Disoccupazione volontaria? I limiti della teoria neoclassica.

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Austerity policies have been presented as the only paradigm able to solve the current economic crisis. This paper will try to show that neoclassical theories on unemployment are not supported by solid empirical evidence. The case study of Great Britain during the Great Depression to prove that (i) unemployment is not voluntary and (ii) public subsidies do not increase opportunistic behaviours.

Introduzione

Utopian thinking consists of formulating proposals for radical reforms, justifying them on the basis of normative principles combined with the best possible scientific analysis of the root causes of the problems the proposals are meant to address, and subjecting these proposals to unindulgent critical scrutiny. (Van Parijis)

Nonostante in Italia i livelli di disoccupazione abbiano raggiunto l’11.4% ad Agosto 2016[1], i paladini del rigore continuano ad argomentare che l’unica soluzione per uscire dalla crisi siano le politiche di austerità. Diminuzione del debito pubblico e taglio della spesa pubblica, i principi base della ricetta di inflessibilità, risuonano come un mantra nella testa dell’opinione pubblica. La tragedia dei milioni di disoccupati dovrebbe far riflettere le classi politiche sulle priorità da perseguire. Il dibatto economico è ancora fortemente influenzato dai paradigmi neoclassici che, riguardo la mancanza di lavoro, sostengono  che il mercato, se inalterato, è in grado di garantire un’occupazione a tutti. Partendo da questa idea, gli aiuti di stato per sostenere politiche espansive contro la disoccupazioni sono viste come un elemento di alterazione del normale funzionamento del mercato. Fornire un sostentamento finanziario alle persone senza lavoro, infatti, innescherebbe un meccanismo per cui la maggioranza dei disoccupati sceglierebbe volontariamente di non lavorare vivendo con sussidi statali.

Questo lavoro cercherà di dimostrare i limiti della teoria neoclassica sulla disoccupazione. Si utilizzerà il case study  della Gran Bretagna durante la Grande Depressione per evidenziare l’inconsistenza empirica dell’approccio neoclassico. Si sosterrà che (i) la disoccupazione non è volontaria e (ii) i sussidi statali non aumentano la probabilità dell’opportunismo della disoccupazione. Ci sono lezioni che, se imparate, ci salveranno in futuro. Come Collins ha sottolineato, studiare i trend di disoccupazione nella storia recente non è un semplice esercizio accademico ma un monito per le scelte politiche attuali, “Therefore, to modern exponents of neoclassical views, the explanation of both today’s and interwar unemployment is of critical importance because it touches on the validity of neoclassical beliefs in the fundamental stability of market relationship and in the rationality of economic actions.”[2]

 

Paragrafo 1 Un’analisi neoclassica della disoccupazione 1920-1938

Il modello neoclassico sostiene che la disoccupazione sia principalmente volontaria. I livelli delle persone senza lavoro sono determinati dall’interazione tra la domanda di forza lavoro e l’offerta di potenziali lavoratori. Il meccanismo di domanda/offerta di lavoro si basa sull’idea che nel mercato esistono due forze opposte. Da una parte, la domanda di lavoro aumenta quando i salari diminuiscono, dall’altra l’offerta di lavoratori cresce quando i salari aumentano. L’equilibrio tra la domanda e l’offerta determina il salario reale dei lavoratori e i livelli di disoccupazione. In caso di perfetta competizione, il mercato è in grado di generare piena occupazione e i disoccupati sono lavoratori che decidono volontariamente di non lavorare per salari troppo bassi.

L’implicazione dell’approccio neoclassico è che mistifica gli effetti positivi delle politiche espansive governative per il sostentamento economico ai disoccupati. La teoria afferma che i sussidi pubblici alterano l’equilibrio dei meccanismi di mercato poiché imporrebbero un sistema di salari rigido e, conseguentemente, accrescerebbero il numero di disoccupati. I pensatori neoclassici credono che la disoccupazione nel periodo durante le due guerre mondiali sia il risultato di un eccessivo  livello dei salari reali e degli schemi assicurativi nazionali. La logica conclusione quindi è che i sindacati, l’obbligo del salario minimo e un’eccessiva offerta di lavoratori siano state le basi della disoccupazione. Kent argomenta che “Especially in occupations in which the superiority of employment over unemployment is least, the insurance scheme has reduced the economic pressure which used to make persons grab at every chance of employment, what they could get regardless of every inconvenience, and stick to what they had got regardless of every disagreeableness”.[3]

