Banche italiane: che sofferenze!

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Non-performing loans (npl) and distressed loans are a hot issue of the Italian banking system. The Governor of the Italian Central Bank recently showed optimism about the recovery rate of these loans, based on two recent empirical studies. In this paper, a rigorous measurement of recovery rate is discussed, highlighting some flaws of the cited studies. Therefore, assuming the large dispersion among Italian banks in terms of credit quality, profitability and npl incidence on tangible equity, a cluster analysis is conducted on a sample of 450 banks in 2015, identifying six different clusters, in a continuum from “peaches” to “lemons” à la Akerlof. The emerging map does not appear so reassuring.

Premessa

Nonostante la questione dei crediti deteriorati (i famigerati non-performing loans, d’ora in poi npl) delle banche italiane sia una preoccupazione giornaliera sia dei risparmiatori che di esperti/commentatori del settore ormai da qualche anno, le parole del governatore della Banca d’Italia in occasione della Relazione annuale per il 2016 sono apparse di moderato ottimismo.

Pur fotografando una situazione allarmante [“…tra il 2007 e il 2015 l’incidenza sugli impieghi bancari dei crediti in sofferenza – le esposizioni, cioè, nei confronti di debitori insolventi – è più che triplicata…”; “…le difficoltà degli intermediari sono state acuite, in diversi casi, da comportamenti fraudolenti e scelte imprudenti nell’erogazione dei prestiti…[1]], il governatore ha evidenziato alcuni fattori tranquillizzanti:

  • il livello raggiunto è comunque inferiore al picco della metà degli anni Novanta;
  • l’ammontare da considerare è quello al netto delle perdite già accantonate (173 miliardi a fine 2016) e non al lordo (350 miliardi), pari al 9,4 % dei crediti complessivi;
  • gli 81 miliardi di sofferenze nette hanno a fronte garanzie reali per oltre 90 miliardi e personali per quasi 40;
  • i rimanenti 92 miliardi di esposizioni deteriorate sono già stati svalutati per un terzo del valore nominale; per una parte di queste il ritorno alla regolarità dei pagamenti sembrerebbe certamente possibile;
  • tre quarti delle sofferenze nette sono detenuti da banche le cui condizioni finanziarie non impongono di cederle immediatamente sul mercato;
  • sono 20 miliardi le sofferenze in carico a intermediari che stanno attraversando situazioni di difficoltà e possono quindi trovarsi nella necessità di disfarsene rapidamente. E tuttavia i valori ai quali i crediti in sofferenza sono iscritti nei bilanci sono in linea con i tassi di recupero effettivamente osservati negli ultimi dieci anni: in media a fine 2016 il 62,4% il tasso di copertura delle sofferenze e il 50,6% quello degli npl nel complesso.

A parere del governatore va evitata la cessione a ritmi forzati delle sofferenze, come invece sembrano richiedere le autorità di vigilanza europee; i pochi grandi operatori specializzati oggi presenti sul mercato ricercano tassi di profitto molto elevati: se si seguisse questa via, l’ammontare di rettifiche aggiuntive sarebbe dell’ordine di 10 miliardi. Rimpiange, il governatore, la costituzione di una bad bank con supporto pubblico per la gestione degli attivi bancari deteriorati, ipotesi che è stata impedita dagli orientamenti in materia di aiuti di stato assunti dalla Commissione Europea a metà del 2013. In mancanza, suggerisce il governatore, la via maestra da seguire è dotarsi di strategie per migliorare la gestione di tali attivi e di piani operativi contenenti obiettivi ambiziosi, volti a diminuirne l’ammontare in modo progressivo e consistente, costituendo unità di gestione separate e specializzate che consentano un recupero in house, certamente più vantaggioso che non la cessione a prezzi stracciati a pochi operatori specializzati.

Vanno fatte alcune puntualizzazioni sull’analisi che precede. La considerazione che l’attuale copertura media delle sofferenze sia in linea con i tassi di recupero è basata su due elementi che richiedono un maggiore approfondimento.

