Perché i certificati di compensazione fiscale non sono (e non possono essere) “debito”

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Political and social notes

Da diversi anni, come componenti del Gruppo della Moneta Fiscale, proponiamo l’emissione di Certificati di Compensazione Fiscale (CCF) quale strumento per rilanciare l’economia italiana nel rispetto delle vigenti regole europee[1]. Di recente, ne abbiamo sostenuta l’adozione anche per un’accelerazione della lotta alle conseguenze economiche del Covid19, senza che ciò aggravi la situazione debitoria del Paese[2].

In altre sedi, abbiamo più volte chiarito che i CCF non costituiscono debito alla luce dei criteri di contabilità stabiliti dall’Unione Europea e articolati nei regolamenti Eurostat (si veda appendice)[3]. E proprio al fine di evitare la confusione cui facilmente dava luogo l’uso della parola “credito” contenuta nel nome originariamente attribuito allo strumento, abbiamo preferito sostituirla col termine “compensazione”, peraltro perfettamente appropriato alla natura tecnica dello strumento, che è rimasta del tutto identica alla concezione iniziale.  

Con quest’articolo s’intende tornare sulla natura non di debito dei CCF, avvalendosi di ulteriori fonti finanziario-contabili.

I crediti fiscali

In sintesi, i crediti fiscali sono distinti tra “pagabili” e “non pagabili”. I secondi, che danno diritto esclusivamente a detrazioni o compensazioni, non sono mai stati considerati debito e non vi è ragione alcuna, se non di vieta opposizione politica, per cambiare orientamento.

Le uniche obiezioni che si cerca di trovare, ad ogni costo, si appoggiano su aspetti marginali e malfermi, che in questa sede saranno meglio puntualizzati.

Ad esempio, si vuol fare passare le “minori entrate future” cui i CCF darebbero luogo (peraltro tutte da stimare, e tuttavia assai eventuali, giacché legate all’effetto netto dovuto allo stimolo esercitato dal CCF sull’economia) come una “fuoriuscita di risorse economiche” e quindi come passività. Si dimentica che perché una compensazione tra un’attività e una passività si configuri come una vera e propria fuoriuscita di risorse, si deve rispettare anche il generale principio di competenza. Neppure le pensioni che saranno pagate tra due anni, e che costituiscono dunque “maggiori spese future”, vengono contabilizzate oggi come maggiori passività.

Mai, nei principi internazionali, è stata considerata passività la fuoriuscita di attività future, quali sarebbero appunto i crediti tributari eventualmente compensabili. Né i semplici impegni e le promesse di partecipazione e compartecipazione su risorse e redditi futuri sono mai state considerate passività, poiché mancano del requisito di essere “obbligazioni attuali”, cioè pienamente maturate (per effetto di azioni passate) alla data di rappresentazione del bilancio.

Per le comuni imprese, ad esempio, qualora il titolo venisse fatto emettere da azienda creditizia di proprietà statale (come, ad esempio, la Cassa Depositi e Prestiti), varrebbe l’IAS 37[4] sugli accantonamenti a futuri rischi ed oneri, che, al paragrafo 63, senza ombra di dubbio afferma che

«Provisions shall not be recognised for future operating losses»,

e ancora più chiaramente afferma al successivo paragrafo 18 che

 «Financial statements deal with the financial position of an entity at the end of its reporting period and not its possible position in the future. Therefore, no provision is recognised for costs that need to be incurred to operate in the future. The only liabilities recognised in an entity’s statement of financial position are those that exist at the end of the reporting period».

Qualcuno potrebbe obiettare che l’IAS 37 vale per le imprese, e non per gli enti pubblici – come nel caso in cui l’emissione diretta avvenisse da parte dello Stato. Ma anche questa obiezione è falsa, giacché il corrispondente IPSAS 19[5], sia pure in modo più sintetico, riprende esattamente lo stesso principio, al paragrafo 26:

«Financial statements deal with the financial position of an entity at the end of its reporting period and not its possible position in the future…The only liability recognised in an entity’s statement of financial position are those that exist at the reporting date».

Le “minori entrate future”, da qualunque parte le si guardino, devono essere solo oggetto di copertura e previsione nei documenti di programmazione e non nei consuntivi. Su questo la normativa contabile, europea e internazionale, è talmente univoca da non meritare altre specificazioni.

Del resto, il CCF, se ci soffermiamo sul suo contenuto strettamente pecuniario, è un titolo del tutto irredimibile, cioè “non pagabile”. Su questo, sebbene su una fattispecie analoga e con l’esplicita esclusione di meccaniche estensioni del principio, la Banca d’Italia si è già espressa in passato.

