Manovra: e se il deficit fosse più basso?

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Political and social notes

Con l’assetto istituzionale attuale dell’eurozona e i suoi vincoli è impossibile ridurre davvero il rapporto debito pubblico – Pil, a meno di continuare a far pagare il conto a salariati, pensionati e a tutte le fasce deboli del Paese.

 

La discussione sulle scelte di politica economica del nostro paese è caratterizzata da una curiosa asimmetria: tutti i giorni sui grandi giornali compaiono approfonditi articoli su cosa ci aspetta se violiamo le direttive delle autorità europee; ma non leggiamo mai di cosa ci capiterà se invece non le violiamo. Eppure le conseguenze di questa non violazione sono facilmente prevedibili, basta fare un po’ di conti. E sono tragiche.

Ecco i conti. Oggi il PIL italiano è di circa 1780 miliardi, il debito di circa 2330 (il 130.9% del PIL), e gli interessi che paghiamo su di essi di circa 65 (dico “circa” perché sono dati che si modificano continuamente, ma i calcoli che seguono restano validi per piccole variazioni). Assumo quanto segue, accettando i dati e le previsioni dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio: che il PIL cresca dell’1% all’anno; che il tasso di interesse medio sul debito rimanga costante (2.8%); e che l’inflazione sia dell’1.5% all’anno. Assumo anche che il deficit sia pari all’1.6% del PIL l’anno prossimo, all’1% quello dopo a allo 0.8% l’anno ancora dopo (quindi meno di quanto deciso dal governo, ma in linea con quanto avrebbe concesso l’Europa, anche se mugugnando). Un po’ di calcoli, molto semplici, ci dicono che l’anno prossimo il PIL nominale sarebbe di 1825 miliardi, il debito di 2359 (il 131% del PIL), la spesa per l’interesse di 66. Di questi 66 miliardi, 29 verranno dal deficit (l’1.6% del PIL) e il resto – 37- dall’attivo primario, cioè dalla differenza fra entrate fiscali e spesa pubblica diversa dal pagamento di interessi. L’anno dopo il PIL salirebbe a 1871 miliardi, il debito a 2378 (il 127% del PIL), e la spesa per interessi a 66.6 miliardi, di cui 47.6 da pagarsi con attivo primario, e il resto (19) con nuovo deficit. L’anno ancora dopo il PIL passerebbe a 1916 miliardi, il debito a 2393 miliardi (il 124.8% del PIL), e gli interessi a 67, 15 dei quali sarebbero pagati dal deficit e 52 dall’attivo primario.

In questo scenario riusciamo a ridurre il rapporto debito/PIL, ma sotto due ipotesi non molto solide. La prima è che il tasso di interesse rimanga costante. E facile che non lo rimanga, e se non lo sarà è molto più facile che aumenti piuttosto che diminuisca. Per tre motivi: la fine dell’acquisto di titoli da parte della BCE, la bassa crescita dell’economia rispetto a quella degli altri paesi sviluppati, cosa che rende più appetibili altri investimenti, e il maggior rischio di default in caso di turbolenze sui mercati mondiali (da cui il famoso “spread”) dovuto alla bassa crescita. Sulla plausibilità di una crescita dei tassi di interesse, anche in assenza della politica del nuovo governo, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio è d’accordo.

Tuttavia, per quanto sia azzardata la scommessa sull’andamento dei tassi, molto più rischiosa è quella sulla crescita dell’economia: è difficile che si possa crescere anche solo dell’1% sottraendo alla domanda interna 126.6 miliardi in tre anni (e continuando a sottrarli negli anni successivi). La debole crescita attuale è dovuta all’aumento delle esportazioni (e al loro effetto di attivazione), a sua volta dovuto non a un aumento di competitività ma al buon andamento del commercio mondiale, su cui non abbiamo alcun controllo, e che (ancora ancora secondo l’UPB) sta probabilmente finendo.

Quando leggiamo che Fonti Autorevoli come l’FMI o l’UPB prevedono, per esempio, che il PIL crescerà dell’1%, siamo indotti a pensare che sarà vero. Ma in realtà la previsione è molto incerta. Variazioni così piccole sono di solito all’interno del margine di errore statistico; ma soprattutto danno per scontato che siano giuste anche tutte le previsioni su tutti i fattori che possono influenzare quel valore.

Vediamo allora cosa succederebbe se -per esempio- il tasso di interesse salisse al 3.5%, fermo restando tutto il resto. Abbiamo visto che L’UPB ritiene plausibile che ciò possa succedere, tanto più che l’Europa sta lavorando attivamente quanto -speriamo- involontariamente per propiziare questo esito, tramite dichiarazioni fuori controllo dei suoi massimi esponenti. In tal caso al primo anno, a fronte di un PIL di 1859 miliardi e di un debito di 2359 la spesa per interessi sarebbe di 82.6 miliardi, e quindi l’attivo primario dovrebbe essere di 53, dato che il resto proverrebbe dal nuovo debito. Improvvisamente lo stato dovrebbe reperire 26 miliardi in più (prima erano 37).

