1. Introduzione
Il tema dei differenziali di sviluppo e degli squilibri regionali non è più oggi un tema centrale del dibattito economico e politico italiano. Inoltre, ciò che per decenni si è configurato come la ‘questione meridionale’, con tutte le sue peculiarità storiche, sociali e geografiche, nel corrente dibattito residuo sui temi dei divari regionali ha finito per essere progressivamente sussunto in una più generale e vaga problematica di convergenza e di dinamica della produttività, che ha trovato il suo quadro di giustificazione e di riferimento normativo nelle politiche europee di coesione e sviluppo.
Ma le potenzialità effettive di sviluppo economico delle singole aree territoriali di un paese, di fatto, dipendono sia dalla loro struttura sociale interna, sia dal contesto delle relazioni esterne, nazionali e internazionali, in cui sono inserite, che possono favorire o ostacolare la loro integrazione funzionale nel sistema di divisione nazionale e internazionale del lavoro che caratterizza l’odierno mercato globale.
La ‘questione meridionale’, che ha a lungo costituito oggetto di riflessione delle diverse componenti e fasi del pensiero meridionalista (Salvadori 1963; Petrusewicz 1998), si fondava inizialmente sulla percezione di una problematica particolarità sociale e istituzionale delle regioni del Mezzogiorno d’Italia rispetto al resto del paese (Fabiani & Scarano 2000).
È solo a partire dal secondo dopoguerra che essa è stata ricondotta esclusivamente a un problema di ritardo nello sviluppo economico, che generava un’incapacità strutturale delle regioni meridionali nel contribuire, sul fronte sia dell’offerta che della domanda, a un’adeguata espansione del mercato nazionale (Barucci 1978). Ciò ha posto, per la prima volta, le premesse per la genesi di un interesse materiale ed effettivo del resto del paese nei confronti dello sviluppo economico del Mezzogiorno e per un intervento esogeno volto a un concreto e rapido stimolo della crescita dei redditi meridionali. Ma ha anche fatto sì che l’unica prospettiva strategica per le autorità di politica economica fosse quella di favorire una crescita economica a tappe forzate, senza porsi il problema se fosse più opportuno che ciò si realizzasse in modo endogeno e autopropulsivo o in modalità eterodirette e senza prospettive di autosostentamento nel lungo periodo. Lo sviluppo economico del Mezzogiorno divenne così un obiettivo di interesse nazionale, guidato da visioni tecnocratiche, ma volto a soddisfare interessi sostanzialmente esterni all’area (D’Antone 1996).
L’intervento straordinario nel Mezzogiorno ha indubbiamente costituito, in Italia, la principale forma di intervento dello Stato come soggetto di direzione, controllo e coordinamento dell’attività economica del paese. Esso è diventato quindi, per i simpatizzanti delle politiche keynesiane, il principale emblema della concretizzazione di un’economia mista e del cosiddetto ‘compromesso socialdemocratico’. Ciò spiega il riemergere di interesse per questa fase della politica economica italiana nelle relazioni di alcuni giovani studiosi di impostazione keynesiana o post-keynesiana nell’ambito di recenti convegni (Buscemi, Lofaro & Pariboni 2025), al fine di porre in discussione, sulla base di rigorose analisi econometriche, la vulgata economica neoliberista corrente, secondo la quale l’intervento straordinario è stato l’emblema dell’inefficienza dell’intervento diretto dello Stato nell’economia di mercato e uno dei maggiori responsabili dell’esplosione del debito pubblico italiano (Lepore 2013; Forges Davanzati & Patalano [in corso di pubblicazione]).
Senza alcun dubbio, nel suo primo ventennio, tra il 1950 e il 1970, l’intervento straordinario coincise di fatto con l’unico periodo della storia recente in cui i divari di reddito tra regioni meridionali e resto del paese hanno mostrato una tendenza a ridursi (CER-SVIMEZ 1998; Banca d’Italia 2010; Iuzzolino et al. 2011; Forges Davanzati & Patalano [in corso di pubblicazione]). Le prospettive di convergenza del Mezzogiorno cambiarono però drasticamente già a partire dalla metà degli anni ’70, ben prima della fine dell’intervento straordinario. Dopo il 1975, il rapporto tra il PIL pro-capite del Mezzogiorno e quello del Centro-Nord ha oscillato tra 0,6 e 0,55, mostrando alla fine un netto trend di declino a partire dalla crisi dei debiti sovrani del 2011 e dei più stringenti orientamenti di austerity che ad essa sono seguiti (Fig. 1).