Nel documento congiunto Banca d’Italia/Consob/Isvap n. 3 del 21 luglio 2009[6], con riferimento specifico ad alcune obbligazioni emesse ai sensi del D.L. n. 185/2008, si enuncia un principio per il quale è davvero difficile, stante la sua generalità, la mancata estensione a tutte le corrispondenti fattispecie di titoli irredimibili, fra questi il CCF:

«Con riferimento alla classificazione contabile degli strumenti emessi, lo IAS 32 (Financial Instruments: Presentation) stabilisce che uno strumento finanziario è uno strumento rappresentativo di patrimonio netto laddove esso non includa alcuna obbligazione contrattuale per l’emittente a consegnare denaro o altre attività finanziarie o a scambiare attività o passività finanziarie a condizioni potenzialmente sfavorevoli per l’emittente stesso».

Se è vero che la circolare è specifica degli strumenti onde trattasi, diventa davvero difficile spiegare perché il principio appena enunciato non possa essere applicato a casi analoghi, quali appunto i CCF.

Va inoltre precisato che la previsione del documento circa l’eventuale

«…obbligazione contrattuale a scambiare a consegnare denaro o altre attività finanziarie o a scambiare attività o passività finanziarie a condizioni potenzialmente sfavorevoli per l’emittente stesso»

afferisce in modo dirimente ai CCF, evidenziando la natura non di debito della relazione che lega lo Stato che li emette ai soggetti economici che ne sono assegnatari: lo Stato non si impegna con questi né a consegnargli denari, né a scambiare attività o passività di alcuna specie. Non c’è promessa di scambio, dunque non c’è debito.  

Inoltre, anche con riferimento agli scambi cui i CCF sono successivamente fatti oggetto, essi non hanno mai luogo a condizioni sfavorevoli, giacché i CCF compensati recano un valore identico a quello dei diritti in essi incorporati, senza alcuno spread sfavorevole all’emittente, ciò che oltretutto sarebbe persino irrilevante per il principio di competenza sopra enunciato.

L’unico appiglio, infine, per considerare “a qualunque costo” il CCF come debito sarebbe dato dal fatto che tale certificato, dal momento che fosse cartolarizzato e circolasse, diventerebbero ipso facto debito per convenzione.

Questo assunto, semplicemente, non ha base giuridica, e quindi è tamquam non esset. Forse è fondato sul presupposto, errato, che un titolo di credito che circola nell’economia di norma è un debito dell’emittente. Di norma, appunto. Tuttavia, occorre stare molto attenti alla natura del valore intrinseco che sarebbe legato a tale titolo: se gli agenti economici riconoscono ad un bene qualsivoglia (non necessariamente un titolo) un valore di scambio, questo può ben essere assunto come il suo fair value. Ma questo valore, fintanto che non è esigibile dall’emittente, è (e resta) un semplice valore di mercato, riconosciuto, appunto, dal mercato, e pertanto non enforceable verso l’emittente. La distinzione appare del tutto elementare e sorprende, malafede a parte, che si possa fare confusione tra l’obbligazione (in questo caso inesistente) e il valore di mercato.

A titolo di esempio, anche le cosiddette “criptovalute” hanno sì un valore di mercato, ma – non avendo un definito emittente – sono considerate valori assoluti, e non relativi verso un soggetto obbligato[7]. I CCF hanno natura del tutto analoga nel momento in cui vengono cartolarizzati. A meno di non voler dare del “debito” una definizione del tutto formale, del tipo

«Dicesi debito per l’emittente tutto ciò che acquista un valore e viene negoziato autonomamente sul mercato».

Di fronte a questo formalismo siamo disposti ad arrenderci. In tal caso il CCF sarebbe sì debito, ma ancor meno di quanto non lo siano le banconote emesse dalla banca centrale, che rappresentano un debito puramente convenzionale, da non restituire mai più, se non attraverso l’emissione di titoli del tutto fungibili a quelli eventualmente ritirati. Il CCF non è nemmeno una banconota: diventa strumento monetario solo su base volontaristica, per decisione del pubblico e del mercato e non per volere dello Stato. La forma può certo essere importante, ma questo sarebbe solo un assurdo formalismo bizantino, privo del tutto di alcuna sostanza economica.

