Jobs Act e integrazione salariale

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1. Criteri di delega in tema di integrazione salariale – La soverchiante attenzione dedicata dal dibattito pubblico al regime dei licenziamenti individuali e collettivi, nella legge delega 183/2014 e nel decreto legislativo, ha distratto da altri aspetti. In questa sede mi occuperò di integrazione salariale. [1]

La finalità è nel comma 1: “razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale e […] favorire il coinvolgimento attivo di quanti siano espulsi dal mercato del lavoro ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali, semplificando le procedure amministrative e riducendo gli oneri non salariali del lavoro”. Il comma 2 traduce queste finalità per quanto riguarda gli “strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro” (lett.a)), in sette criteri relativi all’integrazione salariale.

Per quanto riguarda i criteri in se stessi, è stato rilevato che “per taluni di essi appare difficile, almeno per chi scrive, individuarne il senso”[2].

Vorrei invece proporre una lettura un po’ differente, perché mi pare emergano le linee di un disegno, in sostanziale continuità con le politiche legislative di precedenti Governi, e tuttavia sempre più netto nei suoi contorni, tale da determinare un salto di qualità nella disciplina.

Il primo criterio dispone la “impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione definitiva di attività aziendale o di un ramo di azienda”. In continuità con la norma che ha abrogato dal 2016 la causale di cui all’art. 3 l. 223/1991, si intende limitare l’intervento dell’integrazione salariale alle cessazioni temporanee, con tutta l’equivocità che questa distinzione comporta, specie nei casi di crisi aziendali. Si tratta, come ha detto Ichino all’XI Commissione del Senato, dei casi in cui vi sia una “ragionevole prospettiva di ripresa dell’attività stessa”.

Il secondo criterio prevede la “semplificazione delle procedure burocratiche attraverso l’incentivazione di strumenti telematici e digitali, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati a livello nazionale di concessione dei trattamenti preceìvedendo strumenti certi ed esigibili”. Il riferimento al livello nazionale inverte la tendenza alla regionalizzazione della CIG attuata con gli ammortizzatori sociali in deroga.

Qui si potrebbe addirittura arrivare alla soppressione degli obblighi di consultazione sindacale, e potrebbe emergere una riqualificazione giuridica dell’integrazione salariale. Gianni Garofalo osservò che “l’istituto può essere letto solo come strumento della politica pubblica del lavoro”[3]. Si può discutere quanto i governi abbiano adoperato in tal senso l’integrazione salariale – specie l’integrazione salariale straordinaria -, ma è certo che la previsione di “strumenti certi ed esigibili” potrebbe trasformare l’integrazione salariale in un diritto soggettivo dell’impresa richiedente, azzerando la discrezionalità amministrativa sinora prevista, e disgregandone la funzione di strumento di governo dei mutamenti dei settori economici interessati.

Il terzo criterio, definito come “necessità di regolare l’accesso alla cassa integrazione guadagni solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà” – ma i contratti di solidarietà prevedono sin dalla l. 863/1984 l’intervento della cassa integrazione a sostegno dei lavoratori il cui orario sia stato ridotto (art. 1, co. 1), e dunque l’inciso finale del criterio non ha un contenuto a meno che non si riferisca al finanziamento dell’aumento del trattamento[4] – sembra qualificare l’integrazione salariale come extrema ratio: bisognerà vedere che tipo di incentivazione sarà destinata ai contratti di solidarietà, mentre la previsione rischia di introdurre una complicazione del procedimento di concessione, che potrebbe ricreare la discrezionalità dell’autorità concedente. Peraltro, questa configurazione non potrebbe riguardare l’integrazione salariale ordinaria, la quale copre anche ipotesi di impossibilità sopravvenuta non imputabile, per le quali i contratti di solidarietà non servono.

Il quarto criterio dispone la “revisione dei limiti di durata da rapportare al numero massimo di ore ordinarie lavorabili nel periodo di intervento della cassa integrazione guadagni ordinaria e della cassa integrazione guadagni straordinaria e individuazione dei meccanismi di incentivazione della rotazione”. Per quanto riguarda l’incentivazione della rotazione, non è chiaro se si intenda che la rotazione cessi di essere il criterio generale e residuale[5], come attualmente è ex art. 1, co. 8, L. 223/1991. Quanto ai limiti di durata, in se stesso il criterio è neutrale, non precisando se si tratterà di una revisione al ribasso o al rialzo.

