra gli stipendi dei padri e dei figli), che stando alle elaborazioni dell’economista canadese Miles Corak (concretizzatesi nella curva di Gatsby introdotta nel 2012), sarebbe tra i più alti fra i Paesi industrializzati (il valore stimato è dello 0,50 contro lo 0,33 della Germania, lo 0,41 della Francia e lo 0,19 del Canada).
[2] I Paesi industrializzati esterni all’Eurozona sono stati scelti sulla base di criteri molto eterogenei (PIL, dimensioni territoriali e latitudine), al fine di rendere l’analisi più efficace. Se si considerano tutti i Paesi considerati (Paesi dell’Eurozona + Paesi esterni) otteniamo un PIL aggregato (PPA) pari al 40,21% di quello mondiale (Ns. elaborazioni su dati FMI).
[3] Tale output può essere interpretato ,in approssimazione, ricorrendo all’equazione del tasso di disoccupazione interna alla curva di offerta aggregata di Olivier Blanchard =>   dove Y indica il reddito totale prodotto, mentre A e L la produttività del lavoro e la forza lavoro. Le tabelle seguenti mostrano la variazione annua percentuale della produttività e lo scostamento assoluto della forza lavoro.
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Quindi, a fronte di una diminuzione media dello 0,7% del PIL pro capite (PPA), si è verificato un incremento medio dello 0,92% (1,00%, se ponderato su L) della produttività e addirittura una diminuzione dello 0,03% della forza lavoro. L’output sembra contradditorio. Infatti, il dato della forza lavoro ignora una componente fondamentale, rappresentata dalla percentuale degli scoraggiati (coloro i quali non cercano più impieghi) e che Krugman ricomprende nella più ampia categoria degli affiliati marginalmente alla forza lavoro [sottoccupati + scoraggiati che hanno cercato lavoro nel recente passato + scoraggiati che hanno abbandonato ogni ricerca)] . Nello specifico, fra il 2009 e il 2013, nei Paesi considerati il numero degli scoraggiati ha subito un incremento pari a 950,37 mila unità* (ns. elaborazioni su dati Eurostat), che se incluso nel calcolo della forza lavoro, ne farebbe lievitare lo scostamento ad un più realistico +1,47%. Quindi tenendo conto del fatto che Y < AL (poiché sappiamo che Y=AN e che L=N+U) e che si tratta di una semplice approssimazione media, possiamo ritenere interpretato almeno parzialmente l’aumento del tasso di disoccupazione (prevale l’effetto moltiplicativo del denominatore), sul quale hanno (ovviamente) agito diversi altri fattori. *Solo in Italia, l’aumento è stato di circa 570 mila unità.
[4] Blanchard, O. J., & Leigh, D. (2013). Growth forecast errors and fiscal multipliers (No. w18779). National Bureau of Economic Research.
[5] Brancaccio, E. (2012), Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a “European wage standard”, International Journal of Political Economy, vol. 41, Number 1.
[6] I valori relativi alla Spagna e all’Italia sono di sèguito rappresentati:

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[7] Krugman P. (2012), “Not enough inflation”, The New York Times, April 5, 2012.Fonte: dati Istat, OCSE e INE (Istituto Nacional de Estadìstica).

 

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