Beni comuni e l’inganno della scarsità | Andrea Pannone

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As it is well known the notion of tragedy of the commons prefigures a conflict on the appropriation levels of resources that are non-excludable and rival (natural resources, such as forests, fisheries, and other renewable, or human-made resources, as irrigation systems, information goods, etc.). Tragedy occurs if those resources will be overused or even exhausted by rational, utility-maximizing individuals rather than conserved for the benefit of all. In this paper we show that in the presence of immediate and shared information on the potential capacity of a common along a given time period, as well as adequate feedback on individual behavior, significant antirivality and inclusiveness phenomena could take place. In these cases tragedy could be avoided.

Beni comuni | Andrea Pannone Secondo molti economisti i beni comuni necessitano di una precisa regolazione o rischierebbero di esaurirsi presto. Esistono soluzioni alternative?

1. I beni comuni, la tragedia, le forme di regolazione

Un’idea ancora molto consolidata tra gli economisti e politici è che un’ampia gamma di risorse, sia naturali (come foreste, oceani e altre risorse rinnovabili) sia costruite dall’uomo (come sistemi di irrigazione, reti elettriche, spettro elettromagnetico, Internet, ecc.), potenzialmente utilizzabili da tutti i membri di una comunità, debbano essere necessariamente sottoposte a regolazione: o da parte del mercato, attraverso la definizione di precisi diritti di proprietà che proteggano l’uso esclusivo delle risorse da parte di chi le acquista, o dallo Stato, attraverso l’emanazione di leggi che ne limitino le possibilità di utilizzazione individuale e collettiva. Se infatti tutti potessero usare liberamente (ossia senza alcuna forma di regolazione) queste risorse, si sostiene, allora esse, prima o dopo, si esaurirebbero oppure verrebbero pesantemente danneggiate, con effetti futuri negativi per l’intera comunità. E’ il cosiddetto problema della tragedia dei beni comuni (tragedy of commons)[1] che configura, per questo tipo di risorse, un conflitto, de facto insanabile, tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo. Nel seguito di questo scritto mostreremo come, in realtà, questo conflitto possa essere razionalmente evitato.

2. Il bene comune come un ibrido e l’apparente ‘soluzione’ di Elinor Ostrom

Da un punto di vista economico, come noto, un bene comune (ad esempio un lago) è un bene particolare, un ibrido tra un bene privato e un bene pubblico: al pari di un bene privato è a consumo “rivale” (se io pesco nel lago, tu avrai meno pesce a disposizione), come un bene pubblico è a consumo “non escludibile” (tutti possono pescare nel lago). Se si decidesse di affidare la gestione del lago alle leggi di mercato, qualcuno comprerebbe il laghetto e venderebbe i diritti di pesca ai membri della comunità disposti ad acquistarli. Se, al contrario, la gestione fosse affidata allo Stato, esso stabilirebbe leggi, controlli e sanzioni, per regolare e limitare le modalità di accesso al lago. Ad ogni modo, l’evidenza storica relativa alla gestione di risorse comuni ha mostrato come entrambi le soluzioni, privatistica o statalista, quando non totalmente inadeguate, presentino gravi limiti nell’evitare ‘la tragedia’. (si veda ad esempio Stavins 2011)*. Fortunatamente, l’imponente lavoro sperimentale su diverse comunità locali dell’Asia e del Sud America realizzato da Elinor Ostrom (1933-2012), premio Nobel per l’economia nel 2009, ha permesso di evidenziare che, per la gestione dei beni comuni, non ci sono solo Stato e mercato; c’è anche l’auto-organizzazione degli utilizzatori: la comunità locale si dà proprie regole (non necessariamente formalizzate) e stabilisce sanzioni per limitare il consumo della risorsa (ad esempio la comunità locale dei pescatori fissa regole per limitare il tempo di pesca nel lago e/o la quantità di pesce pescabile). In questo modo ‘il sacrificio’ individuale condiviso (ciascuno pesca meno pesce di quanto vorrebbe fare) permetterebbe la conservazione della risorsa nel tempo (la consistenza della fauna ittica del lago) in funzione del benessere della collettività nel lungo periodo[2]. In generale la Ostrom (1990) ha identificato 8 regole per la governance dei beni comuni. Più che di regole, si tratta di ‘costanti’ rilevate dallo studio di casi concreti. Secondo la Ostrom, infatti, non esistono modelli applicabili universalmente ma è necessaria l’elaborazione endogena di regole e istituzioni per la loro applicazione. In sintesi le regole sono: 1. Identificazione chiara dei confini della risorsa e assunzione di criteri trasparenti per l’ingresso degli utilizzatori. 2. Proporzionalità  fra costi e benefici. 3. Partecipazione alle decisioni sulle regole da adottare. 4. Monitoraggio continuo delle condizioni biofisiche della risorsa e del comportamento dei fruitori 5. Repressione delle infrazioni con sanzioni graduali. 6. Effettivita  dei meccanismi di risoluzione dei conflitti fra gli attori coinvolti. 7. Diritto (costituzionalmente garantito) degli usuari di organizzarsi e organizzare. 8. Istituzioni a piu  livelli per la governance della risorsa.