Il quinto e il sesto criterio possono essere trattati unitariamente, trattandosi di uno degli elementi più significativi di novità. Vi si prevede dapprima “una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici”, e poi “riduzione degli oneri contributivi ordinari e rimodulazione degli stessi tra i settori in funzione dell’utilizzo effettivo”[6]. Come si sa, attualmente l’integrazione salariale è finanziata sia da contributi ordinari a carico dei datori e dei lavoratori che gravano su tutte le imprese rientranti nel campo di applicazione della disciplina[7], sia da contributi addizionali a carico delle sole imprese utilizzatrici[8], oltre che dalla parte a carico dello Stato. Si tratta, dunque, di un meccanismo con un contenuto parzialmente solidaristico.

La riforma del finanziamento invece tende a diminuire gli elementi solidaristici, rafforzando con una sorta di bonus/malus settoriale gli elementi assicurativi del sistema: si può dire che soprattutto il criterio di cui al n. 6 riveli l’ispirazione dell’intervento legislativo. La settorializzazione degli oneri in funzione “dell’utilizzo effettivo” – espressione che sembra rimandare più che alle ore concesse al cd. tiraggio, che è sempre, e talvolta anche sensibilmente, inferiore[9] – appare infatti una insospettabile manifestazione di adesione del legislatore al principio maoista del “bastonare il cane che affoga”: più un settore industriale – è ancora e sempre l’industria la maggiore utilizzatrice dell’integrazione salariale[10] – è in crisi, e dunque ricorre all’integrazione salariale, più le imprese dello stesso settore già in difficoltà, ma non ancora utilizzatrici, saranno gravate di oneri contributivi per il finanziamento dell’integrazione salariale stessa[11]. Si tratta dunque per il legislatore di accompagnare le tendenze del mercato, anziché usare l’integrazione salariale come strumento di compensazione per dare alle imprese coinvolte il tempo di adeguarsi e superare le difficoltà.

La deindustrializzazione in corso – neppure avvertita come fenomeno drammatico per il nostro Paese[12] – viene dunque sostanzialmente assunta come fenomeno naturale.

Il settimo criterio di delega dispone una “revisione dell’ambito di applicazione” sia dell’integrazione salariale sia dei fondi di solidarietà di cui all’art. 3 L. 92/2012. Significativa pure la previsione finale, per la quale “eventuali risparmi di spesa” potranno essere destinati al finanziamento delle disposizioni dei primi quattro commi della legge: praticamente, gli eventuali risparmi saranno destinati a uno qualunque tra gli strumenti di politica del lavoro previsti.

Dunque, dalla revisione del campo di applicazione ci si attendono risparmi di spesa: il che appare sorprendente, a meno che la “attuazione delle disposizioni di cui alle presente lettera” sottintenda che – escluso il rilievo economico sia dell’automatismo della concessione, che anzi secondo il servizio Bilancio del Senato potrebbe portare a un incremento della spesa[13], sia della configurazione dell’integrazione salariale come extrema ratio – dalla riduzione delle causali, dei limiti di durata, dell’ambito di applicazione o dall’incremento complessivo degli oneri contributivi, possano derivare tali risparmi. Insomma, meno ammortizzatori sociali per tutti o aggravio finanziario per il sistema delle imprese.

  1. Una conclusione provvisoria: crisi, mercato del lavoro e integrazione salariale nell’ideologia implicita della L. 183/2014 – Come ho già scritto, almeno per quanto riguarda l’integrazione salariale mi pare che un disegno sia leggibile, con la sua interpretazione della crisi.

Si continua a predicare l’estinzione degli ammortizzatori sociali in deroga[14], malgrado che la dura realtà della crisi abbia ripetutamente portato in questi anni al loro rifinanziamento. Gli ammortizzatori in deroga sono la via storta all’universalizzazione delle tutele, ma qui il legislatore trae dalla vicenda la lezione sbagliata.

