Quali politiche macroeconomiche per l’Italia?

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Political and social notes

L’approfondirsi della crisi in Grecia e le difficoltà economiche e sociali di altri paesi come la Spagna, insieme ai segnali di cambiamento politico in Italia, rendono molto importante che si apra un dibattito interno all’opposizione sul che fare nella politica economica italiana. In questa prospettiva mi sembra utile tornare a discutere del documento programmatico recentemente proposto dal Pd.

Come già segnalato in un precedente contributo alla rivista, la prima parte del documento, relativa alla situazione ed alle politiche economiche in Europa, segna una importante ed innovativa presa di posizione. Essa infatti pone al centro dell’analisi la necessità di una crescita della domanda interna in Europa come condizione ineludibile per una ripresa della crescita e dell’occupazione. Da questo scaturisce la critica delle politiche di austerità attualmente perseguite in quanto, vi si afferma giustamente, esse rendono più incerto lo scenario macroeconomico e invece di attenuare le tensioni sui mercati finanziari contribuiscono ad alimentarle. Ne conseguono proposte alternative a livello europeo centrate sulla creazione di istituzioni e strumenti volti a ridurre drasticamente i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico dei paesi potenzialmente o effettivamente sotto attacco da parte della speculazione finanziaria internazionale, sulla realizzazione di un programma di investimenti finanziati da emissione di titoli europei e su politiche di redistribuzione del reddito. Tra queste ultime in particolare la proposta di applicare uno “standard retributivo” ai paesi europei (discussa anche su questa rivista) che vincoli tutti i paesi ad una crescita dei salari almeno pari a quella della produttività, mentre le economie, come la Germania, che hanno un avanzo nella bilancia commerciale, dovrebbero realizzare una crescita dei salari maggiore della crescita della produttività. Questa misura contribuirebbe al perseguimento di diversi obiettivi: porre un freno alla deflazione salariale come strumento per la competizione internazionale; sostenere i redditi da lavoro e la domanda interna, favorendo per questa via l’occupazione e il riequilibrio dei conti pubblici; determinare una crescita maggiore della domanda e del costo del lavoro nei paesi in avanzo commerciale, contribuendo così anche alla riduzione dei disavanzi esteri delle economie “deboli”, permettendo loro di esportare di più verso i paesi ora in surplus commerciale.

L’impostazione generale appena descritta (sebbene debba essere ulteriormente articolata e precisata) è del tutto condivisibile, e ha una evidente assonanza con le posizioni espresse dagli oltre 250 firmatari della Lettera degli economisti resa pubblica nel giugno scorso. Tuttavia si nota nel documento un forte scarto quando dall’analisi della situazione europea si passa a quella dell’Italia e si delineano le proposte di politica economica per il paese. Qui gli obiettivi proposti sono certamente condivisibili: aumento dei tassi di occupazione e di attività femminile[1] e aumento della produttività. Su entrambi i fronti infatti l’economia italiana è indietro e ha perso terreno rispetto ai partner europei. Il problema, però, è che sparisce da questa parte del documento ogni riferimento a politiche volte a far crescere la domanda aggregata interna, sebbene questa sia la condizione necessaria perché possano davvero realizzarsi entrambi quegli obiettivi, e in particolare il primo. La crescita dell’occupazione femminile è bloccata in Italia non tanto dalla carenza di servizi ma, soprattutto, dalla mancanza di opportunità di lavoro. I tassi di attività e di occupazione femminile sono infatti terribilmente bassi al Sud, dove le opportunità di lavoro sono così scarse che anche i tassi di attività maschili sono molto al disotto di quelli delle altre regioni italiane (il tasso di attività maschile al Nord è 78%, 12 punti in più che al Sud dove si attesta al 66%; per le donne la differenza sale a quasi 25 punti tra il 60,5% del Nord e un infimo 36% al Sud). Secondo l’Istat, quasi il 40% delle donne inattive nelle regioni meridionali dichiara di non essere alla ricerca di una occupazione perché convinta di non poterla trovare. In questa situazione, la creazione di condizioni più favorevoli alla conciliazione tra vita familiare e lavoro è certamente auspicabile, e contribuirebbe di per sé a creare opportunità di occupazione per le donne come lavoratrici proprio in quei servizi (come asili, assistenza agli anziani) necessari a favorire quella conciliazione. Tuttavia questo non può essere sufficiente a determinare un aumento dell’occupazione complessiva se avviene non in un quadro macroeconomico di espansione della domanda, ma al contrario in un contesto di taglio complessivo della spesa e del welfare.

Il punto è che quando si parla dell’Italia, l’unico riferimento ad una espansione della domanda è nel rinvio ad un mutamento delle politiche economiche in Europa, mentre d’altro lato si manifesta piena adesione alle politiche di austerità chieste al nostro paese, come mostrano le reazioni del PD alla relazione del Governatore Draghi. Ciò elude scelte ed assunzioni di responsabilità certamente molto difficili ma a cui non ci si può sottrarre. Se non si riesce a far procedere una diversa politica macroeconomica a livello europeo, quali sono le proposte della sinistra per il nostro paese? Seguire le orme di Grecia e Spagna, e accettare le politiche di forti tagli alla spesa pubblica, che generano recessione e disoccupazione, si dimostra sempre più un suicidio per l’economia e per il mondo del lavoro, oltre che la via ad una probabile sconfitta politica.

[1] I tassi di attività femminili sono dati dal rapporto tra la somma di occupate e disoccupate e la popolazione di riferimento (in questo caso donne in età 15-64 anni), i tassi di occupazione dal rapporto tra occupate e popolazione di riferimento.

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