Appendice – Sulla Moneta Fiscale

L’espressione “Moneta Fiscale” è stata coniata in Per una Moneta Fiscale Gratuita: Uscire dall’Austerità Senza Spaccare l’Euro, Manifesto / Appello lanciato da B. Bossone, M. Cattaneo, L. Gallino, E. Grazzini e S. Sylos Labini nel novembre 2014 e riportato poi nell’e-book dal medesimo titolo, curato da B. Bossone, M. Cattaneo, E. Grazzini e S. Sylos Labini (con prefazione di L. Gallino) e pubblicato da MicroMega il 15 giugno 2015.

Secondo una definizione generale e rigorosa, 

Moneta Fiscale è qualunque strumento emesso da un’entità privata o pubblica che i) lo Stato s’impegna ad accettare dal portatore per l’adempimento delle proprie obbligazioni fiscali, nella forma di riduzione degli importi dovuti allo Stato oppure nella forma di effettivi trasferimenti di valore (pagamenti) in favore dello Stato; ii) non costituisce moneta a corso legale, iii) non impegna lo Stato né a pagare somme al portatore né a convertire lo strumento in moneta a corso legale; e tuttavia è iv) negoziabile in moneta a corso legale, v) trasferibile a terzi, e vi) cedibile in cambio di beni, servizi, moneta o titoli di ogni specie.

Tale definizione è stata proposta da B. Bossone e M. Cattaneo, New ways of crisis settlement: Fiscal Money as a tool to fight economic stagnation, presentato al convegno “A single model of Governance or tailored responses? Historical, economic and legal aspects of European Governance in the Crisis”, FernUniversität, Hagen, il 24-25 novembre 2016 e pubblicato nei relativi atti.

Fondamentale è che la Moneta Fiscale, se usata come mezzo di pagamento, sia accettata su base puramente volontaristica. Per quanto riguarda lo Stato che la emette, essa rappresenta esclusivamente un titolo che non reca alcun obbligo di debito. Che poi questo titolo sia utilizzato come mezzo di pagamento è una deliberata scelta della comunità che decide di farne tale uso. Ecco perché la Moneta Fiscale non può (e non deve) essere considerata come moneta “statale” (nel senso di emessa dallo Stato) o come moneta “pubblica” (nel senso di emessa dal settore pubblico): al momento dell’emissione (e per lo Stato che la emette) essa è soltanto un titolo caratterizzato da specifici diritti del portatore; è il settore privato che ne fa una moneta decidendo di accettarla e usarla come mezzo di pagamento. 

La Moneta Fiscale è stata originariamente proposta da Marco Cattaneo sotto forma di “certificati di credito fiscale” nell’articolo Certificati di credito per il cuneo, pubblicato da Il Sole 24 Ore, il 31 ottobre 2012, come strumento d’intervento a sostegno dell’economia italiana, e dallo stesso Cattaneo successivamente discussa nel libro scritto con G. Zibordi, La Soluzione per l’Euro, Hoepli, marzo 2014. La proposta di Cattaneo è stata quindi elaborata in Per una Moneta Fiscale Gratuita: Uscire dall’Austerità Senza Spaccare l’Euro, Manifesto / Appello di B. Bossone, M. Cattaneo, L. Gallino, E. Grazzini e S. Sylos Labini (disponibile sul sito https://monetafiscale.it) e nell’e-book dal medesimo titolo curato da B. Bossone, M. Cattaneo, E. Grazzini e S. Sylos Labini (con la prefazione di L. Gallino), pubblicato da MicroMega, il 15 giugno 2105, e quindi ulteriormente sviluppata nei lavori pubblicati dal Gruppo della Moneta Fiscale (GMF), di cui sono membri B. Bossone, M. Cattaneo, M. Costa e S. Sylos Labini. Del GMF si segnala in particolare, tra i numerosi contributi, Moneta Fiscale: il punto della situazione, MicroMega, 17 giugno 2017. Riguardo ai contributi individuali dei membri del GMF: Stefano Sylos Labini è intervenuto sull’argomento con contributi sulla stampa (Sole 24 Ore, Left, Sinistra in Rete, L’Idea Socialista) e con interviste (RadioPopolare, Money.it, PandoraTv). Massimo Costa ha studiato soprattutto i profili giuridico-contabili dei CCF.

Successivamente alla collaborazione del GMF con il deputato del M5S Pino Cabras (cfr. testo), si è preferito sostituire alla denominazione di certificato di credito fiscale quella di Certificato di Compensazione Fiscale, che non soltanto è più precisa, ma libera il campo da ogni possibile confusione fra la natura di non debito del titolo e il sostantivo “credito” originariamente utilizzato. I Certificati di Compensazione Fiscale discussi nel testo sono una sottospecie specifica della definizione generale di Moneta Fiscale sopra richiamata.