In base alla visione della Ostrom, supportata come detto da molteplici studi empirici condotti a livello locale, gli individui di una comunità possono evitare la tragedia dei commons rinunciando alla massimizzazione del bene individuale in funzione della conservazione per tutti dei benefici della risorsa nel lungo periodo. Questo può essere garantito, dagli stessi membri della comunità, attraverso la creazione di istituzioni capaci di prevedere sanzioni e punizioni per il rispetto dei protocolli di gestione del bene comune. La dimensione circoscritta delle comunità osservate dalla Ostrom era tale da rendere più improbabili le violazioni, non solo perchè non è facile nascondersi ma anche per il senso di vergogna e colpa che un potenziale trasgressore proverebbe per aver tradito la fiducia di parenti e amici (vedi Rifkin 2013 p. 221).

Sebbene la relazione tra ampiezza dei gruppi e azione collettiva appaia quantomeno controversa (vedi ad esempio Olson 1965, Aggrawal e Goyal 2001, Block 2011), una serie di osservazioni empiriche relative alla gestione comune di sistemi di irrigazione su piccola e grande scala, rispettivamente in Nepal e Thailandia, hanno evidenziato chiaramente come al crescere dell’estensione dell’esperimento cresca considerevolmente la difficoltà di monitoraggio dei comportamenti individuali (si veda sul punto Gari et al. 2017). La problematica diventa ancora più significativa, poi, con riferimento a risorse di importanza vitale che possono essere fruite, piuttosto che in un regime di gestione proprietaria comune, in un regime di ‘open access’, come nel caso degli oceani, delle grandi falde acquifere (come per esempio la Ogalalla Aquifer, una delle falde acquifere più grandi del mondo), o anche dell’aria, dove l’escludibilità dal consumo è di fatto impossibile e dove sono più che giustificate le preoccupazioni sulla degradazione o la totale estinzione delle risorse stesse (vedi Stavins 2011).

In sintesi, nonostante il modello di gestione proposto dalla Ostrom sia, a parere di chi scrive, ben più auspicabile del modello statale o di quello privatistico, proprio il contesto limitato dell’analisi (il villaggio, la comunità locale, ecc.) rende l’approccio non estendibile su scale più ampie, dove le possibilità di monitoraggio, di controllo e di sanzione sono decisamente più ridotte quando non del tutto assenti. In sostanza è difficile credere che senso di colpa, perdita della reputazione o paura della punizione possano costituire una base solida per guidare la transizione verso un sistema di gestione realmente alternativo a Stato e mercato. Senza una diffusa consapevolezza del beneficio individuale che potrebbe derivare dall’uso coordinato e compatibile di risorse di utilità collettiva, sembra difficile concepire la costruzione di un ecosistema auto-organizzato, in grado di favorire ‘felici risoluzione dei conflitti’ sui beni comuni. Anche così, ad ogni modo, riuscire ad apprendere e affermare logiche cooperative all’interno di contesti spesso fatti oggetto dell’interesse di grossi gruppi privati e multinazionali, capaci anche di condizionare pesantemente l’azione dei governi, è tutt’altro che semplice. A tale affermazione non contribuisce certo il prevalere di una cultura economica e politica tuttora dominata dall’idea dell’inevitabile scarsità delle risorse e della conseguente necessità del ‘conflitto’ per la loro appropriazione.

