Chi salverà l’America dal debito?

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Political and social notes

1. Chi salverà l’America?

Perdite pesanti e pronunciata volatilità nelle borse di tutto il mondo, ma soprattutto più di 22 milioni di disoccupati nell’Unione Europea, quasi 14 milioni negli Stati Uniti, e più di 200 milioni nel mondo (stime ILO), per limitarci alle cifre che non includono lavoratori sotto-occupati e scoraggiati (soprattutto giovani). Questa è la fotografia dell’economia mondiale nell’estate del 2011, un’economia ferita da un’implosione che è partita dalle sue due aree più economicamente avanzate e anche quelle, dovremmo presumere, più culturalmente attrezzate per trovare soluzioni efficaci che riportino crescita e prosperità, coniugando le preziose lezioni del passato con le nuove sfide della tecnologia e dell’ambiente. E si tratta ormai anche di qualcosa di più: dar prova che l’economia di mercato è governabile prima che qualcuno cominci seriamente a dubitarlo.

Ma quel che i leader dell’economia e della politica hanno prodotto fin qui è una ricetta confusa, contradittoria, che non riesce a guadagnarsi la fiducia di chi è più colpito dalla crisi, e cioè lavoratori e imprese che invece si aspettano risposte risolute ed efficaci, almeno nel campo del governo dell’economia, dove la politica non può permettersi di fallire.

Partiamo dal cuore dell’economia mondiale, che è ancora l’economia americana. Il congresso degli Stati Uniti ha dato uno spettacolo poco edificante con la lunga e inconcludente trattativa sul debito pubblico, in cui l’opposizione ha ricattato il Presidente, e il Presidente nulla ha fatto per sottrarsi al ricatto e rilanciare la propria leadership, che sta rapidamente evaporando. L’opposizione repubblicana ha pensato bene di giocare duro in vista delle elezioni presidenziali e ha ottenuto un impegno al taglio della spesa in cambio del voto di un provvedimento di routine, quello che periodicamente aggiorna il valore nominale dei titoli che il Tesoro americano è autorizzato ad emettere. Qualcuno ha sperato in un colpo d’ala di Obama che avrebbe potuto invocare la Costituzione e mettere all’angolo i repubblicani del tea party. Non è accaduto.

E siccome nel 2006 l’allora Senatore Obama aveva attaccato l’eccessivo debito pubblico (quando era di 5mila miliardi inferiore ad ora) in occasione di una molto meno drammatica scadenza del rinnovo del limite del debito, non ce ne possiamo sorprendere. Chi aveva pensato che il pacchetto Obama del 2009 fosse una convinta politica di rilancio del paese ha dovuto ricredersi.

È vero: la differenza tra spesa pubblica e introiti fiscali (in percentuale di pil) è raddoppiata negli ultimi tre anni, ma non tanto a causa dei limitati provvedimenti fiscali, quanto degli inevitabili effetti ciclici. Sarà bene ricordarne il meccanismo: il disavanzo contabile di qualunque stato è destinato inseorabilmente ad aumentare quando si perdono posti di lavoro. E quanti più posti di lavoro spariscono, tanto più cresce il disavanzo. Si perde il lavoro, spariscono i redditi, la base imponibile si riduce, gli introiti fiscali inevitabilmente si contraggono, e il disavanzo fiscale aumenta.

È questa la maniera, ruvida e aspra, in cui l’economia monetaria si difende dal collasso totale. Quando i redditi calano, il disavanzo che viene automaticamente prodotto contribuisce a rallentare la caduta. Esso corrisponde, dollaro per dollaro, a un maggior risparmio di famiglie e imprese: denaro speso dallo stato presso i privati e non tassato. Se si è pazienti abbastanza, la domanda e il reddito riprendono un po’ di vigore. È ciò che accadrà negli Stati Uniti se il disavanzo continuerà sugli attuali livelli.

Il problema è che su questa situazione già difficile la politica non sembra trovare di meglio che tagliare la spesa e aumentare le tasse, inceppando il meccanismo automatico: è come far violentemente cadere qualcuno mentre sta andando a farsi curare una gamba rotta!

2. Il downgrading alla prova del mercato

Molti americani hanno scoperto quest’anno l’esistenza del ‘tetto del debito’. La drammaticità della trattativa li ha convinti che il governo sia a corto di soldi, che i politici buttino a mare la ricchezza del paese, e che presto dovranno elemosinare aiuti finanziari dai cinesi. Il guaio è che Standard&Poor, con un linguaggio appena più sofisticato, dice la stessa cosa.

È piuttosto bizzarro: nei corsi di primo anno di economia si studia che uno stato che ha potere di emettere moneta è sempre in grado di pagare i propri debiti espressi in valuta nazionale, e il suo debito è per definizione ‘risk-free’. Lo stato potrà commettere altri danni, compresa una politica inflazionistica, ma nulla può impedire allo stato di ripagare i propri debiti. Abbiamo visto governi sospendere i rimborsi o gli interessi perchè il debito era denominato in valuta estera, o perchè vincolati da politiche di cambio fisso con valute straniere. Ma il debito degli Stati Uniti è in dollari e non è vincolato da cambi fissi. L’unico motivo che può impedire agli Stati Uniti di onorare puntualmente i propri obblighi è una legge e un voto che impongano un default politico!