Anziché verso l’universalizzazione del sistema di tutele in costanza di rapporto di lavoro, si intende andare, come in parte già nella L. 92/2912, verso una settorializzazione e dunque una corporativizzazione, secondo una linea già tracciata nel Libro Bianco del 2009[15] e rivelatasi sinora impraticabile.

Inoltre, per l’integrazione salariale si intende dismettere la funzione – almeno potenziale – di strumento di politica industriale: concetto evidentemente tabù per chi preferisce meccanismi automatici, non selettivi, non discrezionali, orizzontali, e dunque sostanzialmente inutili e già falliti in partenza, conformemente alle catastrofiche impostazioni della Commissione Europea, i cui esiti sono sotto gli occhi di tutti[16].

Questa impostazione dell’integrazione salariale la intende come strumento eccezionale, destinato solo a crisi temporanee – estremizzando ciò che è sotteso alla legge delega, si dovrebbe far sopravvivere solo l’integrazione salariale ordinaria – mentre la conservazione dell’integrità del complesso aziendale in caso di crisi prolungata – si pensi alla revisione dei limiti di durata – è ritenuta un ostacolo alla nuova circolazione sul mercato dei fattori della produzione: meglio disgregare il complesso aziendale e quindi estinguere anche i rapporti di lavoro.

La cosa più singolare, però, è l’idea che dalla revisione degli ammortizzatori sociali possa derivare un risparmio: in piena crisi economica, mentre continuano a precipitare i processi di deindustrializzazione dell’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa[17].

Dunque, l’idea dei criteri di delega si può tradurre in “meno ammortizzatori sociali per tutti”. Del resto, tutti i governi degli ultimi anni hanno continuato a interpretare male la crisi, e a perseguire logiche austeritarie di contenuto prociclico. In questa quadro, la disoccupazione è interpretata senza alcun fondamento come derivante da mismatch domanda/offerta di lavoro, con tutta l’implicita colpevolizzazione dei lavoratori che ne consegue e qui dimostrata dalle disposizioni in tema di condizionalità, le quali si estendono contraddittoriamente ai lavoratori che godono di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro: segno forse della cattiva coscienza del legislatore, che si rende conto della pratica inapplicabilità delle sue previsioni.

La L. 183/2014, quindi, si presenta almeno per questo versante come una estremizzazione della stessa impostazione fallimentare già seguita nella L. 92/2012. Ai lavoratori e alle lavoratrici toccherà forse rimpiangere il pragmatismo con il quale il Governo Berlusconi e il Ministro Sacconi vararono l’accordo Stato-Regioni del 12 febbraio 2009, e la generalizzazione degli ammortizzatori sociali in deroga.