3. Ripensare i principi cognitivi della tragedia dei beni comuni

Esiste comunque a mio parere un importante limite che è al cuore di tutta la riflessione sulla tematica dei beni comuni, compreso, sebbene in modo più implicito, l’approccio proposto dalla Ostrom. Esso riguarda proprio la presunta inevitabile contrapposizione tra interesse individuale e interesse collettivo. In base a tale contrapposizione individui razionali (che vogliono cioè massimizzare la propria utilità) si trovano sempre di fronte a una condizione fatale di scarsità di risorse, dal momento che si presume che essi manifestino bisogni potenzialmente illimitati (assioma della non sazietà, per cui l’utilità cresce positivamente, sebbene in modo decrescente, al crescere del consumo di un bene) che eccedono le risorse disponibili[3]. Come noto, da un punto di vista formale, la tragedia dei common è un corollario del cosiddetto dilemma del prigioniero ripetuto, generalizzata a molti giocatori (vedi Dawes 1973), in cui la soluzione di equilibrio del gioco (detta equilibrio di Nash) si ottiene appunto quando i giocatori decidono di non cooperare[4]. Non cooperare è, in altri termini, il comportamento razionale per i partecipanti al gioco, ossia quello che massimizza la loro utilità individuale. A lungo andare (ossia ripetendo più volte il gioco) la decisione di tutti i giocatori di usare un common in modo non cooperativo darebbe luogo alla progressiva distruzione della risorsa nel tempo, e quindi a pay-off materiali (ossia esprimibili in termini quantitativi) nulli per tutti[5]. Nel corso degli anni, la presunta ’irrazionalità’ della soluzione cooperativa del gioco è stata seriamente messa in dubbio attraverso l’approfondimento del meccanismo cognitivo sottostante al comportamento strategico umano. In particolare, soprattutto sulla scia degli studi della Ostrom di cui abbiamo fatto cenno in precedenza, si è ammesso che gli individui possano manifestare qualche genere di preferenze sociali che li porterebbero ad affrontare il gioco in maniera diversa da quella di giocatori con preferenze auto interessate. In questo caso, infatti, i giocatori considererebbero i pay-off materiali solo come una parte dei loro pay-off globali, essendo questi ultimi potenzialmente comprensivi anche di pay-off immateriali quali ad esempio altruismo o reciprocità dei comportamenti. Potrà allora benissimo darsi la possibilità che la cooperazione venga identificata da tutti i giocatori come la strategia ottimale. Si pone allora il problema di stabilire quale, tra i molti equilibri possibili del gioco, ne rappresenti la soluzione ottimale. Sfortunatamente gli studi in materia non permettono di giungere a una conclusione univoca ma consentono di riconoscere la possibilità, sotto certe condizioni (ad esempio all’interno di contesti numericamente limitati come ci mostra la Ostrom), di una soluzione del gioco che renda possibile ricomporre la dicotomia tra interesse individuale e interesse collettivo. Resta però una domanda ineludibile: come può un individuo giungere a un’autolimitazione del proprio comportamento individuale – garantendo la conservazione nel tempo della risorsa – se la sua permanenza in (o la qualità della sua) vita dipende proprio dal consumo della risorsa stessa (e quindi dal livello dei pay-off materiali)? Secondo me questa domanda ha due risposte: a) il riconoscimento che il rapporto tra bisogno individuale e disponibilità della risorsa può variare lungo l’arco temporale (ad esempio durante il giorno) in cui si utilizza/consuma un common; b) l’introduzione di feedback alle decisioni/azioni individuali e collettive. Vediamo il primo punto. Consideriamo il caso di un common teoricamente non esauribile come, ad esempio, lo spettro elettromagnetico, la rete Internet, la rete stradale, l’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, la cui capacità potenziale non si ‘decumula’ in seguito all’uso e quindi rimane costante lungo un dato arco temporale (fatta salva, ovviamente, le sue necessità di manutenzione e riparazione). Rispetto ad esso si può osservare che