In primis, ragionare in termini di copertura media e di tasso di recupero medio sembrerebbe poco appropriato, soprattutto se l’universo delle banche presenta elevata dispersione. Infatti, è la coda peggiore della distribuzione (quanto consistente e quanto in sofferenza) quella su cui dovrebbe concentrarsi l’analisi, se si vogliono valutare i rischi di fallimento di banche e conseguenti shortfall [2] di capitale, con implicazioni a catena per i risparmiatori e per la stabilità del sistema. Se a livello statistico, infatti, la media prevede compensazioni tra situazioni migliori (di  coperture delle sofferenze e di loro tassi di recupero) e situazioni peggiori, non può dirsi altrettanto per i rischi che corrono correntisti/risparmiatori, in prima battuta, e i contribuenti tutti in ultima istanza (con conseguenti effetti a catena sulla stabilità del sistema), come le recenti vicende delle banche fallite, del salvataggio statale del Monte dei Paschi e della cessione delle banche venete sembrerebbero insegnare. In secondo luogo, i tassi medi di recupero cui fa riferimento il governatore (cfr. pagg. 158 e segg. della Relazione annuale) risultano da studi recenti condotti dalla Banca d’Italia, che vanno però letti con molta cautela: quando i tassi di recupero non sono osservati ma sono ricostruiti sulla base dei dati osservabili, le ipotesi adottate sono irragionevolmente ottimistiche; quando osservati, non tengono conto né dei tempi necessari al recupero, né dei costi sostenuti per il recupero interno. Da simulazioni da noi condotte (di cui si dirà a seguire), la rimozione di queste ipotesi e l’attualizzazione dei tassi di recupero sembrerebbero produrre dati molto meno tranquillizzanti.

I tassi di recupero delle sofferenze

Due studi recenti della Banca d’Italia forniscono una misurazione dei tassi di recupero delle sofferenze delle banche italiane.

Il primo (Carpinelli L. et al. 2016) misura i tassi di recupero nel periodo 2011-2014 sui primi 25 gruppi bancari [3], per un totale di 240 mila posizioni corrispondenti a 128 md di prestiti corporate, di cui 95 md liquidati e 33 sottoposti a ristrutturazione. Per quanto riguarda le liquidazioni, il tasso medio di recupero è stato circa del 41% (definito in linea con i valori caricati a bilancio delle sofferenze a dicembre del 2014, che erano pari a circa il 59%). Si tratta però di tasso non attualizzato: i recuperi sono conseguiti quasi integralmente entro cinque anni dall’avvio della liquidazione, con una età media di 3,5 anni, a prescindere dalla durata e dal tipo di procedura giudiziaria (fallimenti, concordati preventivi o posizioni interessate prevalentemente da esecuzioni immobiliari). Ipotizzando un tasso di attualizzazione del 10% (che, considerando una LDG – loss given default [4] – del 59%, in linea con il recovery rate [5] calcolato del 41%, e una probabilità di insolvenza del 10%, in linea con l’incidenza media delle sofferenze lorde sui crediti alla clientela al 2015, significherebbe un tasso di interesse certo per il creditore dell’2% [6]), il tasso di recupero si abbasserebbe al 33% circa. Si tratta, inoltre, di un “tasso medio” di recupero; lo studio evidenzia una marcata dispersione di valori tra i diversi gruppi bancari, che non è però possibile quantificare nel dettaglio, perché viene fornito solo il dato medio per due sub-campioni: il 41,5% dei primi 5 gruppi e il 38,5 dei rimanenti 20.

Va inoltre considerato che il tasso di recupero è calcolato al lordo del costo del recupero: lo studio, nella sezione qualitativa del questionario, rileva costi delle strutture specializzate per la gestione dei crediti deteriorati stimati pari al 2,8% (nel 2014) del totale dei costi operativi: facendo un calcolo molto approssimativo sul dato aggregato di 98 banche a prevalente raccolta a breve (dati Mediobanca, 2016), rappresenterebbe una media (calcolata su un campione più ampio di banche rispetto a quello utilizzato nello studio) di 35 punti base annui del valore delle sofferenze lorde e quindi, approssimativamente, una decurtazione ulteriore del tasso di recupero di almeno 3 punti percentuali (tenendo conto di un periodo medio di recupero di 3,5 anni). Quindi, tenendo conto dell’attualizzazione e dei costi del recupero in house, il tasso di recupero medio scenderebbe dal 41% al 30%, valore non molto distante dai valori riscontrati in recenti cessioni.

