Alle comunità locali la scelta sulla gestione dei servizi pubblici

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The judgment nr. 199/2012 of the Italian Constitutional Court wiped out the legislation on local public services that Berlusconi government approved after the referendum of 12 and 13 June 2011 on the water services sector. So the power to decide on the administration of integrated water services returns to local authorities who can choose between self-production and outsourcing.

La sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 del 20 luglio scorso ha azzerato la legislazione sui servizi pubblici locali del Governo Berlusconi che, dopo la bocciatura nei referendum del 12 e 13 giugno 2011 dell’art. 23-bis del decreto legge 112/2008, aveva riproposto integralmente la disciplina abrogata limitandosi ad escludere dalla sua applicazione il settore dei servizi idrici.

La Corte ha dichiarato l’incostituzionalità delle nuove norme – cioè dell’art. 4 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 – per violazione dell’art. 75 in materia di referendum. Secondo la Corte governo e parlamento hanno ignorato la volontà popolare negando qualsiasi effetto utile al voto referendario e per di più in assenza di qualsiasi mutamento politico o nelle condizioni di fatto che potesse giustificare un tale comportamento.

Una sonora bocciatura per il legislatore italiano, con l’effetto di ricondurre la normativa interna italiana all’applicazione diretta della disciplina comunitaria che, in assenza di una direttiva specifica, consiste attualmente nei principi generali dei Trattati dell’Unione e nella giurisprudenza della Corte di giustizia Ue.

Dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale aveva recentemente bocciato la ripubblicizzazione dell’Acquedotto pugliese, la nuova pronuncia della Corte costituisce senz’altro un punto a favore dei sostenitori del ritorno alla gestione pubblica dell’acqua e mette in seria difficoltà governo e parlamento. D’ora in avanti il legislatore dovrà tener conto di precisi confini all’interno dei quali non sarà facile muoversi visti gli esiti dei numerosi interventi che, a partire dal testo unico del 2000, hanno modificato la disciplina generale e quella di settore con insolita frequenza, creando un vero e proprio caos normativo[1].

Il processo di privatizzazione, che si è sviluppato in Italia a partire dagli anni Ottanta e, nel settore dei servizi pubblici locali, si è posto l’obiettivo di disarticolare ed espellere dalla struttura interna degli enti locali il sistema delle municipalizzate di giolittiana memoria per ricondurre al mercato l’intero settore, ha subito una battuta d’arresto.

Chi in questi anni ha ispirato la propria azione politica e di governo alla granitica – quanto ideologica – convinzione che il necessario ritorno a condizioni di efficienza dell’intero sistema dei SPL potesse derivare esclusivamente dall’applicazione forzata della libera concorrenza a settori caratterizzati da condizioni oggettive di monopolio naturale dovrebbe, finalmente, fermarsi a riflettere.

All’esito dei referendum abrogativi del 12 e 13 giugno 2011 erano emerse due interpretazioni contrastanti: una, per così dire, restrittiva, l’altra invece che potremmo definire ‘riespansiva’.

La prima tende a dimostrare che l’unico effetto della vittoria del sì e quindi dell’abrogazione del vecchio art. 23-bis del decreto legge 112/2008 è quello di eliminare qualsiasi restrizione o condizionamento alla gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica attraverso società a capitale interamente pubblico mediante l’affidamento diretto di tali servizi con le caratteristiche del così detto in house providing[2].

Secondo questo indirizzo, in Italia sarebbero vigenti due soli regimi: l’in house providing e il ricorso al mercato. Quest’ultimo regime consisterebbe nell’attribuzione della gestione a società private con gara, ovvero nell’espletamento di procedure di evidenza pubblica dirette a realizzare il partenariato pubblico/privato industriale (PPPI) sul modello europeo. In tutti i casi la gestione – anche quella diretta da parte degli enti locali – sarebbe attuata attraverso società di capitali che, per la gestione pubblica con modalità di in house providing, devono essere a capitale interamente pubblico, controllate dall’ente affidante in modo analogo a quanto avviene per i servizi interni e svolgere la parte prevalente della propria attività a vantaggio del medesimo ente affidante.