  1. data la tecnologia, il consumo individuale di un common in un dato arco temporale (ora, giorno, ecc.) non può superare certi limiti, per quanto egoista l’individuo possa essere (ad esempio il tempo di utilizzazione attiva di Internet per mezzo di un qualunque device)[6].
  2. Il massimo consumo individuale possibile del common richiede un tempo definito, per esempio 2 ore di un dato giorno, ma per un individuo può essere indifferente quali siano queste ore, sempre che rimanga preservato in quel periodo la stessa possibilità di accesso al common e lo stesso livello di consumo dal punto di vista quantitativo e qualitativo.

Quindi le preferenze temporali degli individui possono essere, nell’arco temporale di riferimento, eterogenee[7], in relazione al profilo di disponibilità/uso della risorsa: almeno teoricamente, quindi, alcuni (altri) potrebbero anticipare (posporre) l’uso della risorsa rispetto ai ‘carichi di punta’, svolgendo dopo (prima) le altre attività non sostituibili, senza che questa redistribuzione alteri in qualche misura l’utilità di qualcuno. Vista in questo modo la tragedia dei commons diventerebbe un problema di coordinamento dei tempi d’uso più che un problema di appropriazione egoistica di risorse limitate. Questo appare evidente, per fare un caso, in relazione alla gestione di problemi di congestione energetica, particolarmente rilevanti nelle ore di picco, non solo nelle comunità ad alta densità di popolazione ma anche nei villaggi di piccole comunità. In diversi paesi in via di sviluppo congestioni o abbassamenti di tensione sulle mini reti sono spesso collegati all’uso contemporaneo di apparecchi di cottura elettrici, per cucinare riso e per alimentare caldaie ad acqua. Si è osservato che la cottura del riso richiede dai 600 ai 1.000 watt, ma meno di 100 watt per tenerlo al caldo. Pertanto il riso che viene cucinato a metà giornata può essere tenuto in caldo fino al pasto serale, senza richiedere elevati livelli di consumo elettrico durante i periodi di punta. In Bhutan , ad esempio, un simile problema è stato circoscritto in modo efficace con lo sviluppo di semplici dispositivi che utilizzano la tecnologia delle reti intelligenti (ad esempio i dispositivi che utilizzano luci LED, rosso e verde, per indicare all’utente lo stato del sovraccarico e per impedirgli di utilizzare grandi elettrodomestici durante abbassamenti di tensione) sono in grado di favorire lo spostamento dei carichi elettrici durante il giorno, aumentando la qualità di energia elettrica fornita senza un aumento della capacità produttiva del sistema (si veda EPA 2011)[8]. Gli individui potrebbero evitare (o almeno limitare significativamente) il problema della scarsità autonomamente, cooperando per utilizzare il common anche al di fuori dei tempi di probabile congestione, ossia quando i benefici potenziali della risorsa non sono utilizzati in modo intensivo. Questo permetterebbe loro di massimizzare tanto il benessere individuale quanto quello collettivo. Benefici addizionali, poi, potrebbero derivare dall’uso integrato di risorse diverse capaci di fornire solo benefici intermittenti durante un dato arco temporale (è il caso ad esempio di risorse come il sole o il vento, che generano benefici non uniformi durante la giornata o la stagione), lungo il quale potrebbero utilizzate in modo complementare[9].