Il secondo studio (Ciocchetta et al., 2017) calcola il tasso di recupero sull’universo delle sofferenze chiuse nel periodo 2006-2015 (quasi 2 milioni di posizioni, per un valore lordo di 88 miliardi), utilizzando i dati della Centrale dei Rischi (CR in seguito). Dallo studio emerge:

  1. un tasso di recupero medio del 43%, coerente con i tassi di copertura risultanti dai bilanci delle banche (la copertura media delle sofferenze a dicembre 2015 era pari al 59%, quindi un tasso di recupero atteso del 41%);
  2. i tassi di recupero delle posizioni chiuse mediante cessione sul mercato sono nettamente inferiori a quelli registrati per le posizioni chiuse in via ordinaria (23% contro 47% in media nel periodo considerato). Questo spiegherebbe perchè si è registrato un calo nell’ultimo biennio del tasso di recupero medio (35%), dovuto alla maggiore incidenza del numero/valore delle cessioni al mercato, sollecitate dai controlli della vigilanza europea (23% nel biennio vs 13% nel periodo 2006-2013 in numero e 34% vs 7% in valore);
  3. i tassi di recupero dei crediti assistiti da garanzie reali sono significativamente più elevati rispetto a quelli registrati sulle altre posizioni (55% nella media del periodo contro il 36%). I tassi di recupero delle sofferenze verso le famiglie sono più elevati rispetto a quelli verso le imprese non finanziarie (53% in media nel periodo contro il 40%). I tassi di recupero risultano decrescenti in funzione dell’anzianità delle posizioni chiuse;
  4. notevole è la dispersione tra banche: nel periodo considerato alcune banche mostrano una capacità di recupero sistematicamente superiore o inferiore alla media.

I tassi di recupero misurati nello studio sono medie ponderate agli importi e sono tassi attualizzati, anche se in maniera non standard. Analizzando, tuttavia, la modalità di calcolo (cfr. appendice metodologica dello studio), emerge che i tassi di recupero non sono osservati, ma sono “ricostruiti” partendo dal valore dell’esposizione iniziale e dalla perdita cumulata (sia in conto capitale che in conto interessi, inclusi quelli di mora), unici dati rilevati in CR e assumendo una distribuzione lineare dei recuperi negli anni. Andando nel dettaglio, tuttavia, della metodologia di stima utilizzata per la determinazione dei recuperi, emergono alcune ipotesi che appaiono irragionevoli o comunque non coerenti tra loro. In particolare le seguenti:

  • supporre, da un lato, che l’esposizione negli anni da 0 (entrata in sofferenza) a s (data fino alla quale sono conteggiati gli interessi dalla banca perchè il credito si ritiene ancora esigibile) rimanga invariata (e quindi non ci siano recuperi, che quindi avverranno solo da s+1 a n, data di chiusura della posizione) e poi spalmare, dall’altro, linearmente i recuperi negli n  anni quando se ne calcola il valore attuale;
  • assumere per attualizzare i recuperi un tasso pari al tasso applicato al credito al momento dell’entrata in sofferenza: sembrerebbe una ipotesi irrealistica, trattandosi di rischi associati ben diversi (credito in bonis vs credito in sofferenza); inoltre, il tasso di attualizzazione non dovrebbe essere indipendente dal tasso di recupero, se è appunto un tasso atteso (Cheung, 1999).