Al tema della Moneta Fiscale è interamente dedicato il blog “Basta con l’Euro Crisi”, creato e curato da Marco Cattaneo. Una proposta di Moneta Fiscale fu lanciata da Gennaro Zezza nel 2017 sul sito del Movimento 5 Stelle, risultando la seconda proposta più votata dagli iscritti al sito. Varie forme di Moneta Fiscale sono state proposte in atri paesi; si vedano: Sortir de l’austérité sans sortir de l’euro… grâce à la monnaie fiscale complémentaire, di G. Giraud, B. Lemoine, D. Plihon,  M. Fare , J. Blanc, J.-M. Servet, V. Gayon, T. Coutrot , W. Kalinowski, e B. Théret, pubblicato su Libèration, l’8 marzo 2017; Monnaie fiscale complémentaire: sortir des impasses européiste et souverainiste, di T. Coutrot e pubblicato su Mediapart del 27 giugno 2018; e la proposta lanciata nel 2015 per la Grecia dall’ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis e illustrata in The Promise of Fiscal Money, Project Syndicate, 29 August 2017, ripresa e commentata dal GMF in Making Fiscal Money Work, Project Syndicate, 19 September 2017. Per un confronto tra forme alternative di monete fiscali, si veda il contributo (in due parti) di B. Bossone e M. Cattaneo, A Parallel Currency for Greece, VoxEu, 25-26 May. 

Infine, l’emissione di Moneta Fiscale è rubricabile tra le “politiche fiscali non convenzionali” (che comprendono anche le svalutazioni fiscali e la tassazione indiretta preannunciata), in giustapposizione alle “politiche monetarie non convenzionali” adottate da alcune tra le maggiori banche centrali a partire dalla crisi del 2008. Si veda Bossone, B., “Unconventional” Fiscal Policies, EconoMonitor, 16 February, 2019.


[1] Del Gruppo della Moneta Fiscale (GMF fanno parte gli autori di quest’articolo, La Moneta Fiscale è stata originariamente proposta da Marco Cattaneo sotto forma di “certificati di credito fiscale” nell’articolo Certificati di credito per il cuneo, pubblicato da Il Sole 24 Ore, il 31 ottobre 2012, come strumento d’intervento a sostegno dell’economia italiana, e dallo stesso Cattaneo successivamente discussa nel libro scritto con G. Zibordi, La Soluzione per l’Euro, Hoepli, marzo 2014. La proposta è stata elaborata nell’Appello / Manifesto  Per una Moneta Fiscale Gratuita: Uscire dall’Austerità Senza Spaccare l’Euro Manifesto / Appello da B. Bossone, M. Cattaneo, L. Gallino, E. Grazzini e S. Sylos Labini e successivamente nell’e-book dal medesimo titolo, curato da B. Bossone, M. Cattaneo, E. Grazzini e S. Sylos Labini (con la prefazione di L. Gallino) e pubblicato da MicroMega il 15 giugno 2105. La proposta è stata ulteriormente sviluppata nei lavori pubblicati dal GMF. Per alcuni di tali contributi e per altri lavori sulla materia, si veda l’appendice.

[2] Cfr. Bossone, B., M. Cattaneo, M. Costa, S. Sylos Labini, Coronavirus e intervento economico dello stato siamo in guerra, MicroMega, 27 marzo 2020.

[3] Cfr. Treatment of Deferred Tax Assets (DTAs) and Recording of Tax Credits Related to DTAs in ESA2010, European Commission, Eurostat Guidance Note, 29 August 2014.

[4]  Gli IAS (International Accounting Standards) sono i principi contabili internazionali per le imprese (quelli originariamente emessi, ante 2001) e, come gli International Financial Reporting Standards (IFRS, emessi post 2001), sono emanati dall’International Accounting Standards Board (IASB).

[5] Gli IPSAS (International Public Sector Accounting Standards) sono i principi contabili internazionali per il settore pubblico e sono emanati dall’International Public Sector Accounting Standards Board (IPSASB).

[6] Cfr.  Documento Banca d’Italia/Consob/Isvap n. 3 del 21 luglio 2009, Tavolo di coordinamento fra Banca d’Italia, Consob ed Isvap in materia di applicazione degli IAS/IFRS—Strumenti finanziari di cui all’art. 12, concernente “Finanziamento dell’economia attraverso la sottoscrizione pubblica di obbligazioni bancarie speciali e relativi controlli parlamentari e territoriali”, del D.L. n. 185/2008.

[7] Cfr. Digital currencies, rapporto del Committee on Payments and Market Infrastructures, Bank for International Settlements, Basel, November 2015.

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