Fig. 1 – Rapporto tra PIL pro-capite del Mezzogiorno e PIL pro-capite del Centro-Nord (1950-2019)

Ma gli anni ’70 non sono stati protagonisti solo di un’inversione di tendenza nei processi di convergenza del Mezzogiorno. Essi hanno segnato, di fatto, una cesura netta di carattere generale nelle dinamiche di crescita e sviluppo e nelle forme di regolazione di tutte le economie avanzate. Secondo chi scrive, quindi, ai fini di una corretta valutazione storica dei pregi e dei limiti dell’intervento straordinario, che eviti il rischio di cedere sia a demonizzazioni neoliberiste, sia a eccessivi entusiasmi keynesiani, può risultare utile il ricorso ad alcune categorie concettuali, quali quelle di regime dl accumulazione e di modo di regolazione, che sono state proposte dalla Scuola francese della teoria della regolazione come schemi interpretativi della Golden Age, che caratterizzò i primi tre decenni del secondo dopoguerra, e della successiva cesura storica verificatasi negli anni ‘70.
Nelle pagine che seguono, dopo aver ricapitolato brevemente i punti salienti di queste due categorie concettuali, si cercherà di applicarle all’interpretazione delle diverse fasi in cui può essere scomposta la parabola dell’intervento straordinario.
2. Regimi di accumulazione e modi di regolazione
La teoria della regolazione evidenzia l’interazione tra istituzioni sociali, intese in senso lato, e il funzionamento dell’economia capitalistica, cercando di individuare le connessioni esistenti tra le dinamiche dello sviluppo della struttura istituzionale e le contemporanee fasi dello sviluppo economico (Scarano 2023). Secondo la sua prospettiva di lettura delle dinamiche del capitalismo moderno, gli sviluppi storici di quest’ultimo dipendono dalle istituzioni sociali, che, per garantire fasi di crescita stabile, devono però essere a loro volta in sintonia con i diversi regimi di accumulazione che si susseguono nel corso del tempo.
I regimi di accumulazione sono individuati come modelli sociali ed economici che consentono ai sistemi capitalistici di effettuare un’accumulazione di capitale stabile nel tempo, contrastando le contraddizioni tra sviluppo delle forze produttive ed esigenze di distribuzione del prodotto sociale tra lavoro e capitale (Scarano 2023). Ogni singolo regime di accumulazione è identificato da un insieme di modelli complementari di produzione e consumo in grado di riprodursi autonomamente per un lungo periodo di tempo.
Questi modelli regolari di accumulazione non escludono, ovviamente, delle fasi di crisi e tipicamente prendono forma tra due successive crisi strutturali. Secondo la teoria della regolazione, quindi, il capitalismo può sperimentare periodi transitori di crescita stabile solo attraverso due tipi di ‘patti sociali’ stabili: un equilibrio adeguato tra salari e profitti e l’accettazione da parte dell’intera società di una serie di regole, procedure e visioni culturali che possono costituire la base di consenso per politiche adeguate al regime di accumulazione (Aglietta 1979/2015; Lipietz 1987).
Se anche solo uno di questi due ‘patti sociali’ viene meno, allora è necessario che trovi attuazione un radicale processo di ristrutturazione del regime di accumulazione prima che la crescita economica possa riprendere e i conflitti sociali scomparire di nuovo (Cohen & Kennedy 2013). Le crisi economiche e finanziarie, quindi, mettono periodicamente in evidenza le interruzioni nel regolare processo di riproduzione delle relazioni sociali e ne promuovono l’evoluzione verso nuove forme.