In base all’interpretazione che abbiamo definito riespansiva[3], l’esito dei referendum abrogativi, rafforzato dalla sentenza n. 199/2012 della Corte costituzionale, conducendo all’applicazione immediata della normativa europea nel nostro Paese, riporta invece gli enti locali nella piena potestà di decidere quale strumento utilizzare per la gestione. Ciò significa che gli enti locali potranno utilizzare per la gestione diretta tanto soggetti di diritto pubblico come le aziende speciali quanto soggetti di diritto privato a capitale interamente pubblico. Ovvero, potranno rivolgersi al mercato e privatizzare la gestione con l’affidamento mediante gara a società interamente private o miste. Si sarebbe ristabilito, cioè, il sistema vigente in Italia tra il 1990, anno della prima riforma degli enti locali e dell’introduzione della figura dell’azienda speciale e il 1° gennaio 2002 giorno in cui la legge finanziaria dell’epoca provvedeva a cancellare la figura dell’azienda speciale dall’elenco degli strumenti di gestione dei servizi a rilevanza industriale (dizione poi trasformata nella attuale «rilevanza economica»).

Due elementi ostacolerebbero l’attuazione dell’interpretazione riespansiva: il principio di tipicità delle modalità di gestione e il presunto divieto di gestione diretta individuato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 325/2010 che ha sancito la costituzionalità dell’art. 23-bis poi abrogato con il referendum del 2011.

Entrambi questi elementi possono tuttavia considerarsi superati. Il primo perché dottrina e giurisprudenza hanno dichiarato non più attuale il principio di tipicità delle forme di gestione nel nostro ordinamento. Il Consiglio di Stato, in particolare, in una recente sentenza ha esplicitamente affermato – parlando, però, di servizi di scarso valore economico – che non si vede «per quali motivi un ente locale debba rintracciare un’esplicita norma positiva per poter fornire direttamente ai propri cittadini un servizio tipicamente appartenente al novero di quelli per cui esso viene istituito»[4].

Un ulteriore segnale del superamento di qualsiasi principio di tipicità nelle attività imprenditoriali lo ha dato recentemente il legislatore approvando una norma secondo cui nella sfera economica «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge»[5]. Ciò è sicuro indice – e veniamo così al secondo motivo di criticità – dell’impossibilità di esistenza di un divieto implicito di gestione diretta quale quello individuato dalla Corte costituzionale. Esso, infatti, non consisterebbe in un divieto espresso – che sarebbe comunque precluso – ma sarebbe frutto della discrezionalità lasciata dal diritto comunitario al legislatore nazionale nella scelta delle forme di gestione. Proprio perché frutto di discrezionalità, qualsiasi eventuale presunto divieto sarebbe stato cancellato dalla volontà popolare espressa nei referendum del 12 e 13 giugno 2011.

A ciò si aggiunga che il diritto dell’Unione europea non solo non prevede alcun modello tipico di gestione – e come potrebbe dovendo ricomprendere tutti i modelli vigenti nei ventisette Stati dell’Unione – ma neppure impone ai Paesi membri un obbligo di esternalizzazione per il semplice motivo che ammette l’autoproduzione dei servizi da parte degli enti locali. Per la Corte di giustizia Ue «un’autorità pubblica ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi»[6].