[1] Sintesi dell’intervento svolto al Convegno di Napoli del 4 dicembre 2014, pubblicato in M. Rusciano e L. Zoppoli (a cura di), Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, WP CSDLE “Massimo D’Antona” – Collective Volumes – 3/2014, pp. 42-56.
[2] A. Sgroi, La tutela dei diritti previdenziali e assistenziali nella crisi, in RGL, 2014, I, p. 234. L’A. prosegue osservando “a titolo esemplificativo, non si comprende quale significato debba assegnarsi al principio «previsione di una maggiore compartecipazione delle imprese utilizzatrici»; il tutto è rimandato ai decreti delegati con un margine di manovra dell’apparato legislativo molto ampio”: ma è facile rilevare che in realtà indeterminato è solo il quantum dell’incremento del contributo addizionale.
[3] M.G. Garofalo, Eccedenze di personale e conflitto: profili  giuridici, in DLRI, 1990, p. 300.
[4] Disposto inizialmente con l’art. 1, co. 6, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, convertito in L. 3 agosto 2009, n. 102, nonché prorogato annualmente, sempre con limiti di spesa, con l’art. 1, co. 33, L. 13 dicembre 2010, n. 220, con l’art. 33, co. 24, L. 12 novembre 2011, n. 183, con l’art. 1, co. 256, L. 24 dicembre 2012, n. 228 e con l’art. 1, co. 186, L. 27 dicembre 2013, n. 147 (ma in questo caso con incremento solo al 70%, anziché all’80% della retribuzione perduta, e riduzione dello stanziamento). Va osservato che alcune Regioni avevano provveduto in proprio all’incremento del trattamento (v., per esempio, Regione Puglia, D.G.R. 20 ottobre 2009 e D.D. 22 marzo 2011, n. 148).
[5] Cass.  26 settembre 2011, n. 19618.
[6] A. Sgroi, op.loc.cit., afferma che “non si comprende perché si intenda ridurre l’onere contributivo a carico dei settori che fruiscono dell’integrazione salariale”: a me pare invece che si tratti chiaramente di una misura volta alla riduzione del costo del lavoro (gli “oneri non salariali” di cui al co. 1), compensata come si dirà nel testo da una redistribuzione degli oneri stessi.
[7] Art. 12 L. 20 maggio 1975, n. 164; art. 9 L. 29 dicembre 1990, n. 407.
[8] Art. 12 L. 20 maggio 1975, n. 164; art. 8, co. 1 e 1-bis. D.L. 21 marzo 1988, n. 86, conv. con modificazioni in L. 20 maggio 1988, n. 186; art. 1, co. 4, L. 23 luglio 1991, n. 223.
[9] Il problema è segnalato dalla Corte dei conti, sez. centr. contr.  Stato, 9 aprile 2014, Relazione su L’evoluzione del sistema degli ammortizzatori sociali e relativo impatto economico, p. 12, con riferimento all’integrazione salariale ordinaria, ma il fenomeno ha portata più ampia.
[10] Nel 2013 su 527 milioni di ore di CIGS autorizzate, 397 milioni lo sono state per le attività manifatturiere; per la CIGO sono state 250 milioni di ore su 356; per la cassa in deroga – il cui campo di applicazione è più ampio – sono comunque state 118 milioni di ore su 299 (Fonte: www.inps.it).
[11] Non comprendo perché A. Sgroi, op.loc.cit., affermi che “appare economicamente corretta una ripartizione del peso contributivo diversa secondo il grado di utilizzo dell’istituto per ciascun settore”, salvo voglia riferirsi al carattere assicurativo del meccanismo.
[12] M. Pianta, An Industrial Policy for Europe, in Seoul Journal of Economics, 2014, segnala (p. 282, Table 1) che il valore reale della produzione industriale – costruzioni escluse – in Italia nel 2013 è pari al 79% di quello che era nel 2008, prima della crisi: una delle peggiori performance in Europa.
[13] Nota di lettura, p. 6.
[14] A. Sgroi, op.cit., p. 234 n. 28, osserva che “si parla sempre di integrazione salariale ordinaria e straordinaria, mentre nulla si dice dell’integrazione salariale in deroga; si deve presumere che la stessa, nelle intenzioni del legislatore, scomparirà”.
[15] La vita buona nella società attiva. Libro Bianco sul futuro del modello sociale, maggio 2009, in www.adapt.it.
[16] Per la critica all’approccio “orizzontale” della Commissione Europea alla politica industriale, v. da ultimo M. Pianta, An Industrial Policy, cit., pp. 288 ss. Peraltro, l’approccio orizzontale non caratterizza solo la (mancata) politica industriale, nazionale e dell’Unione, ma anche le politiche sociali, e rappresenta la rinuncia del decisore politico ai propri compiti, delegati al peggior decisore possibile, cioè il mercato. Per noi giuristi, il segno di questa tendenza è il degrado dei diritti soggettivi a policies, evidente nelle politiche dell’Unione in particolare proprio nel campo del lavoro: basterà richiamare il passaggio dal diritto al lavoro all’inutile categoria dell’occupabilità.
[17] Già venti anni fa Augusto Graziani osservava che “in Italia, la disoccupazione sta cambiando aspetto. Una diagnosi consolidata classificava la disoccupazione come giovanile, femminile e meridionale. Questo rimane vero, ma due nuove forme di disoccupazione si sono aggiunte: la disoccupazione derivante dalla crisi della grande industria e quella connessa al blocco della spesa pubblica” (Stati Uniti, falsi miti, in il manifesto, 15 marzo 1994, ora con il titolo Austerità e disoccupazione in A. Graziani, I conti senza l’oste, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 60). Salva la generalizzazione all’insieme dell’industria manifatturiera di qualunque dimensione, restano parole profetiche.

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