La Corte costituzionale e i passi per l’acqua pubblica

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Political and social notes

Questo articolo si propone di commentare la recente sentenza della Corte costituzionale (la 325 del 2010) sui ricorsi delle Regioni contro il decreto Ronchi, sulla questione dell’acqua pubblica. L’unico dato positivo della sentenza in questione sembra essere rappresentato dall’affermazione che il decreto Ronchi non costituisce applicazione obbligatoria del diritto comunitario, svelando la mistificazione operata da quello stesso decreto nella parte in cui si dichiara attuativo di obblighi comunitari. Con ogni probabilità, è proprio grazie alla riconosciuta non derivazione comunitaria del decreto Ronchi, che la Corte costituzionale ha potuto ritenere ammissibile il quesito referendario che mira all’abrogazione dell’intero articolo 23 bis, così come modificato dal decreto Ronchi.

Una sentenza che stravolge e deforma i principi che regolano i Rapporti Economici della nostra Costituzione

La sentenza è lunga e complessa, ma esiste un elemento chiave attorno al quale ruotano tutte le dichiarazioni di infondatezza delle questioni poste dalle Regioni ricorrenti. E mi sembra questo: “Le regole che concernono l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica – ivi compreso il servizio idrico – ineriscono essenzialmente alla materia tutela della concorrenza, di competenza esclusiva statale” (par. 7). Cui segue e si aggiunge: “La determinazione delle condizioni di rilevanza economica è riservata alla competenza esclusiva legislativa dello Stato in tema di tutela della concorrenza” (par. 9.2).

Possiamo aggiungere a questi elementi il principio ribadito dalla Corte in una sentenza più volte citata, la n. 307 del 2009: “la Costituzione pone il principio, insieme oggettivo e finalistico, della tutela della concorrenza”. Si tratta della sentenza con cui la Corte, da un lato annullava quella parte dell’iperliberista legge lombarda che separava la gestione della rete dall’erogazione del servizio (e in questo senso fu positiva per il movimento per l’acqua, perché quella separazione è sempre funzionale alla privatizzazione di una o di entrambe le gestioni), dall’altro confermava invece quella parte della legge, con cui la Lombardia andava oltre il decreto Ronchi imponendo la gara addirittura come unica modalità di affidamento. Due scelte che enunciavano un pericoloso principio: essendo la concorrenza valore supremo, le Regioni possono derogare alle leggi statali solo nel senso di ampliarne la sfera di tutela, e non nel senso di prevedere ulteriori ambiti di esclusione dal mercato.

In questa nuova sentenza, il medesimo filo logico viene dipanato spostando i livelli decisionali: in sostanza, afferma la Corte, la legge statale può derogare alle norme comunitarie solo nel senso di prevedere una superiore tutela della concorrenza e un ampliamento della sfera del mercato, e perciò il decreto Ronchi non contrasta con le norme comunitarie neppure quando rende residuale l’affidamento in house [1].

A dispetto della rilevanza ascritta dalla Corte a questo principio, gli articoli 35 – 47 della Costituzione, che regolano i Rapporti Economici, non citano mai né la parola né il concetto di “concorrenza”. Sono principi fondamentali il lavoro e i suoi diritti, l’organizzazione sindacale, l’iniziativa economica privata, la proprietà, per fermarsi ai principali. La tutela della concorrenza è sì una materia riservata alla legislazione esclusiva dello Stato dall’articolo 117: ma una materia, non è un principio costituzionale!

La conclusione tratta dalla Corte sul punto risulta discutibile in primo luogo perché dimentica tutta la prima parte della Costituzione, mentre una questione che si asserisce afferire alla tutela della concorrenza, parametro meramente economico, non può non doversi interpretare alla luce dei principi fondamentali in materia di rapporti economici[2].

La conclusione a cui giunge la Corte è discutibile anche per un’altra ragione.