Di fronte a questo rischio ci sono due possibilità: la prima consiste nel fare di tutto, sempre e comunque, per non disturbare i mercati. In questo modo riusciremmo a restare, se tutto va bene, nella situazione attuale. Solo che prima o poi (ma comunque si tratta di pochissimi anni, a stare alle serie storiche) qualche shock esogeno molto probabilmente capiterà; e quindi verrà comunque il momento in cui si dovranno trovare quei miliardi in più. Questa soluzione quindi consiste in pratica nell’incrociare le dita e sperare che tutto vada bene – al prezzo di una crescita bassissima (nel nostro scenario, ma che potrebbe facilmente essere negativa) e molto più bassa di quella degli altri grandi paesi europei.

Rimane la seconda possibilità: spezzare il vincolo del debito, cosa perfettamente possibile, in vari modi. L’Europa potrebbe benissimo aiutarci a farlo, sul piano tecnico, e senza gravi traumi; ma non può per motivi politici, come candidamente ammesso da Juncker, che teme che i paesi vittime dell’austerità si arrabbierebbero se venisse fuori che non solo è possibile, ma probabilmente necessario, se si vuole fare uscire l’Italia dallo stallo in cui si trova, e dalla catastrofe in cui potrà trovarsi.

E se è il PIL a crescere meno? Vediamo cosa succederebbe se la crescita fosse dello 0% anziché dell’1%, e quindi il PIL nominale crescesse solo a causa dell’inflazione. Il PIL passerebbe da 1780 miliardi a 1807, e il debito (grazie all’aumento dell’1.6% del PIL) a 2359. Gli interessi sarebbero di 66 miliardi, 37 dei quali da pagarsi con attivo primario. Le differenze col primo scenario sono piccolissime, nascoste dall’arrotondamento. Cosa ci dice questo risultato? Che per variazioni dell’ordine (realistico) di quelle qui ipotizzate, la spesa per interessi è relativamente immune dalla variazione del PIL. In altri termini, è possibile continuare a pagare il debito anche se la crescita non c’è. Se la mancata crescita rendesse impossibile pagare il debito, l’Europa dovrebbe arrendersi. Ma così non è. Possiamo pagare il debito anche se la necessità dell’attivo primario impedisce la crescita, e anzi propizia la decrescita, come è già avvenuto in Grecia (e in misura minore anche in Italia: vedi sotto). Ovviamente la mancata crescita ha effetti deleteri sull’economia e sulla società, soprattutto se intanto gli altri crescono (basti pensare, per fare un esempio, al ritardo che si accumula in termini di risorse destinate alla ricerca), anche senza considerare -pare che non si usi più- i costi umani dell’impoverimento. Quindi se è vero, come logico e come i dati suggeriscono (vedi subito sotto), che a furia di attivo primario stiamo bloccando la crescita, l’alternativa è rinunciare a pagare il debito, almeno in parte, o rinunciare a fare crescere l’economia. (Ecco i dati: l’economia italiana sta andando molto indietro rispetto agli altri grandi paesi d’Europa. Fra il 2006 e il 2016 il PIL pro-capite dell’Italia in termini reali -cioè senza tenere conto della variazione dei prezzi- è calato del 5.8%, mentre quello della Francia è cresciuto dell’8.3%, quello della Germania del 10.5% e quello del Regno Unito del 21.9%).

Riassumiamo. Sul piano economico, una riduzione graduale del rapporto debito/PIL è quasi impossibile senza fare la fine della Grecia, cioè senza dirottare per anni dalla domanda interna e dalla produzione di servizi pubblici decine di miliardi per riversarli sui mercati finanziari internazionali, da dove torneranno in Italia in misura minima, data la precarietà dell’economia italiana. Quanto sopra mi sembra che possa essere più correttamente descritto così: la riduzione del rapporto debito/PIL è possibile solo usando sempre di più i salari e le pensioni degli italiani per pagare il debito (e se occorre lasciando morire di povertà chi non ha redditi). Allora, che fare? La teoria economica prevede diverse soluzioni. Qualsiasi laureando in economia potrebbe indicarle. Ma non vorrei parlarne qui, perché questo consentirebbe a chi non condivide l’analisi precedente di spostare il dibattito sulla validità di queste soluzioni. Prima vorrei sentire da parte di qualche collega economista che appoggi i vincoli europei come lei o lui pensa di risolvere il problema fondamentale. Che non è quello di non irritare i mercati: è quello di abbattere drasticamente la povertà e la disoccupazione. Mi pare che spetti in primo luogo a loro indicare una soluzione e rispondere alle eventuali critiche, visto che sostengono una politica rivelatasi inefficace sul piano empirico e non validata dalla teoria.

Sul piano politico, i moniti che l’Europa rivolge all’Italia non hanno motivazioni tecniche sostenibili (la teoria economica suggerisce di fare semmai l’opposto di quanto richiesto). Le motivazioni sono quindi interamente politiche. Ora, “motivazioni politiche” non vuol dire -come alcuni pensano- che sono sbagliate e basta spiegarlo perché vengano corrette; vuol dire che ci sono potenti interessi che spingono verso politiche perniciose per il nostro paese. Anche su questo mi sembra che l’informazione sia molto carente.

 

*Professore ordinario di Politica Economica (in pensione; già alle Università di Torino e del Piemonte Orientale)

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