La valutazione della ricerca in economia: una riflessione critica

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Political and social notes

Come certo sanno gli autorevoli economisti che partecipano al dibattito sulla valutazione della ricerca, la controversia su come individuare criteri oggettivi affonda le sue radici in una molto più ampia che riguarda l’idea di progresso della scienza economica. Da un lato coloro che ritengono che questo sia un continuo proseguire dall’errore alla verità e, dall’altro, coloro che ritengono che le premesse analitiche siano storicamente determinati e influenzate dalla visione del mondo dello studioso e pertanto non possano essere ritenuti validi in sé..
Chi spinge nella direzione di criteri oggettivi propende per la prima interpretazione, chi, al contrario, intende dare maggiore spazio alla valutazione discrezionale propende per la seconda.
Va certamente oltre le mie capacità aggiungere un contributo significativo a questo dibattito, ma mi interessa offrire qualche spunto di riflessione su alcune circostanze che circoscrivono la validità dei criteri oggettivi di valutazione, almeno per quanto riguarda le discipline economiche.
Si è detto che un criterio di valutazione oggettiva sarebbe rappresentato dal cosiddetto impact factor, ovvero, detto in termini semplificati, la diffusione internazionale della rivista che contiene la pubblicazione. Questa misura consentirebbe di aggirare l’arbitrio dell’accademia italiana nell’individuare i vincitori di concorso e di escludere tutti coloro che pubblicano lavori privi di questo indice. Ma questo indicatore possiede un limite non facilmente superabile: suggerisce percorsi di ricerca già ampiamente consolidati e nel cui ambito si può aggiungere solo qualche particolare. Questa strategia è la garanzia di non commettere errori gravi e di trovare un numero vasto di interlocutori, ma non di scrivere cose originali. Ma se la scienza prosegue verso la “verità” – direbbe un sostenitore dell’approccio oggettivo – il trascorrere del tempo limita la possibilità di produrre contributi originali. Questo stesso modo di procedere è suggerito ai giovani per la scelta della rivista nazionale o internazionale a cui mandare i propri lavori. Una volta individuata una rivista accreditata: si tarano su quella sia i contenuti che lo stile di scrittura; i giovani, pertanto, si impegnano nella direzione di ricerca prevalente perché ciò consente loro di fare rapidamente carriera. Si rovescia così il percorso di crescita dei ricercatori che antepongono l’obiettivo della vittoria ai concorsi all’obiettivo del soddisfacimento delle proprie curiosità scientifiche. Utilizzando il criterio dell’impact factor, la gran parte delle riviste eterodosse e, direi, tutte quelle italiane di economia sarebbero escluse da una graduatoria di merito scientifico, consolidando la condizione di provincialismo del nostro paese, più di quanto non abbia fatto la strategia dei “baroni”. Se prima era possibile che l’originalità emergesse in Italia nonostante l’arbitrio, ora diventerebbe impossibile.
Si è detto ancora che le pubblicazioni su volumi non rappresentano un contributo significativo alla ricerca e che pertanto non debbano essere valutate nella individuazione di una graduatoria di merito. Tuttavia – pur escludendo che uno studioso non pubblichi in prima battuta in un volume i risultati originali della sua ricerca – emerge da questa strategia una tendenza preoccupante riguardo all’idea di progresso della società: lo scollamento della ricerca dalla didattica e la negazione del fatto che esse si alimentano l’una con l’altra. Raccogliere in un volume i contributi di uno o più autori consente invece di sistematizzare i risultati e di renderli più accessibili agli studenti, che, così, sono stimolati a crescere e a riflettere sui contenuti e sulla capacità interpretativa della disciplina.
Di certo studiare e pubblicare all’estero, partecipare a convegni internazionali, frequentare ambienti di ampio respiro e soprattutto confrontarsi con chi ha già ampiamente approfondito certi temi sono le premesse valide ad una ricerca di qualità. Tuttavia ancorare il giudizio unicamente a indicatori quantitativi – ritenendoli sostituti perfetti di quelli qualitativi – rischia di fornire fondi e strutture a chi già ne dispone e di subordinare l’avanzamento della ricerca al desiderio di una rapida carriera.
Lo scegliere regole fisse – utilizzando una metafora importata dall’economia che non sembra aver dato in Europa risultati efficaci – è, a mio avviso, una strategia lontana da chi si interroga con curiosità. L’intelligenza e l’autonomia di pensiero non possono che essere caratterizzate da una componente di discrezionalità.

*Professore associato di Politica economica presso l’Università Phartenope di Napoli

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