Migranti e “hotspot”: diritti o controllo?

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This article analyses the hotspot model as an emblematic case for the gap between the ownership and the effectiveness of the rights of migrants. Pressure for a more and more pervasive border control is dangerously suppressing fundamental rights and principles.

Il c.d. modello dei “punti di crisi”, o hotspot, nasce su indirizzo della Commissione Europea il 13 maggio del 2015, quando un nuovo piano d’azione in materia di politiche comuni, per la gestione dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e rimpatrio dei migranti “economici”, viene pubblicato con l’intento di governare la pressione alla frontiera dei due Paesi europei maggiormente coinvolti negli sbarchi illegali: Italia e Grecia. L’“Agenda Europea sulla migrazione” è dunque un piano particolareggiato dei fini e degli strumenti attraverso i quali l’Unione Europea ha inteso, tra l’altro, gestire i flussi migratori illegali.

Nella riflessione che segue, metterò in evindenza come l’incertezza di una base giuridica che delimiti natura e funzioni degli hotspot stia portando alla dilatazione di prassi illegittime, che rischiano di violare anche i diritti costituzionali più rilevanti. In conclusione sottolineerò che tale esigenza di un fondamento legislativo debba coinvolgere anche una critica più ampia, sull’impianto complessivo delle politiche di gestione dei flussi. L’unico antidoto ad una strumentalizzazione elettorale del fenomeno migratorio – costruito ad arte sulla paura e su inesistenti pretese di protezione identitaria – sta, infatti, nel generare un dibattito plurale, che connetta le ragioni dei diritti alle scelte economiche, culturali e sociologiche dell’intera area mediterranea.

È da evidenziare innanzitutto che sia nell’Agenda europea sulla migrazione, sia nell’art. 17 della Legge 46/2017[1], manca una definizione di hotspot. L’Agenda descrive le modalità con le quali «l’approccio hotspot» debba essere attuato: il personale distaccato dalle Agenzie dell’UE-Frontex, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo presente nei porti caratterizzati da un numero cospicuo di migranti in arrivo, ha il compito di offrire il proprio supporto operativo, procedendo allo screening sanitario, alla pre-identificazione, alla registrazione, al foto-segnalamento e ai rilievi dattiloscopici delle persone in ingresso[2]. I caratteri del supporto operativo sono successivamente specificati nel regolamento UE 2016/1624 del 14 settembre 2016, che detta una serie di prescrizioni in tema di cooperazione tra gli Stati e la nuova “Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera”, arrivando ad ipotizzare poteri sostitutivi, nel caso di mancata collaborazione degli stessi Stati, nella gestione dei “punti di crisi”. Si tratta di una novità di non poco rilievo: la politica comune in materia di visti ed asilo si delinea in una competenza concorrente tra Unione e Stati membri. Tuttavia, come è stato notato, con tale regolamento la gestione congiunta delle frontiere cede il passo ad un controllo particolarmente pregnante dell’operato degli Stati, al punto di prospettare, nel caso di forte pressione migratoria, la possibilità di un vero e proprio commissariamento di fatto[3].

La nuova cornice del modello hotspot prevista dal comma 1 dell’art. 17, legge 46/17, dispone che lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna, ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare, sia condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi, “allestiti nell’ambito delle strutture di cui al d.l. 30.10.1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla l. 29.12.1995, n. 563 e nelle strutture di cui all’art. 9 del d.lgs. 18.8.2015, n. 142”. La norma indica chiaramente la volontà del legislatore di individuare per tali Centri una base legislativa, superando le criticità già emerse negli studi condotti sul tema[4], che avevano indicato come l’assenza di una disciplina legislativamente prevista, soppiantata da mere circolari ministeriali e prassi amministrative, avrebbe potenziato il rischio di  abusi in danno dei migranti, spesso trattenuti oltre i limiti consentiti dalla legge, a soli fini identificativi [5]. Proprio per questo è criticabile la scelta del mero rinvio alla cd. Legge Puglia, che disciplinava l’apertura di strutture atte a far fronte ad esigenze di primo soccorso ed accoglienza dei migranti sbarcati lungo quel tratto di costa, negli anni dal 1995 al 1997. Non certo a caso la novella, del tutto insufficiente quanto a natura e funzione degli hotspot, è stata definita un’occasione mancata[6]. Anche la Commissione europea ha in più occasioni invitato il Governo italiano a precisare le modalità di trattenimento nei centri di prima accoglienza, espressamente finalizzato ad ottenere il fotosegnalamento e la raccolta dei dati biometrici, se necessario con l’uso della forza[7]. Il 10 dicembre 2015 è stata aperta una procedura d’infrazione per la violazione del Regolamento Eurodac, con la quale la stessa Commissione ha imposto all’Italia di raggiungere, senza ulteriori indugi, l’obiettivo del 100% dei rilevamenti delle impronte digitali dei rifugiati e migranti in arrivo[8].

