Una Eurozona da Draghi?

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The “dark illness” of the Euro-zone is that the abundant savings are not mobilized for investment. The question therefore arises of whether the European Central Bank is actually doing everything possible to prevent Europe from falling over the cliff. The article reports the remedies put in place by the ECB first by reducing the interest rate and then via quantitive easing. None of this has been able to cope with the insufficiency of investments which instead would be enough to create opportunities for growth via greater public spending.

1. È stupefacente vedere come il governatore della Banca Centrale Europea si dia da fare per evitare che l’Eurozona precipiti nel baratro della deflazione (-0,2% il dato di febbraio per l’area euro[1]) e non ci riesca.

 

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Il pericolo è che anche l’Eurozona cada in quello stato comatoso dell’economia che, resistendo ad ogni terapia, affligge da vent’anni il Giappone (cfr. G. Visetti, La strenua lotta del Giappone ad una deflazione ventennale, “Affari e Finanza”, 23.11.2015). Ma, siccome per curare bisogna prima diagnosticare la malattia, è proprio qui che Mario Draghi inciampa, facendo il reticente quando rinvia a generiche «forze nell’economia globale oggi che, tutte assieme, stanno mantenendo bassa l’inflazione» (“La Repubblica”, 5.2.2016). Ma quali queste “forze” (“oscure”, come si sarebbe detto una volta) se non precise variabili macroeconomiche che per pudore non s’intendono nominare?

Più espliciti sono stati i due governatori di Bundesbank e Banque de France in una lettera congiunta (ma il governatore della Banca d’Italia dov’era?) in cui hanno proposto che gli Stati europei cedano più sovranità, allo scopo di «rafforzare la governance della zona-euro», mediante l’istituzione di un Ministro unico del Tesoro con il compito di coordinare l’«unione dei finanziamenti e degli investimenti» per affrontare «il paradosso di un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilizzato per investimenti» (“La Repubblica”, 9.2.2016). E siamo al “male oscuro” dell’Eurozona finalmente denominato: troppo risparmio che non trova la via dell’impiego produttivo. Si tratta di quel fenomeno del sovra-risparmio (oppure, alla rovescia, del sotto-investimento) che gli economisti ben conoscono, essendone stati deliziati (si fa per dire) al tempo della Grande Crisi del 1929 (e anni seguenti) e che la teoria ha spiegato così.

Siano le famiglie a risparmiare e le imprese ad investire: sarebbe buona regola d’equilibrio che il risparmio S e l’investimento I coincidessero, determinando un corrispondente livello ottimale dei prezzi. Ma se I > S i prezzi crescono (inflazione), mentre per S > I essi cadono (deflazione). E come giudicare economicamente i due squilibri? L’ha spiegato John M. Keynes nel Trattato sulla riforma monetaria pubblicato nel 1923 (e tradotto in italiano da Piero Sraffa nel 1925): l’inflazione «si risolve in una ingiustizia per certe persone e per certe classi, specialmente per i possessori di ricchezza investita, e quindi scoraggia il risparmio; la deflazione si risolve in un impoverimento dei lavoratori e degli imprenditori perché induce questi ultimi a restringere la produzione allo scopo di evitare perdite e quindi aumenta la disoccupazione». Per questo «l’inflazione è ingiusta e la deflazione dannosa, ma delle ndue la deflazione è forse la peggiore perché è peggio, in un mondo impoverito, provocare la disoccupazione che disilludere i rentiers».

Qualcuno aveva comunque creduto che, ormai vaccinati dalla crisi del ‘29, la deflazione non si sarebbe più presentata, eppure di un suo possibile ritorno in Occidente (Eurozona compresa) aveva ammonito da tempo Paul Krugman. Inutilmente, perché gli economisti troppo acquiescenti alla politica da quell’orecchio sembra proprio che non ci sentano, apparentandosi a quel Luigi Einaudi che, già governatore della Banca d’Italia, nel 1953 chiedeva al giovane assistente Federico Caffè di raccogliere la letteratura sui casi e la frequenza «del verificarsi della tendenza dei risparmi ad eccedere i possibili impieghi» che lui era restio ad ammettere (cfr. P. Baffi, Via Nazionale e gli economisti stranieri, in Testimonianze e ricordi). Il che era evidente: non aveva polemizzato con Keynes nel pieno della Grande Crisi scrivendo che Il mio piano non è quello di Keynes essendo per lui la causa della crisi il troppo investimento e non il troppo risparmio?