Secondo la teoria della regolazione, una stabilità prolungata del processo di crescita economica, in qualsiasi regime di accumulazione, può essere raggiunta solo quando quest’ultimo è ‘istituzionalizzato’ in un insieme di pratiche, norme e convenzioni che costituiscono, nel loro insieme, un modo di regolazione. L’insieme di un regime di accumulazione e di un modo di regolazione ad esso adeguato costituisce poi ciò che può essere definito un modello di sviluppo.
Il modello di sviluppo fordista, secondo i regolazionisti, è ciò che ha consentito e caratterizzato la lunga fase di crescita ininterrotta della Golden Age, ovvero del trentennio successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il fordismo è stato quindi un modello di sviluppo storicamente determinato, fondato su particolari condizioni economiche ed extraeconomiche favorevoli alla produzione e al consumo di massa e all’applicazione generalizzata di metodi scientifici nell’organizzazione dei processi produttivi (Amable 2002; Hein et al. 2015). Ma soprattutto, esso era fondato su un inedito ‘compromesso’ tra capitale e lavoro (Boyer 2010). La crisi strutturale della metà degli anni ‘70, caratterizzata a sua volta da una altrettanto inedita combinazione di stagnazione e inflazione, segnò infine l’esplodere delle contraddizioni comunque accumulatesi all’interno di questo modello di sviluppo e la fine dell’eccezionale fase espansiva ad esso connessa (Jessop 1997).
Nel fordismo, secondo i regolazionisti, il compromesso istituzionale fondamentale si fondava su un nuovo ruolo svolto dallo Stato, sul credito monetario, su una innovativa relazione salariale e su forme oligopolistiche di concorrenza, ma soprattutto su un rigoroso controllo governativo del commercio internazionale e dei movimenti di capitale (Boyer & Saillard 2002). Dal punto di vista delle forme statali, il modo di regolazione fordista era caratterizzato dal ‘welfare state keynesiano’ (Jessop 1997), la cui caratteristica principale era quella di cercare di garantire la piena occupazione in un contesto di economie relativamente chiuse e di influenzare la distribuzione del reddito attraverso la regolamentazione della contrattazione collettiva, sostenendo così la crescita economica e garantendo livelli adeguati di domanda effettiva interna (Hein et al. 2015).
I modi di regolazione possono essere più o metro funzionali al regime di accumulazione prevalente. Essi, quindi, possono in alcune fasi favorire periodi di crescita stabili, ma possono anche contribuire a generare crisi e forme di riorganizzazione, cha e loro volta tenderanno a indurre cambiamenti profondi e strutturali nel sistema di regolazione richiesto (Boyer 1986, Bertoldi 1988; Rovida 1988).
I modi di regolazione capaci di sostenere in modo prolungato regimi di accumulazione capitalistica sono inoltre strettamente condizionati dal regime internazionale entro il quale operano, ovvero dall’insieme di regole e che governano i rapporti tra gli Stati, il loro commercio internazionale e i movimenti di capitali tra di essi. Tali regole, infatti, interagiscono e contribuiscono a determinare le forme istituzionali prevalenti in ciascun paese.
In questo contesto teorico, le politiche economiche keynesiane si configurano come parti integranti del modo di regolazione che ha permesso al regime di accumulazione fordista di uscire dalla lunga stagnazione causata dalla Grande Depressione degli anni ‘30 e di garantire un’accumulazione ininterrotta nei primi tre decenni del dopoguerra. Tuttavia, secondo i regolazionisti, le politiche keynesiane furono efficaci solo nel contrastare la disoccupazione determinata da una mancanza di domanda effettiva in una situazione di eccesso di produttività rispetto ai salari reali (Boyer 1986).
Il modo di regolazione fordista è riuscito quindi a svolgere il suo ruolo di sostegno dell’accumulazione capitalistica solo tra il 1948 e i primi anni ‘70. La crisi degli anni ‘70, secondo i regolazionisti, rappresenta di fatto il momento di esaurimento del regime di accumulazione fordista, dovuto allo sviluppo di nuove contraddizioni interne sul fronte della distribuzione del reddito tra salari e profitti (Boyer 1986). Il conflitto distributivo era infatti stato a lungo mitigato grazie agli extraprofitti monopolistici e a un continuo aumento della produttività, ottenuto intensificando la meccanizzazione dei processi produttivi. Ma la tendenza a ricorrere a processi produttivi sempre più capital intensive ha infine generato una crescita dello stock di capitale fisso tale da ridurre il tasso normale di profitto.