S&P avrebbe potuto dirlo chiaramente: Finchè esiste il tetto al debito, gli Stati Uniti possono fallire: non perchè ‘hanno finito i soldi’, ma perchè la politica lo può insensatamente volere; eliminando quella legge che risale al sistema auero, il debito USA riacquisterà la tripla A. Ma nella relazione che spiega la decisione, S&P nota invece che il problema è proprio quello di finire i soldi (il tutto più sofisticatamente argomentato con riferimento al rapporto debito/pil giudicato ‘insostenibile’).

E arriviamo a lunedì 8 agosto mattina a Wall Street: Standard & Poor ha appena degradato il merito di credito degli Stati Uniti da AAA ad AA+. Cosa mai succederà al prezzo dei titoli del Tesoro americano? Il tesoro troverà più costoso finanziarsi? Dovrà offrire tassi più alti?

Ed ecco che arrivano le quotazioni dei mercati: il prezzo sale, i rendimenti scendono! Il mercato boccia S&P. Ha già troppo creduto ai rating quando i titoli spazzatura avevano la tripla A. Il mercato non crede al rischio di default ma valuta piuttosto una cosa: l’accordo del Congresso ha ulteriormente ridotto le possibilità che la Casa Bianca con uno scatto d’orgoglio annunci riduzioni di tasse o altri provvedimenti che creino posti di lavoro. E dunque, siccome una nuova recessione è ora piu probabile della ripresa, le attese di tassi futuri più bassi spiegano il calo dei rendimenti sui titoli del Tesoro americano. Attese regolarmente confermate dall’annuncio della Fed nei giorni successivi: niente rialzi dei tassi fino al 2013.

3. Perchè mai partire dalla riduzione del debito?

La capacità produttiva degli Stati Uniti non è in crisi. La scomparsa di 8 milioni di posti di lavoro in tre anni non è la conseguenza di un improvviso crollo delle risorse reali americane. È piuttosto l’esito di un drammatico calo della domanda. I redditi non sono alti abbastanza da consentire alle famiglie di acquistare i beni che la produttività non sfruttata e la forza lavoro non occupata consentirebbero di produrre. L’economia monetaria e finanziaria sta strozzando l’economia reale grazie a una politica confusa: da un parte si auspicano aiuti all’economia, e dall’altra si teme il disastro dei conti pubblici.

Ma cosa è davvero un debito non sostenibile? L’unica malcerta definizione in economia è quando il debito cresce rispetto al pil. Siccome la storia del rappoto debito/pil americano è una storia di cicli in su e in giù, ciò equivale a dire che il debito non è sostenibile quando sale e diventa di nuovo sostenibile quando scende. Totò non potrebbe fare di meglio!

Ma si dice: Non potrebbe fallire lo stato americano? No, a meno che il Congresso non prenda la decisione politica di farlo!

E non potrebbe lo stato federale creare intenzionalmente inflazione? Sì che potrebbe, ma solo se il disavanzo crescesse a fronte di un’economia ormai robusta e prospera dove la domanda supera l’offerta. E siamo ben lontani!

Ma si dice ancora: anteporre l’obiettivo dell’occupazione alla riduzione del debito non ci si ritorcerà contro? Al contrario. La crescita dell’occupazione ha l’effetto di ridurre i disavanzi e il debito.

Ma non potremmo allora scegliere una via di mezzo che risani i conti pubblici fornendo qualche sollievo fiscale alle banche e alle imprese così da aiutarle a far prestiti e a produrre? No: per questa strada non si alimenta la domanda. Occorre invece fare concessioni fiscali importanti alle famiglie, quelle con la maggior propensione al consumo, ovvero quelle a basso reddito: se queste stanno meglio, le imprese venderanno di più e le banche si rivedranno rimborsati i mutui.

Nei primi anni ’80 (molti degli economisti che in quegli anni si stavano formando lo ricorderanno), Ronald Reagan conquistò la Casa Bianca con la promessa del pareggio di bilancio. Un giorno, alla domanda “come assorbire la disoccupazione di 12 milioni di persone?’ Reagan rispose che la disoccupazione sarebbe scomparsa in una notte se solo ciascuna delle 12 milioni di imprese americane avesse assunto un addetto. Le imprese non seguirono il consiglio del presidente, privilegiando il proprio legittimo interesse: dopotutto, al bene nazionale deve pensare la politica, non il singolo. E alla fine, Reagan ridusse le tasse e fece crescere rapidamente la spesa militare. La recessione, com’era prevedibile, finì.

Possibile che solo le spese militari riescano a relegare in seconda fila l’obiettivo della sostenibilità del debito? E che l’obiettivo della piena occupazione, che è poi una condizione per accrescere la stabilità finanziaria e la sicurezza interna (vedi l’Inghilterra di questi giorni), non meriti mai un posto di prima fila?

* Franklin College e Università Cattolica

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