I pochi elementi sin’ora evidenziati indicano la generale tendenza a governare i flussi migratori attraverso documenti programmatici ed altri strumenti di soft law[9], con il risultato di un pericoloso scollamento tra quei diritti costituzionali che sono garantiti anche ai non cittadini (primo fra tutti l’art. 13 Cost.) e le prassi di polizia, alla quale viene in massima parte affidata la gestione concreta degli sbarchi, sulla base di prescrizioni che abbiamo visto essere prive di efficacia giuridicamente vincolante. Le stesse prescrizioni restano essenzialmente condizionate dallo scopo principale che l’Europa si pone in questa fase, e cioè il contenimento del fenomeno migratorio, attraverso il controllo delle frontiere Schengen[10] A un processo di integrazione ed inclusione europea, raggiunto con l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne, è dunque seguito un processo di contemporanea esclusione dallo spazio comune, fondato sul requisito della cittadinanza e plasticamente rappresentato dai due opposti lembi del Mar Mediterraneo[11]. In vista del fine dichiarato, peraltro, le istituzioni europee sono pronte ad accettare un arretramento nell’ambito dei diritti umani, come dimostra, ad esempio, l’avallo di modifiche anche costituzionali incidenti su alcuni diritti fondamentali, per garantire il rispetto degli Stati del Regolamento Dublino III[12] .

Non si può che convenire con coloro che denunciano come l’assenza di una base legislativa, soppiantata da prassi di polizia adottate in vere e proprie terre di nessuno come sono gli hotspot, facilitino abusi e violenze in danno di persone estremamente vulnerabili. Tuttavia, il timore crescente degli Stati di una delegittimazione elettorale frutto di politiche aperte, il leit motiv europeo sull’esigenza di limitare l’immigrazione, evocando la minaccia di un’invasione incontrollabile[13] e arrivando ad auspicare l’uso della forza per individuare ed espellere i migranti cd economici, pongono non pochi dubbi su quale approccio politico sorreggerebbe l’istituzione di una reale cornice giuridica al modello hotspot. L’impressione condivisa è che la retorica dell’integrazione e di una “cittadinanza multiculturale” stia cedendo il passo, senza particolari rimostranze, a politiche di mera organizzazione dei flussi, intesi come forza-lavoro che non deve più essere “integrata” nel paese di arrivo, ma può essere semplicemente usata nel modo più conveniente per la regolamentazione del mercato di lavoro interno[14].

 

*Avvocata, componente del comitato esecutivo di ELDH (European Association of Lawyers for Democracy and World Human Rights), socia ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione).

 

[1] Legge di conversione del d.l. 13/2017, cd Minniti- Orlando, che ha introdotto nel d.lgs. 286/98 (T.U. Immigrazione) il nuovo art. 10 ter.

      [2] Cfr. Commissione Europea, Comunicazione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, Agenda Europea sulla Migrazione, 2015. reperibile su https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-. Dopo il Consiglio europeo del 25 e 26 giugno 2015, la Commissione ha inoltre inviato agli Stati membri interessati una “Roadmap”, un documento di natura programmatica, recepito nell’ordinamento italiano non ai sensi di legge, ma come allegato di una circolare del Ministero dell’Interno, destinata a tutti i Prefetti ed al Capo della Polizia (28.09.2015). La Roadmap definisce le procedure amministrative da porre in essere per dare attuazione a quanto previsto nell’Agenda europea e nell’accordo politico raggiunto dai Capi di Stato. Nella stessa si prevede l’istituzione degli hotspot al fine di «assicurare le operazioni di soccorso, prima assistenza, registrazione e foto-segnalamento di tutti i migranti» giunti nelle acque e/o sulle coste italiane, per garantire l’avvio della procedura temporanea di ricollocazione dei richiedenti asilo in altri Paesi europei: Ministero dell’interno, Roadmap italiana, 28.9.2015, in www.immigrazione.biz/upload/Roadmap_2015.pdf. A giugno 2016 vengono inoltre adottate, dallo stesso Ministero dell’Interno, le cd SOP (Standard Operating Procedures), al fine di rendere coerenti ed uniformi le varie prassi registrate negli hotspot; reperibile su: http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/hotspots_sops__versione_italiana.pdf.

        [3] G. Morgese, Recenti iniziative dell’Unione europea per affrontare la crisi dei rifugiati, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza fasc. n. 3-4 del 2015, p. 23.