Veniamo ora al secondo punto che riguarda la possibile utilità nella gestione di un common esauribile, ossia che si deteriora inevitabilmente con un uso intenso (come le risorse naturali utilizzate a ritmi superiori alla loro capacità di ricostituzione nel tempo), di adeguati feedback al comportamento individuale che possano favorire autolimitazioni funzionali dei consumi individuali e collettivi (vedi sopra esempio del Bhutan). La mancanza di feedback adeguati è lampante, ad esempio, di un tipico caso di tragedia dei commons: quello della pesca eccessiva (overfishing) in acque internazionali, causata dall’impiego crescente di modernissimi bastimenti di dimensioni enormi, in luogo di piccole imbarcazioni da pesca. Tali bastimenti sono infatti in grado di raccogliere quantità di pesce che mettono in serio pericolo la sostenibilità biologica di mari e oceani, come anche le economie di piccole comunità basate sulla pesca. “Overfishing occurs because there is no feedback from the state of the fish population to the decision to invest in fishing vessels. (Contrary to economic opinion, the price of fish does not provide that feedback. As the fish get more scarce and hence more expensive, it becomes all the more profitable to go out and catch them.)” (see Meadows 1999, section 6). Inoltre, nei programmi di sostegno alla pesca di molti Paesi, c’è la tendenza a considerare primariamente i pescatori a tempo pieno come i legittimi stakeholders, escludendo così i pescatori part-time, tra l’altro dotati di tecnologie meno invasive, dal godimento dei benefici. (si veda FAO 2012). Questo è un feedback perverso che conduce facilmente al collasso.

In conclusione, in presenza di immediate e condivise informazioni sulla capacità potenziale di un common lungo un dato arco temporale, come anche di feedback adeguati ai comportamenti individuali, significativi fenomeni di antirivalità ed inclusione potrebbero avere luogo. In questi casi non si vede perché la tragedia non possa essere evitata. Chi potrebbe fornire, però, a una comunità le informazioni e i feedback necessari? Chi potrebbe proteggere la stessa comunità dall’asimmetria di potere esistente tra individui e gruppi che operano al suo interno. A queste domande proveremo a rispondere in un articolo successivo.

 

Andrea Pannone è ricercatore senior della Fondazione Ugo Bordoni.

Le idee esposte nell’articolo sono di esclusiva responsabilità dell’autore e non corrispondono necessariamente a quelle dell’Ente di appartenenza

 

*Si può comunque osservare che lo stesso carattere rivale o non rivale, escludibile o non escludibile di numerosi beni potrebbe cambiare con l’evoluzione tecnologica delle forme della loro produzione. Ad esempio, la digitalizzazione di libri, musica e film libera la diffusione di beni culturali dal loro supporto fisico, facendoli teoricamente passare dallo status di beni privati ​​(rivali ed escludibili) a lo stato dei beni collettivi (non rivali e difficilmente escludibili). Si veda Vercellone et al. 2015).

 

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[1] Il termine di tragedia è stata introdotto da Garrett James Hardin in un suo famoso articolo del 1968 dall’omonimo titolo, pubblicato su Science n° 16.

[2] Nel caso di risorse, la cui disponibilità non si deteriora immediatamente con l’eccesso d’uso, come Internet o come reti di trasporto e di distribuzione elettrica, o non si deteriora affatto come lo spettro elettromagnetico, la tragedia si verifica quando l’uso della rete in un dato momento del giorno eccede la sua capacità di soddisfare i servizi richiesti, dando luogo al cosiddetto fenomeno della congestione . In questi casi il servizio richiesto dagli utenti si interrompe o si deteriora in modo significativo.

[3] Come noto la teoria mainstream del comportamento economico individuale (vedi tra gli altri Menger 1871, Bohm Bawerk 1922, Ramsey 1928, Samuleson 1937) è fondata su due assunti: a) il principio dell’utilità marginale decrescente e b) l’esistenza di preferenze temporali positive. il principio a), come noto, implica che l’utilità dell’individuo cresce positivamente ma in modo decrescente al crescere del consumo di un bene (in termini matematici questo vuol dire che la funzione di utilità istantanea è concava); quindi tale principio motiva l’individuo a distribuire il consumo di un bene nel tempo; il principio b) motiva l’individuo a concentrare il consumo al tempo presente, ossia si ritiene che sia meglio soddisfare i propri bisogni ora piuttosto in un periodo di tempo più distante (vedi Frederick et al., 2002). E’ dunque un giudizio di valore alla base dell’ipotesi di preferenze temporali positive per tutti gli individui. Tale giudizio si basa sulla convinzione/paura che, essendo i beni scarsi, nel futuro potrebbero non esserci sufficienti beni per soddisfare i miei bisogni, in quanto gli altri li consumerebbero sicuramente prima di me. Quindi, un individuo accetterà di posporre il proprio consumo nel futuro, ossia di risparmiare la propria moneta/reddito nel presente, solo qualora questa rinuncia venga compensata con un premio (tasso di interesse positivo).