In Gran Bretagna il sistema nazionale di sussidi pubblici alla disoccupazione aumentò il suo raggio d’azione durante la Grande Depressione. Il numero delle persone senza lavoro idonee ad assicurazioni statali crebbe, così come l’estensione della copertura temporale e le settimane aggiuntive a disposizioni. Kent descrive la continuity rule come una delle cause principali della disoccupazione volontaria. Essa permetteva ai lavoratori di ottenere sussidi statali per la disoccupazione dopo tre giorni – consecutivi o meno – in un periodo consecutivo di sei giorni senza lavoro.[4] In aggiunto, Minford sostiene che il mercato del lavoro britannico era caratterizzato da alti salari a causa del forte potere contrattuale dei sindacati e dei considerevoli sussidi statali alla disoccupazione. Allo stesso modo, Clay argomenta che la regolamentazione del salario minimo e i sovvenzionamenti ai senza lavori hanno alterato l’equilibrio del mercato durante la Grande Depressione.[5]

Il concetto di disoccupazione emerge solo dopo lo shock della Grande Depressione, momento nel quale le economie industrializzate conobbero la tragedia dei non occupati. Il numero dei disoccupati raggiunse i 3.2 milioni nel 1932, cioè una persona su sei era disoccupata in Gran Bretagna. Gli indici di disoccupazione iniziarono un trend di profonda crescita a causa della crisi economica del 1929, ancora nel 1938 si avevano un numero di disoccupati simile al 1930.

 

Grafico 1: Livelli di disoccupazione (000s) in Gran Bretagna 1921- 1938

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Ed Butchard, Unemployement and non Employment in Interwar Britain, p. 4

 

Secondo il modello neoclassico, il valore del replacement ratios rivela la distorsione del mercato del lavoro in Gran Bretagna tra il 1920 e il 1938. La figura rappresenta il costo dell’opportunità economica del vivere senza lavorare, cioè la relazione tra il salario medio settimanale  guadagnato lavorando sia nel settore manifatturiero che non manifatturiero e il sussidio settimanale medio (grafico 2). Il valore del replacement ratios crebbe drammaticamente nel periodo 1920-1938. In aggiunta, il numero dei lavoratori assicurati aumentò dal 3.9% nel 1920 al 22.1% nel 1932, prima di conoscere un trend di costante decrescita. La spiegazione del trend, in realtà, è logicamente legata al clima di profonda incertezza percepita dalle persone a causa della crisi economica. In un periodo di difficoltà la gente tende a ricercare ulteriori forme di protezione economica. Il valore dei benefits settimanali aumentò del 116% dal 1920 al 1930, eppure, considerando il periodo della Grande Depressione, i valori non risultano particolarmente scioccanti. Tra il 1929 e il 1934 fluttuarono attorno a 28.3 scellini  a settimana. Oltre tutto, la spesa pubblica per i disoccupati e l’assicurazione sanitaria nazionale per i dipendenti crebbe del 464% tra il 1920 e il 1938.[6]

 

Grafico 2: Valori del replacement ratios in Gran Bretagna 1920-1930

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Kent, High wages cause unemployment, p. 7

Benjamin e Kochin sostengono che la relazione tra i livelli di disoccupazione e sussidi statali esiste, molte persone decidono volontariamente di non lavorare perché i finanziamenti pubblici riducono il costo d’opportunità della pigrizia. Il modello di regressione da loro sviluppato – utilizzando i dati del Ministero del Lavoro – calcola il rapporto tra i sussidi statali con i livelli salari medi e un indice delle condizioni macroeconomiche del paese. I risultati sembrano confermare l’esistenza di una relazione causale tra il valore del replacement rate e i livelli di disoccupazione. I valori dei coefficienti della regressioni permettono di rifiutare l’ipotesi che non esista un link tra i due fattori.[7]