La crisi del regime di accumulazione fordista ha determinato anche la fine della sua specifica modalità di regolazione keynesiana, che aveva perso nel frattempo la sua efficacia e aveva infine contribuito a generare nuove contraddizioni interne (Lordon 2002). In particolare, le politiche di piena occupazione avevano contribuito a far aumentare i salari reali, riducendo ulteriormente la quota del profitto nel reddito nazionale e le prospettive di redditività dei nuovi investimenti.
3. La parabola dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno
A parere di chi scrive, lo schema interpretativo fornito dalla teoria della regolazione risulta utile anche per l’analisi e l’interpretazione della parabola dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e dei suoi effetti sulle modalità di sviluppo economico regionale dell’area e sull’evoluzione delle sue relazioni col resto del paese. I modi di regolazione sono infatti determinati anche dalle relazioni e dalle mediazioni che si instaurano tra i diversi gruppi di interesse presenti nel corpo sociale, nonché dalle forme della loro rappresentanza all’interno delle istituzioni dello Stato e dalla loro capacità d’incidere sull’azione di queste ultime.
Nelle pagine che seguono, si propone una lettura della parabola dell’intervento straordinario che cerca d’inquadrarla nel contesto dell’evoluzione del regime di accumulazione e del modo di regolazione fordisti, fondati entrambi su un ruolo strategico affidato ai mercati nazionali regolamentati che è venuto meno nella successiva fase di globalizzazione neoliberista.
3.1 Il primo decennio dell’intervento
L’avvio dell’intervento straordinario e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno furono di fatto il risultato del nuovo assetto economico che, nel quadro degli accordi di Bretton Woods, caratterizzò il nuovo ordine mondiale, sorto dagli esiti della Seconda Guerra Mondiale.
I nuovi interessi economici dominanti nel paese nell’immediato dopoguerra produssero infatti anche nuovi orientamenti dei principali centri nazionali di decisione economica, quali la Banca d’Italia e il Ministero del Bilancio. Tra la fine del 1946 e i primi mesi del 1947, mentre i principali interpreti della razionalizzazione capitalistica italiana postbellica, quali Menichella ed Einaudi, delineavano nuove impostazioni programmatiche che conferivano nuovi ruoli e nuove prospettive di sviluppo alle regioni meridionali, ‘l’intelligenza tecnica’ dell’IRI (Barucci 1978), di concerto con il ministro dell’industria Morandi e gruppi dell’imprenditoria settentrionale, procedette a istituire la SVIMEZ (D’Antone 1996; Cafiero 2000).
La SVIMEZ, negli anni ’50, si configurò di fatto, insieme con la Banca d’Italia, come il centro d’ideazione dei principali interventi di politica economica in Italia (D’Antone 1996) e divenne la fucina di un’intera generazione di economisti, influenzati dai nuovi stimoli culturali di provenienza anglosassone, che elaborarono una nuova percezione della ‘questione meridionale’ e un nuovo modo di concepire l’impegno meridionalistico, dando vita a ciò che è stato definito nuovo meridionalismo (Rossi-Doria 1970; Barucci 1978; Saraceno 2005; Forges Davanzati & Patalano, in corso di pubblicazione). Questo non solo aprì una nuova stagione di dibattito e di riflessione teorica, ma cercò di mettere in atto concrete politiche di sviluppo regionali, che furono non solo espressione dei nuovi orientamenti keynesiani, ma anche il frutto di una nuova visione, in cui lo spazio geografico, con le istituzioni e le forze sociali che in esso intervengono e contribuiscono a modellarlo, venivano viste come componenti essenziali delle dinamiche economiche (Fabiani & Scarano 2000). Dimensioni sociali e istituzionali che tendono oggi a essere fortemente sottovalutate negli approcci economicistici mainstream, fondati sulle nozioni di convergenza e di produttività.
