Donald Trump: come nasce il populismo USA

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Political and social notes

Il ceto medio negli Stati Uniti d’America non crede più al “sogno americano” dell’ascensore sociale e si rivolge al populismo di Donald Trump. La cultura europea è diversa, basata più sul conflitto sociale che sull’american dream, ma le vicende elettorali USA sono un monito anche per noi.

1 L’uomo bianco di Ezio Mauro

Se l’ultimo libro di Ezio Mauro si intitola L’uomo bianco (Feltrinelli, 2018), alla lettura si scopre che questo «nuovo soggetto pubblico» così «perfetto e maledetto nella sua solitudine», non è tanto l’antitesi di quell’“uomo nero” che spaventa ancora i bambini (nonché la sinistra “riflessiva”), bensì e piuttosto «antropologicamente una sorta di uomo-zero», «un superstite solitario, prima scartato dalla crescita, poi ferito dalla crisi, comunque deluso dalla rappresentanza, convinto di avere accumulato un credito che essendo inesigibile ha finito per trasformarsi in una lunghissima cambiale di rancore privato, da spendere o almeno da ostentare in pubblico. Poiché ciò che è accaduto nell’ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha spinto ancor più lontano gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire la democrazia, l’uomo che si sente solo scopre che nell’improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente».

Il giornalista ci sa fare con le parole ed è attento alla sensibilità sociale tanto da avvertire che c’è una vera rivoluzione che sta mescolando le classi, sebbene gli manchi la categoria specifica capace di ridurre ad unità quei fenomeni che hanno provocato (in ordine di importanza decrescente) Donald Trump, la Brexit e il governo Lega-M5S. Per questo la sua analisi resta indeterminata rifugiandosi nella definizione trumpista (ma ancor prima reaganiana) dei “dimenticati” (i forgotten men), che assomigliano stranamente e con inquietudine ai “piccoli uomini” (i kleine Männer) descritti all’inizio degli anni trenta del Novecento da Hans Fallada, e che sono decisi (oggi come ieri?) a «presentare a chiunque il saldo di tutto ciò che non va, per chiedere conto di un mondo fuori controllo, per dare una colpa universale alla classe generale che ha esercitato il comando fino ad oggi».

Qui è bravo Ezio Mauro ad evocare, a loro antagonista, non tanto una parte politica (come la “sinistra democratica” di Blair, Clinton/Obama, Veltroni/Prodi/Bersani/Renzi) ma proprio una intera classe sociale, quella “classe operaia responsabile” che era stata considerata depositaria della verità perché inserita, oggettivamente prima ancora che soggettivamente, nel solco della storia. Questa sua investitura, nel corso del finale del Novecento, è stata apparentemente smentita da una crisi che sta durando ormai da un decennio e di cui questa classe generale non ha capito le cause ed ha aggravato con gli sconsiderati interventi dei propri rappresentanti. Ma i dimenticati di oggi, chi sono costoro? E che cosa rappresentano sul piano della composizione sociale?

 

2. La crisi negli USA

Qualche tempo dopo la crisi finanziaria del 2008, correva voce a Wall Street di una certa teoria della clessidra, ovvero di una tendenza dell’economia a polarizzare la distribuzione del reddito netto su due ben distinti strati sociali con una riduzione drastica del “ceto di mezzo”, ovvero la middle class. Il passo successivo è stato quello di monetizzare questa voce di corridoio e trasformarla nel Hourglass Index, “l’Indice della clessidra”, che nel termine avrebbe racchiuso un doppio significato: sia quello della nuova forma geometrica che si stava materializzando nella composizione sociale, che il senso del tempo che restava alla classe di mezzo prima di scomparire come gruppo specifico dal sistema economico capitalistico. La funzione dell’indicatore si basava semplicemente sul monitoraggio del tasso di rendimento dei titoli emessi dalle migliori venticinque compagnie del settore Luxury e le migliori venticinque del settore Low Cost e l’indice ha fruttato, agli istituti che ne hanno fatto uso, una crescita dei guadagni del trenta percento in tre anni (cfr. J. Barigazzi, C’è un indice che scommette sulla sparizione della classe media, Linkiesta, 1 febbraio 2013). Tralasciando il particolare che in uno dei centri più importanti della finanza internazionale si scommettesse sulla scomparsa della classe media in quanto investimento redditizio, la teoria della clessidra sembrava già trovare una discreta evidenza empirica proprio nell’entità dell’indicatore.