Eppure, come suggerito da Eichengreen, lo studio  di Benjamin and Kochin ha diversi limiti. (i) Il modello utilizza un indice dei salari medi considerando congiuntamente uomini, donne e giovani invece di stimare lo stipendio medio degli adulti maschi capo famiglia. Se la formula per calcolare il replacement ratio è dividere i sussidi medi per i salari medi, il denominatore utilizzato da Benjamin e Kochin sottostima il valore medio del salario medio dei maschi adulti rendendo i loro risultati non accettabili.[8] (ii) Omerod e Worswick hanno dimostrato che il modello di regressione fallisce se applicato ad una maggiore durata temporale o a un differente arco di tempo.[9] (iii) Cross critica Benjamin e Kochin sostenendo che non hanno considerato la possibilità dell’esistenza di un rapporto di casualità inversa. Potrebbero essere stati gli alti livelli di disoccupazione essere la causa di un sistema di alti sussidi statali? [10]

I pensatori neoclassici, inoltre, evidenziano che i giovani erano idonei a minori sussidi pubblici e, di conseguenza, i loro livelli di disoccupazione erano più bassi di quelli tra gli adulti. Nel periodo 1924-1935, per esempio, la disoccupazione media era al 14.6% mentre quella giovanile solo al 5%. Eppure, si può dedurre che questa differenza sia dovuta alla tendenza dei giovani a non iscriversi alle liste nazionali di disoccupazione. I giovani erano, infatti, idonei agli aiuti di supporto per la disoccupazione solo quando avessero già pagato tra le venti e le trenta settimane di contributi. I dati ufficiali di disoccupazione giovanile quindi potrebbero non riflettere adeguatamente i veri livelli dei giovani senza lavoro.[11]

Un ulteriore prova empirica utilizzata dalla teoria neoclassica sono i livelli di disoccupazione femminile. Successivamente alla ratifica delle Anomalies Regulations nel 1931, la disoccupazione femminile diminuì in maniera drastica. I nuovi requisiti restringevano l’accesso ai sussidi per la disoccupazione. Per essere idonea, secondo la nuova legge, una donna doveva (i) essere sposata, (ii) aver pagato almeno quindici contributi da quando sposata e (iii) aver pagato almeno otto contributi nei sei mesi precedenti. La spiegazione in realtà è abbastanza elementare. Trovandosi non più potenzialmente idonee ai sussidi, la forza lavoro femminile smise di registrarsi nelle liste ufficiali di disoccupazione essendo venenuti a mancare gli incentivi materiali.[12]

Kent conclude che “The similarity with our recent economic experience is too stark to ignore. The power of unions, employers’ contributions and minimum wage laws all contributed to the high unemployment during the inter-war period, but the principal cause could be attributed to the steep rise in unemployment benefits during the period.”[13] Eppure, i pensatori neoclassici non sono stati in grado di provare attraverso solide basi empiriche la veridicità delle loro ipotesi. 

 

Paragrafo 2: I limiti del modello neoclassico sulla disoccupazione

L’esperienza dell’economia tre le due guerre mondiali ci può aiutare a espandere la nostra conoscenza sulla cause e sulle possibili soluzioni della disoccupazione contemporanea. L’idea che la disoccupazione sia principalmente volontaria – a causa degli alti sussidi statali e dei salari fissi – può essere studiata durante la Grande Depressione in Gran Bretagna. L’approccio neoclassico può essere esaminato attraverso tre livelli di analisi: (i) investigazioni individuali sulle cause della disoccupazione, (ii) analisi quantitativa dei comportamenti individuali e (iii) studi incrociati tra diversi paesi. Dimostrare che i benefits e i salari non spiegano i livelli di disoccupazione, significa togliere le basi empiriche alla teoria neoclassica.