In breve, per mostrare la sensibilità dei tassi di recupero stimati nello studio a queste ipotesi, abbiamo svolto alcune simulazioni, rimuovendo alcune di queste ipotesi. In particolare, abbiamo ipotizzato che i recuperi siano distribuiti linearmente da 2 a 5 anni dall’entrata in sofferenza del credito (s=1  è la stima adottata nello studio) e abbiamo ancorato il tasso di attualizzazione al tasso di recupero utilizzando il modello probabilistico di Cheung (1999) nell’ipotesi multi-periodale (usando un calcolo iterativo per risolvere la interdipendenza tra le due variabili) e supponendo un tasso privo di rischio dell’1%, neutralità al rischio del creditore, e una probabilità di insolvenza annua del 10%, che è pari all’incidenza media a fine 2015 delle sofferenze lorde sui crediti alla clientela risultante dal campione di 450 banche (Mediobanca, 2016) utilizzato nell’analisi successiva[7]. Dalle simulazioni otteniamo che un tasso di recupero medio del 43% diventerebbe un tasso del 36% (e il tasso di attualizzazione dei flussi di recupero, a questo tasso, risulterebbe dell’8,5% e non del 4% come ipotizzato nello studio); se ipotizzassimo un tasso certo del 2% richiesto dal creditore, considerando che il creditore è avverso al rischio e che quindi realisticamente richiederà un tasso atteso superiore al tasso risk-free, il tasso di recupero scenderebbe al 34,5% circa (e il tasso di attualizzazione salirebbe al 10%).

E si tratterebbe, comunque, di un tasso di recupero medio (lo studio sottolinea un’elevata dispersione della distribuzione tra banche, ma non fornisce dati in merito) e al lordo dei costi sostenuti per lo svolgimento delle attività di recupero in house, costi che andrebbero adeguatamente stimati e conteggiati nel confrontare la soluzione interna vs la cessione al mercato (e lo studio precedente evidenzia come si tratti di costi affatto trascurabili).

La mappa delle sofferenze delle banche italiane: i bidoni e i campioni

Un’analisi più dettagliata delle differenze tra banche sul versante sofferenze è quanto mai indispensabile, in considerazione della scarsa rilevanza pratica del dato medio.

Abbiamo utilizzato a tal fine la base dati delle 492 banche con attivo pari o superiore a 50 milioni di euro elaborata dall’Area Studi di Mediobanca, con riferimento ai bilanci del 2015 (Mediobanca, 2016; Barbaresco, 2017). L’aggregato rappresenta oltre il 96% del sistema bancario italiano: si tratta quindi di una fotografia molto esauriente della struttura economico-patrimoniale delle banche, della qualità del credito e dei tassi di copertura dei crediti deteriorati e delle sofferenze tra questi.

Dall’insieme originario sono state estratte circa 450 banche (considerando i bilanci di banche singole e non consolidati), a prevalente raccolta a breve termine, escludendo le banche d’affari e quelle che fanno prevalente attività di gestione del risparmio ed alcune banche che presentavano dati anomali (come per esempio le ex CR di Cesena e di Ferrara). Volendo focalizzare l’analisi sulla qualità del credito alla clientela e sui rischi connessi a perdite attese rispetto al patrimonio per l’inesigibilità dei crediti deteriorati, l’utilizzo dei bilanci singoli ha il vantaggio di evitare gli effetti sui conti delle altre attività ricomprese nei bilanci consolidati (per esempio la gestione del risparmio o le attività più propriamente di banca d’affari), così da rendere anche confrontabili banche di gruppi che hanno pesi differenziati di queste attività (per esempio i gruppi maggiori vs le banche di credito cooperativo o le casse rurali e artigiane).

Aggiungiamo che l’analisi che segue (per ragioni di brevità) ignora le garanzie (che pure sono misurate nella base dati, sia come consistenze che come tipologie di garanzia offerte) e che quindi il quadro che verrà descritto in termini di rischi per il sistema necessiterà di aggiustamenti per tenere conto dell’incidenza/qualità delle garanzie presenti a fronte delle posizioni creditorie deteriorate, che presumibilmente differiranno tra banche.