Ne emergeva una situazione parzialmente discordante rispetto ai trend macroeconomici del dopo-crisi 2008 che, negli Stati Uniti d’America, mostravano un alto tasso di crescita e una tendenza decrescente della disoccupazione, ma non rispetto a quelli distributivi. E’ proprio Joseph Stiglitz che, a ridosso delle ultime elezioni (How Trump Happened, Project Syndacate, 4 ottobre 2016), poteva parlare di una “roulette russa” che il popolo americano stavo giocando a colpi di primarie, allo scopo di spiegare come si fosse arrivati al punto di mettere in discussione la scelta tra una candidata, considerata preparata e capace, come Hillary Clinton ed un outsider eccentrico e chiacchierato e senza alcuna precedente responsabilità pubblica come Donald Trump. Aveva già dedotto che la motivazione poteva risiedere nel fatto che il reddito mediano pro-capite del ceto professionale fosse diventato più basso di quello di quarant’anni prima e che i salari della fascia bassa della distribuzione del reddito si trovassero a malapena dove erano stati sessant’anni fa. Così Trump non avrebbe fatto altro che raccogliere i voti di quella parte della popolazione che, avendo sofferto la stagnazione del proprio reddito e talvolta l’abbassamento del proprio standard di vita, realizzava di avere subito un evidente declassamento sociale. Un fenomeno certamente aggravato per alcuni dal fallimento borsistico-immobiliare se non addirittura dalla perdita del posto di lavoro o della casa, ma agevolato dalle misure politiche adottate dall’area liberal, ovvero quel Partito democratico sostenitore del libero commercio internazionale e della deregolamentazione finanziaria.

Il risultato è stato l’indebolimento del tessuto produttivo più basso, in cui gli artigiani e i piccoli imprenditori non sono più riusciti a sopportare la fiscalità necessaria a finanziare il debito pubblico post-crisi oppure sono stati spiazzati dalla concorrenza internazionale. E questo mentre i “colletti bianchi” (i c.d. white collars) subivano un difficile ricollocamento in un mondo di piena-informatizzazione del terziario, dove i classici mestieri “di ufficio” e “di intermediazione” erano spesso superati dalle reti di comunicazione che, estendendo la concorrenza tra i lavoratori a livello globale, producevano stipendi e salari sempre più al ribasso. Pertanto, le basi sociali della svolta trumpista non sussistono certamente nella povertà assoluta ma piuttosto in quella relativa, causata dallo sbilanciamento distributivo del reddito netto che ha visto la middle class, ovvero oltre il quaranta percento della popolazione americana, venire esclusa da quella crescita economica che aveva finora garantito alti livelli di benessere e di sicurezza, nonché di democrazia. E quando quel temporaneo vuoto di leadership tra le linee repubblicane è stato colmato dal pur impresentabile Donald Trump, i ceti medi hanno visto in lui l’unica possibile alternativa alla politica irreversibile delle “liberalizzazioni democratiche” schiacciando la propria rappresentanza popolare su di lui, in completa opposizione ad un establishment incarnato nell’immagine della famiglia Clinton e, in questo caso, della ex-first lady Hillary.

 

3. Il successo elettorale di Donald Trump

Ma perché proprio il neo-repubblicano Donald Trump? La risposta andrebbe cercata non tanto nella storia personale di questo colorato fenomeno della cultura di massa americana, quanto nell’apparato politico tradizionale che ha contraddistinto lo sviluppo del sistema democratico statunitense fin dalla dichiarazione d’indipendenza. Negli USA, la politica è nata ed è giunta a maturità assieme all’essenziale interesse economico attraverso metodi a tratti evidenti e semplificatori, sicché la storia e le dinamiche dei partiti politici possono riflettere in qualche modo sia la struttura sociale che l’entità dei conflitti economici al suo interno.

Il Partito democratico ha posto le origini della sua rappresentanza nell’interesse dei proprietari terrieri e immobiliari. Questa “alleanza” è andata a comprendere, nel Novecento, anche il mondo bancario, che traeva i suoi profitti dai valori delle materie prime e degli immobili. Lo si doveva anche alla dinamica dei redditi percepiti, con la rendita e l’interesse entrambi agevolati dalla crescita della popolazione, che estendeva la domanda dei beni di prima necessità, delle strutture abitative e quindi anche quella dei prestiti bancari. Dall’altra parte, il Partito repubblicano è stato da sempre il portavoce degli interessi della classe industriale, di quel mondo produttivo mosso dalla ricerca del massimo profitto, anche a spese del contenimento dei salari, e da una spiccata ideologia di dominio collettivo che, da dimensione strettamente “di classe”, è stato poi trasmesso a caratteristica nazionale.