[4] La versione originale di questo gioco narra come noto il seguente dilemma: due ladri sono stati presi con la refurtiva ma non sono stati colti nel momento del furto e vengono quindi interrogati dalla polizia in stanze separate. A ciascuno viene detto che il suo compagno sta confessando e che, se confesserà anche lui, ad entrambi verrà concessa una riduzione della pena. Se invece sarà solo una persona a confessare, solo a quest’ultima spetterà una riduzione della pena, mentre l’altro sconterà un numero maggiore di anni di carcere. Ovviamente se nessuno dei due ladri confesserà, entrambi saranno lasciati liberi. Il rischio di non confessare è alto, ma nonostante ciò permetterebbe di ottenere il payoff più elevato per entrambi (la libertà).

[5] Quando un gioco è ripetuto, la definizione di una strategia diventa un problema molto più complesso: occorre decidere, all’inizio del gioco, cosa si far ad ogni data futura. Anche se le strategie a disposizione nel gioco singolo sono appena due (cooperare, non cooperare), il numero di strategie a disposizione è enorme e l’informazione incompleta. L’incompletezza non riguarda i payoff ma la risposta dei decisori.

[6] L’idea è che il tempo sia il principale determinante dell’uso di una risorsa comune. Questa idea è stata verificata sperimentalmente in alcuni studi empirici sui commons (si vedano Cardenas et al. 2000, Cardenas 2003, Cardenas e Ostrom 2004,). Quindi, l’utilità derivante dall’uso di un common dipende, data la tecnologia di raccolta, dal tempo dedicato a raccogliere i benefici che esso può offrire. Il punto è che questo tempo non è illimitato. Esso infatti collide con il tempo complessivo a disposizione di un individuo nell’ambito della propria giornata (24 ore) o della propria vita. Inoltre, questo tempo deve essere allocato anche allo svolgimento di altre attività non sostituibili (ad esempio al lavoro e al tempo libero). La non-sostituibilità delle attività dipende dalla non-riducibilità e non-intercambiabilità dei bisogni umani (si veda Georgescu-Roegen 1973). “He who does not have enough to eat cannot satisfy his hunger by wearing more shirts” (Georgescu-Roegen 1973, p. 457).

[7] Un consistente corpo di letteratura ha esaminato i fondamenti biologici e psicologici delle preferenze temporali negli esseri umani (Borghans et al., 2008; Frederick et al., 2002). Sebbene ci sia forte evidenza di tassi di sostituzione positiva tra presente e futuro, cioè che sia preferibile per un individuo consumare prima che dopo, è abbastanza ragionevole pensare che individui diversi possano esprimere preferenze temporali eterogenee, ossia che possano ritenere conveniente consumare un bene/risorsa in momenti diversi del tempo.

[8] L’uso di sensori più sofisticati può essere esteso anche in reti elettriche più complesse e ampie. S)ensori segnalano istante per istante le fluttuazioni nel consumo di elettricità da parte degli apparecchi di imprese e famiglie e il loro impatto sul prezzo dell’energia elettrica nelle rete di distribuzione. Gli utenti, poi, possono programmare i loro apparecchi in modo che consumino meno energia o che si disattivino durante le fasce di picco dei consumi, scongiurando così eccessivi rincari energetici o cali di tensione sulla rete e accumulando credito per le bollette successive” (Rifkin 2014, p.19) .

[9] In California ad esempio, un’area degli Stati Uniti in cui la domanda di energia elettrica è molto alta, si integrano tecnologie differenti per sfruttare le intermittenze complementari di energia eolica e solare in sinergia con la flessibilità delle fonti idroelettriche. Questo consente di avere a disposizione un vero e proprio portafoglio di fonti energetiche rinnovabili per ridurre la variabilità della potenza erogata e per soddisfare una porzione significativa della domanda di energia elettrica dello Stato (si veda Hoste et al. 2009).

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