Uscire dall’euro non conviene all’Italia e all’Europa

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Political and social notes

Prosegue il dibattito sugli effetti di una uscita dall’euro promosso da economiaepolitica.it. Dopo l’intervento iniziale di Realfonzo e Viscione e i commenti di Biasco, del Keynes blog, di Zezza, Gallegati e Visco, interviene ora l’economista Paolo Guerrieri. A suo avviso, vi è una possibilità concreta di rottura dell’eurozona, ma questo sarebbe il male peggiore per tutti. Per questo, Guerrieri non pensa a una uscita dell’Italia o di altri paesi europei dall’euro, ma alla necessità di un superamento delle politiche di austerità.

L’articolo di Realfonzo e Viscione sugli effetti economici derivanti dall’uscita di uno o più paesi dalla zona euro fornisce alcuni risultati di indubbio interesse e suggerisce molteplici spunti di riflessione. In questo mio breve commento vorrei proporre tre insiemi di considerazioni.

Il primo riguarda la fase attuale attraversata dal gruppo dei paesi dell’area euro che è caratterizzata da alcune novità di rilievo in termini di ’policy mix’, ma continua a presentare criticità e problemi strutturali tali da non escludere la possibilità a medio termine di una rottura dellUnione monetaria. Per scongiurare scenari così inquietanti – ed è il secondo ordine di considerazioni –  la soluzione non può essere certo rappresentata dall’uscita di un paese dalla zona euro e/o dal totale smantellamento della moneta unica, in quanto il processo di integrazione europea è ormai troppo avanzato per consentire simili ritirate, se non a costi davvero proibitivi per tutti. Ne deriva, in ultimo, che l’opzione migliore tra le diverse strade percorribili resta quella di cercare di uscire non dall’euro ma dalle politiche sbagliate condotte finora, marcando una profonda discontinuità.  E’ molto difficile certo, ma è comunque da preferire a tutte le altre.

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Con riferimento alla fase attraversata dall’eurozona va notato come nelle ultime settimane si sia diffuso un grande ottimismo sulle prospettive a breve e medio termine dell’eurozona e dell’intera Unione europea, dopo l’annuncio e il varo ufficiale del ‘quantitative easing” da parte della Banca centrale europea. Contando soprattutto sul crollo del prezzo del petrolio e sulla svalutazione dell’euro, c’è chi prevede una forte ripresa e un rilancio della crescita in Europa, in grado di assicurare una definitiva uscita dalla crisi.

Ma i numeri per ora ci dicono altro e impongono cautela e realismo. La ripresa in corso è tuttora modesta e per darle maggiore forza servirebbe, oltre all’export netto verso il resto del mondo, un deciso incremento della domanda e del mercato interni europei. Sono precipitati entrambi in un prolungato ristagno in questi anni a causa delle politiche di austerità praticate finora. A questo riguardo, chi scommette sulla ripresa in corso ripone molte speranze nella nuova strategia di politica economica proposta a Bruxelles dalla Commissione Juncker. E’ imperniata su un rinnovato compromesso tra consolidamenti fiscali, riforme strutturali e misure per la crescita con due novità di rilievo. Innanzi tutto l’introduzione di nuovi criteri di flessibilità nella interpretazione e applicazione delle regole del Patto di stabilità e crescita, tali da consentire gradi di libertà maggiori nel perseguimento dell’equilibrio di bilancio strutturale da parte dei singoli paesi. In secondo luogo il varo del Piano di investimenti per l’Europa (Piano Juncker), che prevede l’istituzione del Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS) e vorrebbe assicurare, attraverso un complesso gioco di leve finanziarie, circa 315 miliardi di euro di investimenti addizionali, tra pubblici e privati.

Sugli esiti del nuovo corso di Bruxelles, tuttavia, si possono avanzare forti dubbi. Una maggiore flessibilità nell’interpretazione della governance europea, più finalizzata alla crescita, è certo positiva; ma declinata all’interno delle regole di bilancio esistenti – tuttora prevalentemente restrittive – potrebbbe generare, al meglio, più tempo per il rispetto delle stesse regole. E guadagnare solo più tempo non sarà certo sufficiente a sostenere una più forte ripresa europea.