 

2. Ma vediamo qualche dato sulla condizione macroeconomica dell’Eurozona a 19 Paesi[2] utilizzando quei saldi settoriali che collegano il “saldo privato” (Risparmio S meno Investimento I) alla somma del “saldo pubblico” (Spese statali G meno Tasse T) con il “saldo estero” (Esportazioni X meno importazioni M), giusta la relazione contabile:

(S – I) = (G – T) + (X – M).

 

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Come si vede, dal 2011 il saldo estero è cresciuto a dismisura determinando, nonostante il concomitante calo del saldo pubblico, l’aumento del saldo privato (che in soli quattro anni ha raggiunto la cifra complessiva di 2.435 miliardi di euro!). Però questo aumento del saldo privato non è soltanto l’effetto del successo del made in Europe. Vi ha contribuito anche l’“austerità fiscale” accrescendo l’incertezza delle famiglie: quando andrò in pensione, con quanto e quale adeguamento al costo della vita? Se mi ammalerò il sistema sanitario nazionale sarà in grado di curarmi, con quali tempi di attesa e che livello di qualità di prestazioni? Avrò denaro sufficiente a pagare gli studi ai miei figli? Quanto è sicuro il mio posto di lavoro? Sono interrogativi che hanno indotto le famiglie a muoversi con cautela nel consumare, accantonando risparmio per le occorrenze future. D’altra parte, è logico che il venir meno dello Stato sociale si traduca in un incremento del risparmio prudenziale privato, concorrendo anche per questa via all’aumento di S.

Ora, questo contenimento dei consumi, sia pubblici che privati, non può poi che ripercuotersi negativamente sugli investimenti: perché mai dovrei investire in attività produttive se prevedo che non ci sarà domanda sufficiente ad assorbire la mia offerta? Così quel risparmio, indotto dalla riduzione dei consumi e che non trova la via per l’investimento, con il passare del tempo è diventato un problema per l’Eurozona, un fardello per il sistema economico il cui effetto congiunto si legge nell’aumento del saldo privato e, di conseguenza, nel basso tasso di crescita.

 

3. La Banca Centrale Europea ha provato a porre rimedio a quel sovra-risparmio, e quindi alla deflazione che esso comporta, dapprima con la riduzione del tasso di interesse che ormai è arrivato, governatore Draghi, allo 0%:

 

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Nel seguito però, avendone sperimentato la sostanziale inutilità ai fini del rilancio dell’economia, è intervenuta con il quantitative easing, ossia con l’aumento della base monetaria mediante l’acquisto di titoli privati e pubblici. Per questi ultimi la modalità adottata è stata piuttosto contorta (all’“europea”, ma non sarebbe meglio dire “alla tedesca”?) poiché l’acquisto, come da statuto della BCE, è potuto avvenire soltanto sul mercato secondario e non direttamente dagli Stati che li emettono. Per questo la quasi totalità dell’ampliamento della base monetaria è passata attraverso le banche commerciali che hanno venduto alla BCE i titoli presenti nei loro portafogli. L’intenzione era che, con tutto quel denaro messo a disposizione, il sistema bancario non avrebbe perso tempo a concedere prestiti all’economia reale, ossia al sistema delle imprese. Alla verifica non sembra però che sia andata proprio così.

Il quantitative easing della BCE è cominciato, in pratica, nel marzo del 2015, quando si è attivato il Public Sector Purchase Program. Come mostra il grafico che segue, nel periodo marzo – dicembre 2015, i tre programmi di acquisto titoli da parte della BCE hanno portato ad un aumento della base monetaria di oltre 657 miliardi di euro, così da non potersi negare che la BCE abbia svolto diligentemente il suo compito.

 

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Però nello stesso periodo i prestiti delle banche alle famiglie sono aumentati di soli 102 miliardi di euro, mentre quelli alle imprese sono diminuiti (sic!) di 42 miliardi.