Fu infine proprio la SVIMEZ che avviò l’interlocuzione con l’International Bank of Reconstruction and Development (IBRD) – nata nel contesto degli accordi di Bretton Woods come concretizzazione istituzionale degli orientamenti americani sul modo di affrontare i problemi di sviluppo economico delle aree depresse – al fine di finanziare un cospicuo piano di intervento pubblico nel Mezzogiorno d’Italia. L’IBRD accettò il progetto, ponendo come condizione ineludibile l’istituzione di un ente territoriale unico che, sul modello della Tennessee Valley Authority, impedisse la dispersione dei finanziamenti in una pluralità di rivoli di difficile controllo. Fu così che nacque la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale, nota da allora in poi come CASMEZ o Cassa del Mezzogiorno, e lo sviluppo economico di quest’area si avviò a configurarsi come un progetto tecnocratico, guidato dall’alto in funzione di interessi generali di carattere nazionale.
Il nuovo meridionalismo individuava lo Stato, in qualità di principale ente di direzione delle traiettorie di sviluppo di un’economia mista, come il principale soggetto anche della soluzione dei problemi del Mezzogiorno. Nell’ambito del nuovo regime di accumulazione fordista, che andava affermandosi in quegli anni in tutti i paesi industrializzati, la scelta dello Stato come soggetto dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno appariva del tutto in sintonia con il ruolo di complemento essenziale dell’iniziativa privata che esso andava assumendo nei sistemi di ‘economia mista’ di tutto l’occidente capitalista. E il fine ultimo dell’intervento era quello di utilizzare lo sviluppo economico del Mezzogiorno come leva per l’allargamento del mercato nazionale che era necessario allo sviluppo dell’apparato produttivo dell’intero paese, in vista della ripresa del commercio estero favorita dal nuovo assetto internazionale del dopoguerra.
Il primo decennio dell’intervento straordinario, gestito dalla Cassa del Mezzogiorno, fu però ispirato da un approccio più supply side che demand side. Esso fu infatti caratterizzato prevalentemente da grandi opere pubbliche di bonifica e da investimenti infrastrutturali, che, pur attivando flussi di domanda pubblica e contribuendo a incrementare i tassi d’occupazione nell’immediato, erano esplicitamente volti a creare le condizioni necessarie per un successivo sviluppo sia agricolo, sia industriale.
L’intervento infrastrutturale, però, pur potenziando in modo significativo la capacità produttiva del settore agricolo, non ebbe effetti di rilievo nello stimolo del settore industriale locale, fatta eccezione per il settore delle costruzioni, intorno al quale si formò un nuovo blocco sociale e politico che utilizzò il flusso esterno di risorse finanziarie per stabilire e rafforzare la propria egemonia economica e consolidare la sua capacità di governo politico dell’area (Fabiani & Scarano 2000).
3.2 La fase d’industrializzazione dall’alto
A partire dal 1957, la Cassa, facendosi interprete del progetto tecnocratico elaborato negli ambienti della SVIMEZ, avviò quindi una nuova fase di interventi che, nelle intenzioni originarie, avrebbero dovuto essere volti a creare un’industria meridionale capace di autosostenersi e di essere autopropulsiva (D’Antone 1996). Si manifestavano così, per la prima volta, orientamenti esplicitamente industrialisti nel modo di affrontare la ‘questione meridionale’, che si ponevano in netta contrapposizione con le visioni agricole e ruraliste che avevano caratterizzato le principali correnti del meridionalismo classico (Fabiani & Scarano 2000).