Eichengreen ha utilizzato “The New Survey of London Life and Labour”  – un’indagine a livello individuale condotta nell’area metropolitana di Londra – per testare la disoccupazione in Gran Bretagna. La scopo dell’indagine era di intervistare un nucleo familiare su sei per avere un’analisi sulle condizioni economico-sociali delle famiglie. La definizione di disoccupato era definita come un individuo senza occupazione da almeno una settimana a causa della mancanza di lavoro o di temporanea malattia. Il database sembra poter riflettere i veri trend di disoccupazione. Eichengreen ha quindi sviluppato un database di oltre 27.000 maschi adulti, presi dalla classe lavoratrice, a Londra tra il 1929 e il 1931. Studiando la relazione tra la disoccupazione e il replacement rate, il suo modello di regressione prevede che il valore dello standard error rappresenti il contributo dei benefits pubblici nello spiegare i livelli di disoccupazione. Il valore minimo dello standard error, quindi, rivela che non c’era una forte relazione tra sussidi e disoccupazione. Inoltre, disgregando i dati tra maschi adulti capo famiglia e maschi adulti senza famiglia, lo studio dimostra che nel primo gruppo l’effetto di un incremento degli schemi assicurativi sulla probabilità di disoccupazione fosse quasi a zero. Mentre nel secondo gruppo sociale, i valori sarebbero più consistenti ma, essendo tale categoria una minima percentuale della forza lavoro maschile adulta, l’impatto dei benefits sulla disoccupazione rimangono insignificanti.[14]

Cross, in aggiunta, ci ricorda che tra il 1921 e il 1930 più di tre milioni di richieste per sussidi di disoccupazione sono stati rifiutati a coloro che non dimostravano di star cercando lavoro. Quindi, i governi britannici non distribuivano indiscretamente aiuti statali, “the explanation that large numbers chose to be voluntary unemployed in the 1920s flies in the face of (a) the increasingly severe application of the genuinely seeking-work disqualification clause during the 1920s and (b) the failure of the investigations pursued by the Blanesburgh Committee to find evidence on any substantial voluntary unemployment of the type alleged.[15]

Metcalf ha studiato in maniera dettagliata molti fonti contemporanee sulle procedure d’accesso ai sussidi alla disoccupazione descritte come “(an) unpopular test and unpleasant associations with a procedure still some extent reminiscent of the poor law” and “The Means Test was still an odious novelty; it reduced the doles of half a million people and it cut off altogether a quarter of a million who, though unemployed, were found not to be in need.  A further half a million were temporarily each year by Courts of Referees under other rules[16]. Metcalf ha stimato che, nonostante i valori del replacement ratios abbiano registrato simili trend durante il periodo tra le due guerre mondiali e post seconda guerra mondiale, i livelli di disoccupazione sono stati molti maggiori nel primo periodo. Questa semplice discrepanza mette in discussione tutta la costruzione teorica dell’approccio neoclassica. Potrebbe essere evidenziato che il problema non è il valore medio dei sussidi statali ma i meccanismi che regolano la loro distribuzione. Ebbene, il sistema di assegnamento degli aiuti alla disoccupazione era basato sul principio di no experience rating, “the insurance contributions paid by worker and employer are unrelated to their past unemployment experience”.[17] I requisiti d’accesso agli schemi assicurativi non erano meno rigorosi durante il periodo tra le guerre rispetto a quello post seconda Guerra mondiale.

  

Grafico 3: Salari medi e sussidi medi in Gran Bretagna 1922-1976

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Metcalf, Still searching for an explanation of unemployment in Interwar Britain, pp. 392

 

Un’approfondita analisi tra diversi paesi rivela che non esiste una casualità tra disoccupazione e sussidi pubblici. Comparando l’esperienza della Gran Bretagna con quelle canadese e australiana, nonostante questi ultimi due stati avessero bassi benefits per i disoccupati, i loro livelli di disoccupazione erano lo stesso duraturi e alti.[18] In conclusione, esistono prove quantitative e qualitative che dimostrano come i livelli di disoccupazione in Gran Bretagna durante il periodo tra le due guerre non possono essere spiegate dalla teoria neoclassica. La disoccupazione quindi non era né volontaria né dovuta al sistema assicurativo e di sussidio.

 

Conclusione

L’approccio neoclassico ha diffuso l’idea che avere un sistema assicurativo e di sussidio altera l’equilibrio del mercato del lavoro. Eppure, il loro modello teorico non è supportato da solide prove empiriche. Utilizzando il caso storico della Gran Bretagna durante il periodo tra le due guerre mondiali, questo lavoro ha dimostrato che (i) la disoccupazione non era volontaria e (ii) i sistemi di sussidi statali non spiegano i livelli di persone senza occupazione. Quando il mercato non è in grado di stimolare il mercato del lavoro, cosa dovrebbero fare i governi per incentivare i consumi e il sostentamento della domanda interna?