 [4] Tra altri si segnalano: L. Masera, G. Savio, La prima accoglienza, in La crisi migratoria tra Italia e Unione Europea: diagnosi e prospettive, a cura di M. Savino, Napoli, Editoriale scientifica, 2017; C. Leone, La disciplina degli hostspot nel nuovo articolo 10 ter del D.lgs. 286/98: un’occasione mancata, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 2 del 2017; si segnalano inoltre: Hotspot di Taranto: mancano le garanzie per la tutela dei diritti alla persona; documento congiunto ARCI, ASGI, Associazione Babele, Campagna Lasciateci entrare del 22.03.16,; ASGI al Ministero dell’Interno: la natura giuridica degli hotspots va chiarita, documento del consiglio direttivo Asgi del 21.10.15, entrambi reperibili su www.asgi.it

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[5] Nel novembre 2016 Amnesty International stilava un durissimo report, frutto di quattro visite a diverse città e centri di accoglienza in Italia, evidenziando: “Nel cercare di raggiungere un tasso di identificazione del 100%, l’approccio hotspot ha spinto le autorità italiane ai limiti, e oltre, di ciò che è ammissibile secondo il diritto internazionale dei diritti umani. L’attuazione di misure coercitive per costringere le persone che non vogliono fornire le loro impronte digitali è diventata man mano la regola, attraverso la detenzione prolungata e l’uso della forza fisica. È in questo scenario che rifugiati e migranti che non volevano dare le impronte digitali hanno subito detenzioni arbitrarie e maltrattamenti da parte della polizia. Nonostante non ci siano dubbi che la maggior parte degli agenti di polizia abbia continuato a fare il proprio lavoro in modo impeccabile, testimonianze coerenti raccolte da Amnesty International indicano che alcuni hanno fatto uso eccessivo della forza e hanno fatto ricorso a trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o addirittura alla tortura”; Amnesty International, Hotspot Italia, come le politiche dell’Unione Europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti, p. 6.

     [6]   C. LEONE, op. cit., in particolare pp. 3-4.

     [7] “To allow the use of force for fingerprinting and to include provisions on longer term retention for those migrants that resist fingerprinting”; European Commission 2015 h: 4; 2016 b: 2; cit. in G. CAMPESI, Chiedere asilo in tempo di crisi, in Confini d’Europa, modelli di controllo e inclusioni informali, Raffaello Cortina Milano 2016, p. 12.

 [8] Il Prefetto Giovanni Pinto, in un’audizione del 2015 alla Camera dei Deputati, a questo proposito dichiarava: “Poiché ce lo chiedono, noi stiamo valutando la possibilità di introdurre nell’ordinamento una norma che consenta l’uso della forza per coloro che si rifiutano. Naturalmente è un concetto che postula anche un periodo di trattenimento ai fini identificativi. Bisogna trovare una copertura giuridica per queste operazioni”; Camera dei Deputati 2015:12, cit. in G. CAMPESI, ivi p. 13.

     [9] Sull’ampio tema si rinvia alla rivista quadrimestrale Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, vol. 1-2. Ed. Franco Angeli, 2016, che contiene una disamina puntuale dei vari Accordi di riammissione ed altre forme di cooperazione conclusi sia dall’UE che dall’Italia con i Paesi terzi.

     [10] Ex multis:  http://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/priorities/20150831TST91035/20170627STO78419/controllo-delle-frontiere-ue-e-gestione-della-migrazione

     [11] S. Mezzadra e B. Neilson, in Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale Ed. Il Mulino, Bologna 2014, osservano anche, in ottica di critica del diritto, che l’incontro/scontro tra «l’Occidente e il resto» non è semplicemente un paradigma di esclusione (e inclusione), bensì un momento produttivo di modelli epistemologici, attraverso i quali è stato compreso il mondo. Tra questi, si inserisce l’analisi degli «studi d’area», che hanno diviso il mondo in «stadi di sviluppo economico»; p. 68. Cfr. G. Micciarelli Il diritto d’Asilo “dimenticato”: displacement o rinuncia di un attributo fondamentale della sovranità? In Gestione dei flussi migratori tra esigenze di ordine pubblico, sicurezza interna ed integrazione sociale, a cura di A. Di Stasi e L. Karb, atti del convegno del Dipartimento di Diritto Pubblico e di Teoria e Storia delle Istituzioni, Università degli Studi di Salerno, 2012.

      [12] Il Reg. UE n. 604/2013 sancisce l’obbligo i Paesi di primo approdo dei migranti ad identificare e successivamente farsi carico della gestione delle domande di protezione internazionale.

     [13] Tuttavia l’Ocse, in un calcolo condotto sugli ultimi cinquant’anni, ha definito “neutro” l’impatto fiscale complessivo dell’immigrazione. Pertanto, nell’arco di mezzo secolo la presenza dei cittadini di origine straniera sembra non aver comportato né costi né benefici sul piano fiscale. Questo risultato è dovuto in particolare alle politiche sull’immigrazione; in altre parole, in un mondo dove i flussi fossero gestiti in accordo alle esigenze del mercato del lavoro e favorendo l’integrazione, l’immigrazione avrebbe un impatto certamente positivo http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2013/ottobre/rapp-ocse-migr-2013.pdf .

[14] Cfr. sul tema il dibattito in http://www.juragentium.org/topics/migrant/index.htm.

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