Affermando, infatti, che la materia dei servizi pubblici locali di rilevanza economica riguarda esclusivamente la tutela della concorrenza – e insieme consentendo allo Stato di farvi rientrare praticamente tutto – la Corte nega in radice l’intero concetto di servizio pubblico, in quanto, di nuovo, sembra dimenticare che il servizio ha come fine principale quello di soddisfare i diritti e i bisogni dei cittadini: e nel caso dell’acqua, la conclusione (per quanto capziosi e articolati possano essere i ragionamenti che la sostengono) è del tutto paradossale, perché considera prioritaria la tutela dell’elemento astratto “concorrenza” rispetto all’esigenza che ogni cittadino veda riconosciuto quello che l’ONU e il Parlamento Europeo, hanno definito diritto umano fondamentale e inalienabile.

Insomma, non si capisce su cosa dovrebbe concretamente vertere la materia dei servizi pubblici locali, di competenza regionale, se le si sottrae praticamente tutto.

Il divieto di gestione diretta o mediante azienda speciale

La Corte osserva perentoria a più riprese che nel sistema “già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia”. A riguardo, occorre concordare sul fatto che, purtroppo, l’art.35 della legge n. 448 del 2001 (e una successiva che lo confermava), che obbligavano le aziende speciali a trasformarsi in Spa, non sono stati né censurati dalle Regioni in questo ricorso né inseriti tra gli articoli da abrogare mediante referendum. Ma nel momento in cui la Corte riconosce che nell’ordinamento è presente un tale principio, dovrebbe subito dedurne l’incostituzionalità (anche nella forma indiretta del 23 bis), perché non si può sostenere che il Comune possa esimersi dal fornire, anche direttamente, l’acqua ai cittadini nel momento in cui non si trovassero imprese interessate a farlo sul mercato.

Invece la Corte ha ribadito la vigenza di questo principio per i servizi a rilevanza economica.

E dato che gli Enti Locali, secondo la Corte, non sono più legittimati a decidere se l’acqua sia un servizio a rilevanza economica o meno, avendo lo Stato deciso una volta per tutte (che lo è), non si può più sostenere che l’affidamento ad azienda di diritto pubblico sia consentito sul presupposto che il servizio sia dichiarato privo di rilevanza economica.

Oggi però è inevitabile fare i conti col quadro che la Consulta ha voluto creare.

Mi soffermo sul fatto che non concordo del tutto con l’articolo di Iannello, in cui si assimila l’azienda speciale con la società di capitale, differenziandole solo per i tenui vincoli pubblicistici della prima. Due aspetti, infatti, restano a mio parere a suffragare il percorso sinora seguito dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua: il primo, che l’azienda speciale rimane nell’alveo del diritto pubblico mentre la SpA può esserlo solo nell’accezione ampia e sostanziale del diritto comunitario, ma non in quello interno; il secondo, che l’azienda speciale, non avendo quote azionarie, è impossibile da privatizzare, essendo azienda pubblica per definizione, mentre la SpA pubblica espone al rischio che la proprietà delle quote possa cambiare. D’altro canto, a differenza delle vere aziende pubbliche, (le municipalizzate), le aziende speciali resistono nell’ordinamento mediante l’articolo 114 del Testo Unico degli Enti Locali.

Questi concetti, però, se rimangono validi in astratto, risultano al momento inapplicabili perché la nozione sostanziale che la Corte ha bocciato è quella di “gestione diretta mediante azienda speciale o in economia”, o consorzio (sebbene non esplicitamente menzionato). E’ importante tenerlo presente, perché operare (o suggerire) un affidamento palesemente illegittimo, con gli interessi delle multinazionali che ci sono in gioco, esporrebbe gli Ato – i consorzi di Comuni e Province che deliberano in materia – agli effetti dei ricorsi al TAR, con conseguente successivo obbligo della gara.

Nelle Regioni a statuto speciale potrebbero esservi opzioni aggiuntive giuridicamente possibili specie se previsti negli Statuti e ad esse non si applica integralmente la sentenza della Consulta. Questi territori potrebbero essere laboratori di sperimentazione delle aziende di diritto pubblico.

Il servizio idrico è funzione fondamentale dell’Ente locale?

Vi sono molti dettagli discutibili della sentenza, che mostrano come essa sia, per così dire, ideologicamente viziata.
Ad esempio, al punto 11. 5, la Corte afferma che “il presupposto […] che il servizio idrico costituisca una delle funzioni fondamentali dell’ente locale è privo di fondamento (sentenze n.307 del 2009 e 272 del 2004)”.