Cinque gli indicatori considerati:

  1. il rapporto tra le sofferenze nette (cioè al netto delle rettifiche di valore per perdite già spesate nel conto economico) e il patrimonio netto tangibile, che misura il rischio che l’eventuale perdita corrispondente al valore di carico in bilancio delle sofferenze dilapidi il capitale proprio (o, meglio, la parte tangibile del patrimonio netto, detratti cioè gli intangibles, che spesso hanno valori di bilancio di stima soggettiva e di realizzo incerto, in particolare gli avviamenti): valori elevati di questo rapporto rappresentano situazioni di rischio elevato; un valore pari all’unità implica che l’azzeramento del valore delle sofferenze nette in bilancio genera una perdita pari al valore del patrimonio netto della banca;
  2. il texas ratio, che misura lo stesso rapporto precedente, ma calcolato con riferimento al totale dei crediti deteriorati e non solo alle sofferenze, che è la porzione meno esigibile dei crediti deteriorati;
  3. l’incidenza delle sofferenze nette sul totale dei crediti netti alla clientela, che è una misura della cattiva qualità del credito concesso alla clientela;
  4. stesso rapporto precedente, ma anche in questo caso con riferimento ai crediti deteriorati netti totali; monitorare non solo l’incidenza delle sofferenze ma anche delle altre categorie di crediti deteriorati (unlikeley to pay e scaduti) è importante, perchè non necessariamente omogena tra le banche è la classificazione nelle tre tipologie delle posizioni creditorie deteriorate (e dietro queste differenze potrebbero annidarsi rischi potenziali, più o meno consapevolmente occultati);
  5. il grado di copertura delle sofferenze, che evidenzia la prudenza nella valorizzazione dei crediti in sofferenza e quindi le presunte perdite su crediti inesigibili già spesate nei precedenti conti economici: ad un maggiore grado di copertura corrisponde, come complemento a 100, il valore di carico delle sofferenze in bilancio, rispetto al valore nominale delle posizioni creditorie.

La tabella 1 riporta per i cinque indicatori (a cui abbiamo aggiunto il ROE – return on equity –, cioè la redditività dei mezzi proprie: si veda oltre) le principali statistiche descrittive.

 

Tabella 1 – I crediti deteriorati delle banche italiane (statistiche descrittive)

sofferenze banche

Riassumiamo qui gli aspetti più evidenti:

  1. a fronte di una incidenza media delle sofferenze nette sui crediti alla clientela del 5% circa, un quarto del campione presenta valori superiori al 7% e un decimo superiore al 10%: per quanto riguarda gli npl, l’incidenza media è del 12% dei crediti concessi, ma supera un quinto nel decile peggiore;
  2. se il grado di copertura delle sofferenze è in media il 56% a fine 2015, un quarto delle banche del campione (cioè 110 intermediari circa) hanno una copertura inferiore al 50% e il 5% ad un  terzo;
  3. se per metà delle banche del campione le sofferenze nette rappresentano meno del 30% del patrimonio netto tangibile, per un quarto l’incidenza è maggiore del 50% e per un decimo dell’80%;
  4. il texas ratio presenta una mediana del 70% circa, ma il 30% delle banche del campione hanno valori superiori all’unità (cioè i crediti deteriorati netti assorbono interamente il patrimonio netto) e la coda estrema del 7% delle banche (cioè 30 banche) hanno npl netti pari a oltre il doppio dei mezzi propri.

Con l’obiettivo di offrire una mappa a dicembre 2015 delle banche italiane, abbiamo quindi raggruppato in gruppi omogenei il campione di banche analizzato, utilizzando la cluster analysis e individuando sei gruppi di banche, sulla base degli indicatori sopra presentati, con l’aggiunta del ROE: è evidente,  infatti, che il peso delle sofferenze e quindi i rischi di perdita connessi al loro mancato recupero vanno valutati anche alla luce della capacità della banca di produrre utili che compensino le perdite.

