L’americanismo di Marchionne

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Political and social notes

La storia – scrive Karl Marx – si presenta prima come tragedia e poi si ripete come farsa. In questo senso il ricorso ad un nuovo modello di relazioni industriali che costituisce il nucleo dell’accordo Mirafiori del 23 dicembre 2010 (approvato di stretta dal referendum del 14 gennaio 2011) si presenta come una versione caricaturale dell’americanismo d’inizio Novecento, quando la Fiat poteva essere considerata nei metodi di organizzazione del lavoro e di relazioni industriali un enclave di modernità nell’ambito della arretratezza complessiva della società italiana.

In questi termini appariva ad Antonio Gramsci che appunto coniò il termine di americanismo[1] per indicare il processo di razionalizzazione del lavoro, rappresentato dal fordismo-taylorismo, che si accompagnava ad una generale modernizzazione della società, con l’obiettivo di subordinarla integralmente alle esigenze dell’apparato produttivo.

L’americanismo con la sua visione integralista della società industriale costituiva per una società arretrata come quella italiana un elemento progressivo perché contribuiva ad aumentare l’educazione produttiva della classe operaia, ad eliminare i residui di parassitismo legati all’esistenza di classi dirigenti non direttamente produttive, introduceva una nuova morale industriale e una nuova struttura ideologica. L’americanismo nel creare un nuovo tipo umano di produttore consapevole poneva le premesse, secondo Gramsci, per il passaggio alla superiore organizzazione socialista della produzione.

In sintesi, Giovanni Agnelli, importando da una società più avanzata un modello di relazioni industriali, assumeva nella società italiana d’inizio novecento un ruolo “oggettivamente” rivoluzionario, anche se ovviamente le sue motivazioni soggettive erano strettamente legate alla realizzazione di più alti profitti raggiungibili con strumenti più efficienti di organizzazione del lavoro.

Il ruolo di Marchionne è da un punto di vista “oggettivo” diametralmente opposto. Il modello che si è proposto prima a Pomigliano e poi a Mirafiori è un nuovo tipo di americanismo globale in cui gli elementi progressivi sono scomparsi. L’obiettivo resta sempre quello di subordinare tutto alle esigenze della produzione, ma livellando verso il basso e annullando gli elementi di democrazia industriale che sono stati costruiti in un secolo di lotte operaie, che hanno avuto il loro nucleo più attivo proprio nella classe operaia torinese.

Ma oltre questo dato che investe le relazioni industriali, vi è un’altra implicazione egualmente importante: con l’accordo di Mirafiori la Fiat non ha più una dimensione nazionale e ha rinunciato di fatto al ruolo che ha svolto nella storia del capitalismo italiano. La sua dimensione ormai è quella di una multinazionale che come unico modello ha il vantaggio competitivo offerto dall’economia globale. La Fiat non ha più un rapporto privilegiato con il nostro paese.

Come indica la vicenda di questi sei mesi da Pomigliano a Mirafiori, la Fiat manterrà la produzione di automobili in Italia solo perché l’organizzazione del lavoro sarà uguale a quella che si potrebbe ottenere in una fabbrica serba, brasiliana o di Detroit. E’ come se gli operai si fossero trasferiti materialmente in Serbia, in Brasile o nell’Illinois. Delle enclave di economia globalizzata sono stati innestati nel tessuto giuridico e sociale. E’ un’operazione opposta a quella compiuta da Giovanni Agnelli, cento anni fa: non si trapiantano più elementi di progresso in realtà arretrate, ma all’opposto si livella la condizione di lavoro sugli standard più bassi che appartengono a società che non hanno una tradizione di relazioni industriali democratiche. La caricatura di americanismo rappresentata da Marchionne sta proprio in questo.

Basta dare una rapida lettura del documento (pubblicato sul sito della Fiom) per rendersi conto che definire l’accordo come regressivo non è il frutto di una cecità ideologica, ma corrisponde alla realtà dei fatti.

La strategia di Marchionne è stata resa possibile grazie ad un governo che non ha alcuna visione strategica del futuro industriale del nostro paese. L’industria automobilistica italiana doveva essere aiutata non con mezzi come la rottamazione, ma con finanziamenti diretti che avrebbero potuto dare alla politica il ruolo di indirizzo e di garanzia.

In questo quadro si poteva concepire un accordo nazionale tra produttori che avrebbe potuto anche garantire l’incremento della produttività senza sospendere i diritti acquisiti. La classe operaia italiana non ha mai rinunciato alla sua funzione nazionale. Senza alcuna retorica si deve ricordare che furono gli operai del Nord a salvare le fabbriche del Nord dalle rappresaglie dell’esercito nazista in ritirata, nella primavera del 1945 (mentre proprietari e capitani d’industria erano in fuga), e che furono gli stessi sindacati operai ad accettare la moderazione salariale per permettere la ricostruzione e lo sviluppo del dopoguerra.

Anche di fronte a questa crisi si sarebbe trovata una soluzione nazionale, bastava aver un management Fiat più illuminato e consapevole di una funzione nazionale, e, dall’altra parte, un governo altrettanto consapevole degli obiettivi di sviluppo del paese, non solo interessato ad indebolire la sua controparte sociale. La dirigenza Fiat sa bene che il problema della produttività italiana riguarda la scarsa innovazione di processo e di prodotto, ma la miope ricerca del profitto immediato allontana il problema delle scelte strategiche di lungo periodo. La Fiat ha scelto così un profilo basso: galleggerà nel mercato ancora per un po’ occupando nicchie di mercato non ancora integralmente sfruttate. Almeno questo ci è dato di capire in assenza di ulteriori chiarimenti sulla strategia del piano industriale.

Ci ritroviamo ora di fronte ad un accordo che ci riporta alle relazioni industriali d’inizio anni Sessanta e abbiamo perso una grande occasione per la modernizzazione.

Questo accordo ha inoltre il carattere di una scommessa: si rinuncia, infatti, al certo dei diritti di oggi per poi ottenere lavoro domani (con la promessa di un salario più alto). Ma chi ci assicura che l’investimento andrà a buon fine? Chi ci assicura che i nuovi modelli saranno venduti? Chi ci assicura che nel 2013 la Fiat, in questa feroce concorrenza globale, non sarà di nuovo di fronte ad un suo ennesimo fallimento di mercato dei suoi prodotti? L’accordo si regge sulla promessa di vendere di più in futuro (promessa a cui sono legati anche gli aumenti salariali), ma se non fosse così? Chi salverà la produzione automobilistica italiana e insieme la classe operaia di questa nazione, e forse la stessa nostra democrazia che sul lavoro è costruita?

 

 

[1] Concetto, come è noto, elaborato nel Quaderno 22.

 

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