In realtà la gestione dell’acqua è – da sempre – una delle funzioni fondamentali dei Comuni. Ma cosa afferma la sentenza n.307 del 2009? Ebbene la sentenza sembra affermare esattamente il contrario di quanto oggi le si vuol far dire: “Le competenze comunali in ordine al servizio idrico sia per ragioni storico-normative sia per l’evidente essenzialità di questo alla vita associata delle comunità stabilite nei territori comunali devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali”.

Quali passi per l’acqua pubblica?

A questo punto sembra che le linee di azione dei sostenitori dell’acqua pubblica dovrebbero essere le seguenti. L’obiettivo di fondo resta quello della legge di iniziativa popolare che punta a una gestione autenticamente pubblicistica. A tale scopo, occorre sostenere il referendum e la moratoria degli affidamenti e delle gare in attesa che il referendum venga svolto. Per tutti quegli affidamenti che non si possono arrestare prima del referendum, andrebbero sostenute le soluzioni “in house”, a società a totale capitale pubblico. Ciò è necessario per poter mantenere un quadro rilevante di ambiti dove la gestione possa essere più semplicemente ripubblicizzata (come avviene a Parigi), battendosi affinché nelle eventuali delibere di affidamento si assumano l’impegno dell’organo affidante a trasformare la Spa in ente di diritto pubblico appena il quadro giuridico dovesse consentirlo e l’obbligo della Spa di prestare l’attività esclusivamente (e non solo in via prevalente) a favore degli enti pubblici affidanti. Occorre insomma evitare di ostacolare le amministrazioni che nel quadro normativo attuale dovessero scegliere di chiudere all’ingresso di investitori privati ricorrendo alle soluzioni in house[3]. Una battaglia politica aspra, ci attende, in cui contemplare anche forme di disobbedienza civile verso quelle amministrazioni che intendano procedere con le privatizzazioni e il prosieguo della campagna di modifica degli Statuti comunali e provinciali con l’affermazione del principio che l’acqua è un servizio pubblico privo di rilevanza economica. In conclusione, auspico una strada comune e chiara, per continuare la riappropriazione dell’acqua bene comune.

 

* Funzionario Provincia di Torino, movimento per l’acqua pubblica.

 

[1] Si intende con questa dizione, secondo la normativa comunitaria, l’affidamento diretto di un servizio pubblico ad ente o azienda esterna a varie condizioni, tra cui quella che l’ente affidante eserciti un “controllo analogo” a quello operato sui propri uffici. A queste condizioni l’affidamento avviene fuori dalle regole di mercato e di concorrenza.
[2] È tale la ritrosia della Corte di citare principi costituzionali, che dove essa afferma timidamente, al punto 8.1.2., che “la sfera di autonomia privata e la concorrenza non ricevono dall’ordinamento una protezione assoluta e possono, quindi, subire limitazioni”, anziché citare correttamente l’articolo 41 Cost., cita una giurisprudenza precedente della Corte stessa. Subito peraltro la Corte si preoccupa di attenuare quest’apertura, non peritandosi di affermare, citando un’altra precedente sentenza, che la regolazione del mercato, strumentale a garantire la tutela di interessi diversi rispetto a quelli correlati all’assetto concorrenziale del mercato, ha carattere derogatorio e per ciò stesso eccezionale. Portando in questo contesto tale affermazione, il passaggio che ne deriva si può definire eversivo, in quanto arriva a negare il carattere permanente e fondante della limitazione all’iniziativa economica privata imposto dall’art.41 della Costituzione “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
[3] A riguardo, non può convincere la proposta di Lucarelli (articolo uscito su rivista 1/2011 dell’AIC) secondo cui le Regioni dovrebbero istituire appositi enti di diritto pubblico per la gestione dei servizi. Una strada che appare impercorribile dopo una sentenza che afferma in modo perentorio (anche se non condivisibile) la competenza assoluta dello Stato sui servizi a rilevanza economica, tra cui il servizio idrico.

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