Abbiamo rilevato sei profili di banche (la tabella 2 ne riassume i tratti distintivi), che differiscono tra loro in modo statisticamente significativo (sia per il test del chi quadro che per il test della mediana [8]) per gli indicatori citati, così sintetizzabili:

  1. le banche virtuose (in totale 128 e 99 istituti bancari, rispettivamente nei gruppi 2 e 3, che potremmo definire rispettivamente le solide realtà e i campioni). Si tratta di banche con redditività medio-alta, adeguatamente patrimonializzate rispetto al valore di carico di sofferenze e npl, attente nella qualità del credito concesso (sofferenze e npl pesano meno del valore mediano sui crediti netti alla clientela), prudenti nello svalutare i crediti inesigibili (hanno tassi di copertura delle sofferenze superiori alla media). Rientrano in questo gruppo sia banche rilevanti (Intesa, Unicredit, Credem, Banca di Desio, nel gruppo 2; Ubi Banca, Deutsche Bank, Fineco, nel gruppo 3), sia anche banche di credito cooperativo (bcc), casse rurali e artigiane e casse Raiffeisen del Trentino Alto Adige. Va detto, in particolare, che nei due gruppi è maggiore (rispetto al campione complessivo) l’incidenza del credito cooperativo e minore quella delle banche popolari e delle spa (cfr. tabella 3); si tratta di un numero consistente di banche, pari alla metà del campione in numero e al 37% delle sofferenze nette (e questi appaiono dati rassicuranti);
  2. le banche a rischio, suddivise in tre clusters (1, 4 e 6, rispettivamente di 63, 32 e 21 banche) che rappresentano in numero un quarto del campione di banche considerato e hanno nei bilanci 33 md circa di sofferenze nette nel 2015, pari al 48% delle sofferenze nette del campione (e questo dato è molto meno rassicurante). Sono banche che, con gradi diversi, presentano un rischio elevato: peso delle sofferenze e degli npl superiore alla media (rispettivamente dal 7 al 10% le sofferenze nette e dal 17% al 20% gli npl netti, sul totale dei crediti netti alla clientela), copertura delle sofferenze inferiore alla media del campione, redditività netta negativa, texas ratio superiore al 100% (dal 130% circa del gruppo 1 al 250% del gruppo 6) e incidenza delle sofferenze nette sul patrimonio netto tangibile preoccupante (dal 55% del gruppo 1 a oltre il 100% del gruppo 6). Potremmo considerare a rischio medio-alto le banche del gruppo 1, a rischio elevato quelle del gruppo 4 (hanno un peso maggiore sui crediti delle sofferenze nette, superiore al 10%, ma qualche punto percentuale in più di copertura rispetto agli altri due gruppi) e a rischio estremo (i lemons di Akerlof, 1970) quelle del gruppo 6 (ROE negativo a due cifre, texas ratio pari al 250%, le sofferenze nette pareggiano il patrimonio netto tangibile in media e concessione allegra del credito: le sofferenze sono il 9% e gli npl il 21% dei crediti alla clientela). Va sottolineato che, nei tre gruppi, l’incidenza media delle spa e delle popolari è maggiore della media del campione, mentre molto minore è il peso delle banche di credito cooperativo (2/3 del peso rilevato sul campione totale). Rientrano in questa categoria banche grandi e medio-grandi (9 md è l’attivo medio dei gruppi 4 e 6, circa 4 md del gruppo 1), tra cui: Bnl, Banco di Napoli, Creval e Carige nel gruppo 1, MPS, Popolare Vicenza, Veneto Banca, Nuova Popolare di Chieti e Popolare di Spoleto nel gruppo 4, Banco Popolare, Nuova Banca delle Marche, le ex CR di Firenze, Rimini e San Miniato, Nuova Banca dell’Etruria, nel gruppo 6;
  3. il gruppo 5, che potremmo definire “in medio stat virtus”, composto da 105 banche, cioè un quinto del campione (tra cui Banca Popolare di Milano, Popolare di Sondrio, Popolare dell’Emilia Romagna, Popolare di Bergamo, Banca Sella), che detengono il residuo 15% delle sofferenze nette totali, che hanno un profilo simile a quello medio del campione complessivo: gli indicatori analizzati hanno valori più o meno in linea con le medie del campione totale di 450 banche. Va notato che in questa categoria sia le popolari che le banche di credito cooperativo hanno un peso relativo superiore a quello che queste due categorie hanno nel campione totale (a discapito di una minore presenza di spa e ex casse di risparmio). In media sono banche con attivo netto inferiore alla media (3,2 md in media di attivo netto, contro 5 md del campione totale), ma sopra la mediana.