Ma l’intervento d’industrializzazione riuscì a trovare piena possibilità di attuazione solo nella misura in cui riuscì a farsi contemporaneamente interprete del bisogno di sostegno della domanda aggregata per i prodotti dell’industria settentrionale e delle più generali necessità del nuovo regime di accumulazione fordista e, soprattutto, a condizione di non creare nel Mezzogiorno poli di sviluppo che potessero entrare in concorrenza con le attività produttive settentrionali (Barucci 1978). Così, quando nel 1957 si passò dalla politica delle grandi opere pubbliche a carattere infrastrutturale a quella di una vera e propria industrializzazione guidata dall’alto, finì per prevalere quella che è stata poi definita la filosofia dello ‘sviluppo sbilanciato’ (Graziani 1979). Fu avviato, cioè, un processo di realizzazione di grandi impianti industriali, connotati poi in modo denigratorio come ‘cattedrali nel deserto’, insediati in aree ristrette e sotto il controllo quasi esclusivo delle partecipazioni statali.
Questi interventi ebbero indubbiamente un effetto positivo immediato sui livelli occupazionali delle zone d’insediamento, contribuendo a creare nuove figure professionali e sociali e favorendo rilevanti processi di crescita del reddito della domanda aggregata regionale. Ma non consentirono l’innescarsi di processi di sviluppo autopropulsivi, capaci di garantire il superamento dell’arretratezza e delle condizioni di dipendenza del Mezzogiorno.
Nel decennio tra il 1957 e il 1968, l’industrializzazione dall’alto di quest’area fu infatti effettuata prevalentemente in settori industriali di base, quali quello siderurgico e quello petrolchimico, che non erano in grado di stimolare un indotto locale e richiedevano flussi di materie prime che dovevano essere importate dall’estero. Secondo la stessa teoria dei poli di sviluppo, a cui l’intervento teoricamente si ispirava, i complessi industriali realizzati in questo periodo erano quindi poco adeguati a realizzare effetti di traino sull’economia locale. Nelle condizioni dell’industria manifatturiera meridionale, inoltre, non erano neppure in grado di fornire forward linkages, in quanto questi presuppongono un tessuto produttivo sviluppato che trovi ostacoli alla propria crescita in ‘colli di bottiglia’ sul fronte degli approvvigionamenti.
Questa fase dell’intervento straordinario coincideva però di fatto con l’avvio del Mercato Comune Europeo, di cui l’Italia era da poco entrata a far parte. La preoccupazione principale delle classi dirigenti nazionali era quindi quella di garantire un’adeguata competitività dell’industria italiana nel contesto del nuovo mercato europeo. Le forme d’industrializzazione del Mezzogiorno, conseguentemente, risposero all’esigenza di espandere rapidamente la base produttiva nazionale, finanziando con spesa pubblica l’espansione di quelle attività industriali di base che trovavano difficoltà a essere gestite dal capitale privato, sia a causa dell’entità degli investimenti richiesti dalle economie di scala, sia a causa di un loro più basso saggio del profitto. In questo quadro strategico, la localizzazione degli impianti di base nelle regioni meridionali forniva l’opportunità di rendere più giustificabile, sul piano dell’interesse generale, un ingente intervento di spesa pubblica a favore del sistema industriale settentrionale. L’intervento straordinario per il Mezzogiorno divenne così uno strumento di mediazione politica che incontrava il consenso sia delle lobby industriali del Centro-Nord, sia dei notabilati clientelari del Sud (Fabiani & Scarano 2000).
Nel frattempo, tra la metà degli anni ‘50 e i primi anni ‘70, si verificò nel Mezzogiorno una nuova ondata di emigrazione di massa che, diretta questa volta prevalentemente verso le regioni settentrionali del paese, non solo riproporzionò il rapporto tra capitale a lavoro nelle regioni del Sud, come auspicato da molti neomeridionalisti, ma determinò una nuova forma di integrazione funzionale tra Sud e Nord del paese, con il Mezzogiorno che fungeva da serbatoio di forza lavoro capace di moderare le dinamiche salariali dell’intero mercato del lavoro nazionale e di agevolare così i tassi di accumulazione delle regioni industrializzate (Fabiani & Scarano 2000).
3.3 Il declino finale dell’intervento straordinario.
L’esito finale di queste dinamiche fu che, alla fine degli anni ‘80, il Mezzogiorno non solo mostrava ancora un deficit di sviluppo economico e sociale, ma presentava anche tutte le caratteristiche di un’economia dipendente, che produceva solo una parte delle risorse necessarie a sostenere i suoi livelli di reddito e i suoi processi di sviluppo (Trigilia 1992; Bodo & Viesti 1997).