Le ragioni della quasi totale assenza nella politica americana di un partito socialista, che avrebbe potuto costituirsi a rappresentante degli interessi della working class, si devono al corollario liberale democratico su cui l’America ha fondato il proprio modello condiviso di società riassunto perfettamente dal “sogno americano”. Non a caso il sociologo Werner Sombart in un saggio del 1906 riteneva impossibile la pratica della lotta politica di classe (di cultura tipicamente europea) in un paese in cui allo sfruttamento del lavoro veniva contrapposto quell’ascensore sociale che ha garantito la stabilità dell’equilibrio della condizione lavorativa operaia con il consenso verso le istituzioni capitalistiche e che, di fatto, ha contenuto finora ogni necessità di “rivolta dal basso”.

Nell’anno delle elezioni, l’altro candidato dei repubblicani Ted Cruz aveva accusato Donald Trump di aver sostenuto la candidatura di Hillary Clinton alle primarie democratiche del 2008, vinte poi da Barack Obama, allo scopo di agitare l’indignazione dell’elettorato. La risposta del candidato Trump era stata onesta e coerente: «It was for business» («Erano affari»). Da questo episodio la stampa americana si è impegnata a divulgare tutte quelle evidenti pratiche di “trasformismo” del candidato nel corso degli anni successivi. Ma si sa che queste cose in America sono sempre esistite, proprio perché nella politica americana nessuna dimensione etica o religiosa può mai interferire con il più concreto interesse economico e la stringente necessità di rappresentarsi politicamente al Congresso. Così se Trump, in quanto immobiliarista, era stato legato agli interessi rappresentati dal Partito democratico, dopo la crisi ha iniziato a prenderne le distanze, contestando l’allora Presidente Obama e sostenendo addirittura il repubblicano Romney alle elezioni del 2012. Ma quello che poteva considerarsi un trasformistico cambio di fazione è stato il risultato della volontà di accentrare su di sé un’alternativa a quell’indirizzo politico che di fatto è stato accostato al fallimento di Lehman Brothers e a tutto ciò che ne è conseguito e che, verosimilmente, avrebbe incontrato quella medesima sorte di lì a poco. Nella realtà, l’ideale politico del miliardario Trump non è stato di certo sconvolto dalle politiche neo-liberiste o dalla crisi finanziaria, piuttosto egli si è preoccupato di riformare l’intera struttura del Partito repubblicano, rimasto “orfano” della sua originaria base sociale di rappresentanza, per abbracciare un elettorato alquanto diverso.

A questo punto diviene facile comprendere i dettagli che connotano le basi economiche e le dimensioni ideologiche di quel terremoto sociale e politico non meglio definito fino ad oggi che con il termine di “populismo”, che non sembra essere altro che il prodotto dello sconvolgimento verso il basso della parte sensibile della società americana, che è la middle class. Quel gruppo di ceti sociali alquanto eterogenei e transitori, in equilibrio tra gli interessi fino ad oggi condivisi con le classi agiate e quell’inesorabile avanzamento della precarizzazione che si è materializzata improvvisamente, e accomunate per tutto il Novecento dall’essere prova viva del funzionamento dell’ascensore sociale, che è valido in uno Stato in cui ciascuno ha il diritto di essere o di diventare proprietario, ma che ora non funziona più. La versione antitetica di tutto questo è Donald J. Trump, il self-made man che incorpora nella sua stessa immagine quel sogno americano infranto e che è giunto a mettere in discussione perfino i principi di un sistema democratico accusato di essere la causa di tutte le delusioni dei ceti medi dimenticati.

Il tessuto ideologico sul quale questo tipo di approccio politico-economico ha trovato origine è frammentato quanto la base sociale che lo sostiene. Il ceto medio in crisi si è infatti costituito politicamente attraverso una rappresentanza scollegata da ogni tradizione partitica, che ha preteso di contraddire la linea dell’establishment riuscendo quasi ad avvicinarsi al socialismo, giustificato in questo caso dalla sua inedita condizione economica. Ed ecco come il movimento trumpista è giunto a parziale stabilizzazione nelle elezioni di Midterm, con un “rimbalzo” democratico che si è tradotto nella sola maggioranza alla Camera, e un blocco repubblicano composto dalla maggioranza al Senato e quella dei governatori dei singoli Stati. Una chiara conferma (soprattutto con l’elezione di Cruz in Texas) di come anche la linea politica del Grand Old Party è intenta a cavalcare quell’egemonia politico-culturale costruita artificialmente attorno al suo nuovo leader popolare, ovvero di un modello americano che è giunto a convertirsi ad una confessione autoritaristica, in cui l’intento di ritornare alla grandezza della nazione ammonisce perfino la libera iniziativa privata, promuovendo così una politica totalmente in controtendenza con le istituzioni contemporanee ma soprattutto con i fondamenti ideologici costitutivi del meccanismo democratico di Stato.

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