 

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Considerando che le famiglie e le imprese sono le due componenti dell’economia reale, ad essa sono stati forniti appena 60 miliardi di euro. E tutto il resto dove è andato a finire? È stato depositato dalle stesse banche nei conti di tesoreria che esse detengono presso la BCE, e ciò nonostante che la BCE, per scoraggiare la decisione, ormai remuneri questi depositi con un tasso d’interesse negativo (-0,30%[3]).

 

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Così quel denaro, creato dalla BCE e immesso nel sistema bancario con il quantitative easing, è nella quasi totalità ritornato a casa, incurante di quel rendimento negativo che ne determina la cancellazione di circa 3 miliardi di euro all’anno!

Può sembrare assurdo, eppure si tratta di un comportamento del tutto razionale non essendovi nell’Eurozona le condizioni per una ripresa degli investimenti privati a forza di un credito bancario che le banche, anch’esse imprese private quante altre mai, non possono concedere nella situazione di difficoltà finanziaria (come gli stress test ripetutamente richiesti dalla BCE stanno a dimostrare) in cui si trovano ad operare. Il fatto è, come ha spiegato Mariana Mazzucato (“La Repubblica”, 22.2.2016), che nell’Eurozona «il sistema finanziario non è stato riformato e resta debole» e così, con «un livello di debito, pubblico e ancor più privato, che resta altissimo e non si riesce a generare sviluppo e reddito, le banche continuano a finanziare se stesse anziché l’economia reale». A suo parere, ha cntinuato, «le aziende investono quando vedono opportunità di crescita che sono trainate dalla spesa pubblica», ma questo è proprio quanto manca adesso in Europa.

Allora che fare? Ce lo indica esemplarmente il “saldo strutturale privato”: a fronte di una insufficienza degli investimenti che non si riesce a colmare non resta che abbattere quello stock esagerato di risparmio accumulato. Il che avviene con la caduta ricorrente dei mercati azionari (i miliardi di euro che vengono “bruciati”, secondo la stampa quotidiana), con i tassi d’interesse negativi e con i fallimenti bancari che incombono. Al salvataggio delle eventuali banche in crisi dovranno d’ora in poi provvedere, giuste le nuove regole del bail-in, gli azionisti, gli obbligazionisti, sia subordinati che principali, e i depositanti oltre i 100.000 euro con la perdita dei loro risparmi. È la nuova disciplina del “rigore monetario” europeo: se non può più intervenire lo Stato a salvarle a spese di tutti i contribuenti, saranno i loro creditori privati a pagare essendo evidente, come rivelato da Ferdinando Giugliano (“La Repubblica”, 16.2.2016), che «in una fase in cui i debiti pubblici sono già molto alti, tocca agli investitori accettare un semplice principio: che gli interessi che ricevono per i loro prestiti alle banche sono il premio per il rischio di non rivedere indietro i loro soldi». E loro non possono che farsene una ragione: se hanno puntato i loro soldi sulla banca sbagliata, non possono che perderli per salvarla dal fallimento.

 

*** Il 10 marzo la BCE (ma solo “a stragrande maggioranza”) ha portato il quantitive easing a 80 miliardi di euro al mese, estendendo l’acquisto di titoli anche alle obbligazioni emesse da società non finanziarie private; ha ridotto il tasso di sconto allo 0,0% (sic!); ha inasprito il tasso negativo sui c/c presso di sé al -0,4%. Ha poi  previsto una nuova tornata di TLTRO (una sigla impronunciabile!) che non è altro che l’imprestito di denaro alle banche private con uno sconto dello 0,4% a condizione che dimostrino di aver “girato” quei soldi ad imprese e famiglie. E questo sarebbe il gran colpo di bazooka di Draghi? Premiare con lo 0,4% d’interesse le banche che si fanno carico del rischio d’insolvenza della “economia reale”?

 

 

* Docente, Università di Bologna

** Responsabile, Centro Studi e Analisi Economiche e Finanziarie di UnipolSai Assicurazioni

 

Le opinioni espresse nel presente documento sono di responsabilità esclusiva degli autori e non riflettono necessariamente la posizione ufficiale degli enti di appartenenza.

[1] Eurostat. Flash estimate – February 2016, 29 febbraio 2016.

[2] Dati Eurostat (per il 2015 sono disponibili solo i dati relativi ai primi tre trimestri).

[3] Portato a -0,40% dal marzo del 2016.

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