Da quanto precede emerge la varietà dei profili delle banche analizzate, che rende quindi insufficiente oltreché inadeguata un’analisi che si limiti al dato medio. La maggiore dimensione non garantisce minori rischi e migliori performance sul versante crediti deteriorati e sofferenze: banche di varie dimensioni sono presenti in tutti i gruppi della distribuzione. Semmai sono le banche più piccole a mostrare profili più virtuosi sul versante npl/sofferenze: maggiore è il peso nei gruppi virtuosi e nel gruppo medio, rispetto al campione totale, delle banche di credito cooperativo, per definizione di dimensione ridotta; inoltre nel campione è presente una seppure limitata correlazione positiva (coefficiente di Pearson del 20%) statisticamente significativa (al 99%), tra dimensione (attivo totale) e incidenza di sofferenze e npl sul patrimonio netto tangibile.

 

Tabella 2 – Clusters di banche italiane per npl e sofferenze

sofferenze banche 

Tabella 3 – Le categorie di banche nei clusters

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Un’ultima osservazione riguarda la localizzazione geografica delle banche (riferita alla sede legale della società): non è rilevabile un’associazione statisticamente significativa [9] tra area geografica di localizzazione e profili di performance/ rischio individuati (cfr. tabella 4); tuttavia, si può osservare una qualche debole associazione (coefficiente di contingenza pari a 0,314) tra localizzazione e clusters: le banche del centro-sud-isole hanno una maggiore incidenza nei due segmenti virtuosi (35%) e una minore incidenza nei tre segmenti rischiosi (25%), rispetto al campione totale (30%); di contro, le banche del Centro-NEC (Toscana, Marche e Umbria) sono relativamente meno presenti nei segmenti virtuosi e più presenti nei segmenti peggiori.

Preliminari conclusioni

In breve, dall’analisi condotta emerge che il sistema bancario italiano, sul versante npl, sofferenze e rischi di shortfall di capitale è molto variegato e quindi appare insufficiente oltreché inappropriato limitarsi a ragionare sul dato medio.

Dalla cluster analysis condotta su un campione di circa 450 banche singole a fine 2015 è possibile individuare sei gruppi distinti di banche, significativamente diversi tra loro in termini di qualità del credito, copertura delle sofferenze, rischi per il patrimonio derivanti dal loro smaltimento, redditività. I tre gruppi della coda peggiore della distribuzione avevano nei bilanci a fine 2015 ben 33 md di sofferenze nette, pari a circa la metà delle sofferenze nette del campione totale analizzato, mentre il 37% delle sofferenze nette totali era in carico ai due clusters di banche virtuose.

 

Tabella 4 – Clusters e aree geografiche

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Emerge, a livello generale, che né la maggiore dimensione, né un particolare modello di proprietà/governance delle banche garantisce una migliore qualità del credito. Anzi, volendo individuare qualche associazione (debolmente significativa) tra i diversi aspetti citati, sono le banche minori e di credito cooperativo a mostrare una maggiore presenza relativa nei clusters virtuosi e una minore presenza nei clusters rischiosi (solo un quinto), dove invece sono le banche più grandi, spa e popolari, a essere maggiormente presenti. Il modello di banca spa sembra accentuare la polarizzazione ai due profili estremi (cfr. tabella 3), mentre il modello di banca popolare consente una sorta di equi-distribuzione delle banche tra i tre macro-clusters, a riprova che non è un modello “sbagliato” in sé (come ha ritenuto la riforma del 2015 che ne ha obbligato la trasformazione in spa delle maggiori), ma assolutamente compatibile con profili di rischio/performance i più variegati, almeno sul versante npl/sofferenze.