Forti perplessità accompagnano anche il varo del Piano Juncker sugli investimenti.  Per l’esiguità delle risorse stanziate si teme che non riuscirà a produrre un significativo stimolo dal punto di vista della domanda aggregata. Ciò avrebbe ripercussioni negative anche ai fini dell’impatto sull’economia reale delle nuove misure di politica monetaria non convenzionale decise dalla Bce (QEs), che necessitano di adeguati stimoli fiscali di accompagnamento.

In queste condizioni la ripresa in corso rischia di rimanere modesta e incapace di assicurare una vera uscita dalla crisi. Resta così minacciosa la prospettiva di un prolungato ristagno dell’area euro, col rischio di un ulteriore rafforzamento dei partiti e movimenti nazionalistici e euroscettici. Tanto più che i problemi istituzionali dell’eurozona rimangono irrisolti, con una politica monetaria centralizzata e unificata a livello europeo unita a un totale decentramento delle politiche fiscali a livello nazionale.

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Di fronte a scenari così inquietanti sta trovando crescente sostegno l’idea di una uscita dall’euro di singoli paesi o, addirittura, quella del totale smantellamento della moneta unica. E’ un’idea accattivante per la sua apparente semplicità, ma tutt’altro che una valida soluzione. Come sostenuto anche nella maggior parte degli interventi pubblicati da Economia&Politica a commento dell’articolo di Realfonzo e Viscione, produrrebbe costi elevatissimi e di gran lunga superiori agli eventuali benefici.

Tra i benefici economici diffusamente citati dai sostenitori dell’uscita vi sono quelli legati alla svalutazione della moneta del paese che decidesse di abbandonare l’euro. Ne deriverebbero – si sostiene – aumenti significativi delle esportazioni nette e della produzione di quel paese. Per dimostrarlo, tuttavia, si utilizzano nella maggioranza dei casi analisi di equilibrio parziale con l’assunzione di circostanze esterne date. Un’ipotesi davvero eroica, quest’ultima, di fronte a un evento di tale portata quale l’euroexit. Sia con riferimento al comportamento degli altri paesi compratori, che è presumibile viceversa mettano in atto ritorsioni di vario genere, sia – soprattutto –  per quel che riguarda il comportamento dei mercati finanziari, che sarebbero investiti da una crisi di vaste proporzioni.

Basta pensare ai tempi e ai costi procedurali dell’eventuale dissociazione di un Paese dall’euro. Sarebbe necessaria, in effetti, una prolungata fase di gestione, in termini di riconversione dei salari e dei redditi, ridenominazione dei debiti e crediti, riprogrammazione dei computer e registratori di cassa, e così via. Come non ricordare la prolungata e estesa fase di operazioni, anche di carattere squisitamente tecnico, messe in atto nella seconda metà degli anni Novanta per poter procedere al varo della moneta unica nel 1999.

A questo riguardo, le ipotesi di chi disegna un piano d’uscita dall’euro senza traumi perché attuabile tecnicamente durante un weekend, a mercati chiusi, appaiono del tutto irrealistiche. La fase di transizione sarebbe in realtà molto più lunga di un fine settimana. E durerebbe comunque troppo a lungo per mantenere le misure restrittive necessarie, ad esempio, a scongiurare la classica corsa agli sportelli quali il congelamento dei conti bancari, o imbrigliare investitori desiderosi di sottrarsi alle perdite di una svalutazione attraverso il divieto dei trasferimenti di capitale.

E le misure restrittive andrebbero assunte anche nell’ipotesi, utilizzata da molti fautori di un’uscita dall’euro, di un clima di forte cooperazione da parte degli altri paesi. Un’ipotesi quest’ultima, va detto, assai fragile in generale e ancor più se assunta da coloro che escludono, allo stesso tempo, ogni futura positiva evoluzione dell’unificazione monetaria proprio a causa della mancanza di fiducia e solidarietà tra i paesi partner.