L’interpretazione riespansiva deve, quindi, considerarsi preferibile e soprattutto più rispettosa della normativa comunitaria e della volontà popolare. Questa, peraltro, è stata espressa non solo attraverso il referendum, ma attraverso tutti gli strumenti di democrazia diretta che la Costituzione mette a disposizione della cittadinanza. Non bisogna infatti dimenticare che, prima di arrivare a proporre i referendum abrogativi, il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, cioè il soggetto più rappresentativo in quanto raccoglie quasi tutte le associazioni, i comitati e i semplici cittadini che in questi anni si sono impegnati nelle battaglie contro la privatizzazione, aveva raccolto oltre quattrocentomila firme a sostegno di un progetto di legge di iniziativa popolare che reintroduceva la gestione attraverso soggetti di diritto pubblico. Il progetto di legge non è stato tenuto in nessun conto nonostante l’altissimo numero di firme a supporto. Come pure in nessun conto è stato tenuto dal Governo e dal Parlamento il fatto che in pochi mesi sono state raccolte un milione e quattrocentomila firme e che ventiseimilioni di elettori hanno votato a favore dell’abrogazione delle norme sulla privatizzazione della gestione.

In Italia resiste, nonostante tutto, il vento liberista che ha dominato la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio. Solo così può spiegarsi la costanza e l’ostinazione con le quali Governi e Parlamenti con maggioranze di diverso segno politico hanno continuato a portare avanti il medesimo progetto di liberalizzazione e privatizzazione del settore dei servizi pubblici locali senza mostrare mai alcuna seria apertura a soluzioni alternative.

Ciò ha condotto a una radicalizzazione delle posizioni che certo non ha giovato ad un utile confronto tra i diversi orientamenti.

Tuttavia una cosa è certa: governo e parlamento hanno ricevuto chiare indicazioni politiche dal progetto di legge di iniziativa popolare, dagli esiti referendum e dalla recente sentenza della Corte costituzionale: qualunque intervento sulla disciplina dei servizi pubblici locali dovrà restituire agli enti locali la possibilità di decidere se ricorrere o meno alla gestione diretta senza alcun obbligo di esternalizzazione e senza alcun condizionamento o restrizione della gestione pubblica.

Visto quanto accaduto negli ultimi anni, sarebbe forse opportuno che il legislatore statale prendesse un periodo di ‘meritato’ riposo e lasciasse il campo all’applicazione della normativa comunitaria da parte degli enti locali preposti riservando per sé il ruolo di controllo ex post delle eventuali normative regionali mediante il ricorso al giudizio della Corte costituzionale. Si realizzerebbe così il definitivo passaggio della legislazione in materia di servizi pubblici locali alla competenza dei livelli territoriali costituzionalmente competenti ottenendo nel contempo il risultato di responsabilizzare gli enti locali sulle scelte che attengono all’utilizzo delle risorse legate alle diverse realtà territoriali.

Non a caso, Elinor Ostrom al termine delle sue ricerche sul governo dei beni comuni sostiene che «l’ideazione e l’adozione di nuove istituzioni per risolvere i problemi delle risorse collettive sono compiti difficili, a prescindere da quanto sia omogeneo il gruppo, dalla qualità delle informazioni dei componenti del gruppo sulle condizioni della loro risorsa e da quanto siano radicate le norme generalizzate di reciprocità»[7].

È bene che siano le comunità locali a decidere come utilizzare le risorse a loro disposizione e come organizzare servizi migliori per i cittadini nel rispetto dei criteri di economicità ed efficienza che dovrebbero caratterizzare l’attività di una corretta amministrazione.

[1] A. Sandulli, L’acquedotto pugliese e la gestione del servizio idrico: slapstick comedy del legislatore regionale e carattere pervasivo della concorrenza, in Giur. cost., 2012, in corso di pubblicazione.
[2] G. Caia, Finalità e problemi dell’affidamento del servizio idrico integrato ad aziende speciali, in Foro amm. – Tar, 2011, pp. 663 ss.
[3] A. Lucarelli, La sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 e la questione dell’inapplicabilità patto di stabilità interno alle s.p.a. in house ed alle aziende speciali, in Federalismi
[4] Cons. di Stato, Sez. V, 26 gennaio 2011, n. 552.
[5] L’art. 3 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 al comma 1 stabilisce il principio secondo cui «l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».
[6] Corte di giustizia Ue, Sea s.r.l./Comune di Ponte di Nossa, 10 settembre 2009, in causa C-573/07.
[7] E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006, p. 305

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