 

 

*graduate MSC Economic History, LSE; Assistant Research-Global Finance, The Banker, Financial Times

 

Bibliography:

A Review of Unemployment: Cause and Cure, by P. Minford with D. Davies, M. Peel and A. Sprague, The Economic Journal, vol. 94 (376) 1984, pp. 946-953

  1. K. Benjamin and L. A. Kochin, Searching for an Explanation for Unemployment in Interwar Britain, Journal of Political Economy 87 (1979), pp.441-478.
  2. Butchart, Unemployment and Non-Employment in Interwar Britain, Discussion Papers in Economic and Social History 16 (1997) pp. 1-19
  3. Clay, The Public Regulation of Wages in Great Britain, The Economic Journal vol. 39 (155), pp. 323-343
  4. Collins, Unemployment in Interwar Britain: Still Searching for an Explanation, Journal of Political Economy 90 (1982), pp. 369-379.
  5. Constantine,(1980), Unemployment in Britain Between the Wars, London: Longmans. R. Cross, How Much Voluntary Unemployment in Interwar Britain?, Journal of Political Economy 90 (1982), pp. 380-385
  6. Eichengreen, Unemployment in Interwar Britain: Dole or Doldrums?, Oxford Economic Papers 39, pp. 597-623.
  7. Eichengreen e T. Hatton, Interwar Unemployment in International Perspective, IRLE Working Paper NO. 12-88 (1988), pp. 1-58
  8. Eichengreen, Juvenile Unemployment in 20th Century Britain: The Emergence of a Problem, Social Research 54 (1987), pp.273-302.
  9. Harris, Unemployment, Insurance and Health in Interwar Britain, in Barry Eichengreen and T.J. Hatton (eds), Interwar Unemployment in International Perspective (Martinus Nijhoff, 1988), pp.149-184.
  10. Heim, Structural Transformation and the Demand for New Labor in Advanced Economies: Interwar Britain, Journal of Economic History 44 (1984), pp.585-595.
  11. Galenson e A. Zellner, International Comparison of Unemployment Rates, (1959) pp. 439-584 in the Measurament and Behavior of Unemployment
  12. Kent, High wages cause unemployment, Economic Affairs vol. 5 (3) 1985, pp. 6-11
  13. Metcalf, S. Nickell and A. Floros, Still Searching for an Explanation of Unemployment in Interwar Britain, Journal of Political Economy 90 (1982), pp. 386-399
  14. A. Omerod and G. D. N. Worwick, Unemployment in Interwar Britain, Journal of Political Economy 90 (1982), pp. 400-409
  15. Thomas, Labour Market Structure and the Nature of Unemployment in Interwar Britain, in Eichengreen and Hatton, pp.97-148.
  16. Winter, Infant Mortality, Maternal Mortality and Public Health in Britain in the 1930s, Journal of European Economic History 8 (1979), pp.439-462.
  17. Van Parijs, The Universal Basic Income. Why Utopian Thinking Matters, and How Sociologists can contribute to it, Politics & Society vol. 41(2) 2013, pp. 171-182

[1] ISTAT, http://www.istat.it/it/archivio/190752

[2] Collins, (1982) p.371

[3] Kent, (1985) p. 6

[4] Kent (1982)

[5] Clay (1929)

[6] Kent, (1985) pp. 7-8

[7] Benjamin and Kochin, (1979) pp. 465-468

[8] Eichengreen, (1982) pp. 4-5

[9] Omerod and Worswick, (1982) pp. 401-405

[10] Eichengreen, (1982) p. 4

[11] Kent, pp. 10-11 (1985)

[12] Benjamin and Kochin, (1979) p. 463

[13] Kent, (1985) p. 11

[14] Eichengreen, (1982) pp. 17-24

[15] Cross, pp. 383-384

[16] Metacalf, (1982) pp. 390-391

[17] Ibidem, p. 393

[18]Eichengreen e Hatton (1988) p.42-44

 

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