I livelli di reddito erano indubbiamente cresciuti, ma erano ampiamente sostenuti, più che dal vero e proprio intervento straordinario, da un ingente flusso di trasferimenti esterni, sostenuti dalla fiscalità generale del paese. Ciò era in parte fisiologico in un paese con forti squilibri regionali e dotato di un sistema di welfare, funzionale al regime di accumulazione fordista, fondato su imposte progressive e spese assistenziali proporzionali alla numerosità della popolazione (Bodo & Viesti 1997). Ma poiché in quegli anni, a causa delle tensioni legate alla stagflazione e alla crisi fiscale dello Stato (O’Connor 1973/2009), la politica fiscale del paese tendeva a fondarsi in modo crescente sul ricorso al debito pubblico, è chiaro che i trasferimenti al Mezzogiorno finirono per manifestarsi come uno dei principali problemi di sostenibilità di quest’ultimo.
Negli anni ‘80, il rapporto tra spesa pubblica e PIL regionale salì a un valore pari a 0,73, a fronte di un valore pari a 0,46 nel Centro-Nord. I finanziamenti pubblici mediati dalla Cassa per il Mezzogiorno sostennero i tassi di accumulazione al di sopra del 20% fino al 1992. Ma il flusso di spesa pubblica diretta verso le regioni meridionali assunse, nel suo complesso, prevalentemente la forma di sostegno diretto dei redditi e della capacità di consumo delle famiglie. I trasferimenti diretti alle famiglie raggiunsero, tra il 1988 e il 1992, un quinto del PIL meridionale, favorendo la formazione dei consensi politici delle reti clientelari (Bodo & Viesti 1997). Ma non furono sufficienti né ad eliminare il divario tra i livelli di consumo delle regioni meridionali e quelle del Centro-Nord, che si attestarono al 70% di quelli delle seconde, né a contrastare la crescente disoccupazione meridionale.
Fu infine la crescita esponenziale del debito pubblico e della spesa per interessi, divenuta insostenibile nel contesto del nuovo assetto neoliberista delle relazioni internazionali e degli interessi finanziari del paese, incarnati nei principi di convergenza di Maastricht, che innescò la crisi fiscale del modello di sviluppo italiano degli anni ’80, del quale i trasferimenti verso il Mezzogiorno erano diventati una delle componenti principali. Il blocco sociale che si era formato intorno alla mediazione politica che garantiva al Mezzogiorno ingenti flussi di spesa pubblica e al Centro-Nord il 90% degli interessi sul debito pubblico, fu messo in crisi dalla minaccia incombente della necessità di un massiccio aumento della pressione fiscale. Incalzati da un lato dalla necessità di una rapida riduzione del debito pubblico e dall’altro dalla minaccia di una rivolta fiscale, che assumeva toni regionalistici e secessionisti, i governi che rapidamente si succedettero tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 furono costretti a una drastica riduzione del disavanzo primario, tagliando le voci di spesa. Ed è chiaro che la prima vittima di tutto ciò, data la connotazione strettamente settentrionale della rivolta fiscale, non poteva che essere l’intervento straordinario per il Mezzogiorno.
La fine dell’intervento straordinario nel 1992, associato alla più generale contrazione della spesa pubblica, generarono una netta contrazione dei tassi di crescita dell’economia meridionale. Tra il 1991 e il 1993 il tasso di crescita del Pil passò dal 2,1% al -1,2%. Le importazioni nette, che sono una misura dei trasferimenti di reddito dall’esterno, scesero dal 20% al 16% del Pil per giungere al 14% nel 1996. Il rapporto percentuale tra Pil pro capite meridionale e quello del centro-Nord passò dal 59% al 55%. Il tasso di accumulazione subì a sua volta una netta contrazione, passando dal 21% del 1992 al 16% del 1996. Il tasso di disoccupazione, nonostante la revisione nei criteri di misurazione effettuata dell’ISTAT nel 1993, che rese la sua definizione più restrittiva, crebbe di almeno 3 punti percentuali tra il 1991 e il 1998 (Svimez 1999).