Proprio la complessità delle procedure fa capire come in tema di un’uscita dalla moneta unica non vi siano precedenti a cui far riferimento con una qualche attendibilità. Certo non l’abbandono di un accordo di cambi fissi. Di qui il fondato timore – da me condiviso – di molti dei commenti all’articolo di Realfonzo e Viscione che una rottura della zona euro e un ritorno alle vecchie monete nazionali finirebbe per spingere verso una crisi di proporzioni inusitate e per molti aspetti drammatiche, soprattutto sui mercati finanziari.

Per riassumere, pur riconoscendo che la fase attraversata oggi dall’Unione monetaria presenta tuttora criticità e difficoltà – come sopra messo in luce – tali da poter portare a un progressivo deterioramento della situazione economica, fino al rischio di una vera e propria rottura dell’eurozona. Bisogna essere consapevoli, allo stesso tempo, che uscire dall’euro a questo stadio così avanzato del processo di integrazione rappresenterebbe un’alternativa tra le diverse possibili a costi e rischi elevatissimi, soprattutto per un singolo paese.

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Ne discende che l’opzione migliore – in termini di costi-benefici – continua a essere quella di uscire non dall’euro ma dalle politiche sbagliate condotte finora, marcando una profonda discontinuità rispetto al passato. Non credo affatto sia stato un errore la creazione della moneta unica, ma certamente molti errori sono stati commessi nella costruzione del processo di unificazione monetaria in questi anni. E l’incerta gestione oggi dell’ennesima crisi della Grecia dimostra come l’Europa sia ancora a metà strada nel processo di creazione di una area monetaria unificata che possa funzionare.

Al di là della novità positiva del varo da parte della Banca centrale europea del “quantitative easing” servono innanzi tutto misure e politiche finalmente efficaci in direzione del rilancio della crescita e dell’occupazione dell’eurozona. A partire da una maggiore simmetria nei processi di aggiustamento macroeconomico tra paesi debitori e creditori, unita a un forte ciclo di investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, a livello europeo e nazionale, e ben al di là delle cifre del piano Juncker. Solo agendo su più fronti e con politiche di sistema si può sperare di imprimere una maggiore dinamica all’anemica fase di espansione in corso, offrendo così più margini di manovra ai processi di aggiustamento dei singoli paesi.

Per rinnovare le politiche, tuttavia, è necessario rinnovare anche i luoghi dove esse sono decise. A questo scopo è necessaria una Governance più equilibrata e meno dipendente dal potere del Consiglio europeo e dei paesi più forti (leggi Germania), che hanno preso in questi anni tutte le decisioni più importanti. E’ necessaria in altre parole più Europa, ovvero il rilancio dell’integrazione a livello monetario e fiscale, con una Bce vera banca centrale e una Governance più solida e meno dipendente dai rapporti tra governi nazionali.

Come sappiamo non è affatto scontato che i governi europei vogliano muoversi in questa direzione. Anche perché le divergenze e la reciproca diffidenza tra Nord e Sud sono molto aumentate in questi anni di crisi. A questo riguardo siamo solo agli inizi di un confronto in Europa che si annuncia difficile e molto aspro. Un confronto che interesserà nei prossimi anni oltre i singoli paesi le rinnovate Istituzioni europee, Commissione e Parlamento, che si sono appena insediate. L’esito è tutt’altro che scontato e sarà comunque decisivo per le sorti dell’intera area euro e della nostra economia, in particolare. Un dato di fatto è che gli Stati nazione europei non abbiano più gli strumenti per governare efficacemente le loro economie, perché troppo piccoli nella nuova economia globale imperniata su pochi grandi poli. Per questo, l’integrazione resta il terreno pressoché obbligato su cui continuare a misurarsi.

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