 

*Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento di Economia

daniela.venanzi@uniroma3.it

**Si ringrazia l’Area Studi di Mediobanca per la fornitura del dataset sui cui sono state effettuate le analisi empiriche.

 

 

Riferimenti bibliografici

Akerlof G. A., 1970, “The Market for ‘Lemons’: Quality Uncertainty and the Market Mechanism”, Quarterly Journal of Economics, 84 (3), pp. 488–500

Banca d’Italia, 2017, Relazione annuale 2016

Barbaresco G., 2017, Focus sul sistema bancario italiano – Presentazione Palazzo Giustiniani, www.mbres.it

Carpinelli L., Cascarino G., Giacomelli S., Vacca V., 2016, “La gestione dei crediti deteriorati: un’indagine presso le maggiori banche italiane, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, n.311

Cheung J., 1999, “A Probability Based Approach to Estimating Cost of Capital for Small Business”,  Small Business Economics, 12, pp. 331–336

Ciocchetta F., Conti M., De Luca R., Guida I., Rendina A., Santini G., 2017, “I tassi di recupero delle sofferenze”, Banca d’Italia, Note di stabilità finanziaria e vigilanza, n. 7

Coltorti F., 2016, “Dalla banca per gli altri alla banca per il profitto”, Relazione al Convegno di La nuova Provincia “Banche: rifugio o rischio?”, Asti, 8 febbraio

Mediobanca, 2016, Focus sul sistema bancario italiano, www.mbres.it

 

[1]    Ben lontana, come realtà, da quella riportata in Coltorti (2016) di Rota P., Principi di scienza bancaria, Tipografia del giornale Il Sole, Milano 1873: “Perché il banchiere possa sviluppare ed ordinare il credito è bisogno primamente che goda credito egli stesso…Oltre a specchiata probità… bisogna che sia persona esperta assai negli affari commerciali, cauta nelle operazioni in modo che si possa essere sicuri che egli non arrischierà il suo e quello degli altri in avventate imprese, in pazze speculazioni…”.

[2]     Per shortfall si intende il deficit di patrimonio netto di vigilanza, in seguito a perdite, rispetto ai vincoli di adeguatezza patrimoniale posti dalle regole di Basilea.

[3]    Si tratta comunque di un campione significativo: i gruppi coinvolti erogavano, alla fine di giugno del 2015, il 71% dei prestiti alle imprese delle banche e società finanziarie italiane; i loro crediti deteriorati erano il 78% del totale.

[4]     Si tratta della perdita su posizioni creditorie inesigibili (sofferenze) e quindi riscosse solo in parte.

[5]     Il recovery rate o tasso di recupero è il complemento a 100 della LGD: ad una LGD del 59% corrisponde quindi un tasso di recupero del credito inesigibile del 41%, cioè la banca recupera solo il 41% del valore nominale del credito inesigibile.

[6]     È stato utilizzato il modello di Cheung (1999) (si veda oltre).

[7]     Il modello di Cheung (1999) stima il costo del debito sulla base della probabilità di insolvenza e del tasso di recupero in caso di insolvenza, con la seguente relazione:

eepdove i è il tasso privo di rischio, n sono gli anni per il recupero, RR il tasso di recupero. Il modello assume che il creditore sia neutrale nei confronti del rischio e quindi si accontenti di ottenere un tasso atteso pari al tasso privo di rischio. È evidente quindi che la stima che si ottiene con l’applicazione del modello è un tasso che va interpretato come tasso soglia minimo. Essendo il creditore avverso al rischio, il tasso atteso richiesto sarà maggiore e quindi la stima del tasso di recupero (ad esso correlata) che si otterrebbe sarebbe inferiore: in altre parole il tasso di recupero che risulta dalla simulazione assumendo il tasso atteso dal creditore pari al tasso privo di rischio è sovra-stimato.

[8]     Risultati dei test non riportati per brevità.

[9]     Misurata dai test: coefficiente di contingenza, phi e V di Cramer e Lambda, non riportati per brevità.

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