Conclusioni
L’intervento straordinario nel Mezzogiorno si configura quindi come parte integrante di un modo di regolazione che ha accompagnato e favorito un regime di accumulazione che è entrato definitivamente in crisi negli anni ’70 del secolo scorso e che è difficilmente riproponibile nell’attuale fase di evoluzione del capitalismo mondiale (Scarano 2023). Non esistono più oggi le condizioni sociali oggettive per una riproposizione delle sue forme e dei suoi metodi e nuove forme di intervento sarebbero concepibili solo in relazione a un nuovo regime stabile di accumulazione che ha trovato finora difficoltà ad affermarsi. Si possono però trarre alcuni insegnamenti dai limiti e fallimenti di questo intervento che si sono evidenziati nel momento stesso in cui esso era funzionale al regime di accumulazione dominante.
Innanzitutto, l’analisi dello sviluppo regionale, ovvero dei diversi modelli di sviluppo (o sottosviluppo) che caratterizzano aree e regioni diverse, non può essere adeguatamente affrontata con l’approccio economicistico che caratterizza le teorie della convergenza e della produttività. Lo sviluppo economico è infatti un processo eminentemente ‘sociale’, che può essere compreso e guidato solo a condizione di tenere in debito conto, oltre agli elementi prettamente economici, anche una più ampia gamma di variabili sociali, istituzionali e culturali. I territori regionali sono infatti ‘luoghi’ dove economia, società e politica interagiscono strettamente.
Anche se le traiettorie di sviluppo di un territorio sono in parte determinate dal sistema delle sue ‘relazioni interne’, come è stato ampiamente evidenziato dalla letteratura sui distretti industriali degli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, un ruolo fondamentale e a volte prevalente è giocato dal sistema delle relazioni esterne in cui ogni area territoriale si trova ad essere inserita, che la pone, a seconda dei casi, e in minore o maggiore misura, in condizioni di integrazione, di dominazione o di subordinazione (Fabiani & Scarano 2000). Per comprendere le potenzialità di sviluppo di una regione e proporre strategie di realizzazione delle stesse, non è quindi sufficiente analizzare le caratteristiche ‘interne’ di un sistema regionale, ma occorre cogliere il suo inserimento funzionale nel sistema di relazioni esterne, specie nel caso di regioni, come il Mezzogiorno, che hanno alle spalle une lunga e condizionante storia di relazioni interregionali di carattere economico, politico e sociale.
Ogni forma di cambiamento socioeconomico, endogeno o eterodiretto che sia, si sviluppa a partire da condizioni storicamente determinate, che sono il risultato di processi cumulativi e di brusche ‘rotture’. Esso può essere spiegato solo in una prospettiva storica che identifichi continuità e rotture dei rapporti sociali di produzione e di consumo specifici di ogni area territoriale, nel contesto del regime di accumulazione e del modo di regolazione dominante in ogni periodo storico. L’analisi dei processi di sviluppo economico regionale richiede quindi un’attenzione particolare al rapporto intercorrente tra regime di accumulazione e modo di regolazione, sia all’interno delle singole aree regionali, sia nei loro rapporti col contesto esterno.
In secondo luogo, dall’esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno si può trarre l’insegnamento che, anche se da un punto di vista keynesiano le forme della spesa pubblica possono teoricamente risultare irrilevanti per quanto concerne gli stimoli alla crescita nel breve periodo, quando si procede a ingenti impegni di spesa pubblica sarebbe anche sempre opportuno inquadrarli in una visione strategica di più lungo periodo, volta a creare condizioni di successivo sviluppo autopropulsivo.
Dopo aver rimosso, nel corso del suo primo decennio, nella fase della riforma fondiaria e della bonifica, gli antichi vincoli feudali posti a un moderno sviluppo capitalistico e aver consentito un processo di modernizzazione delle strutture sociali, l’intervento straordinario ha finito invece per favorire una sostanziale subalternità funzionale dell’intera area territoriale. Ciò non significa che esso non abbia conseguito l’obiettivo di aumentare la ricchezza disponibile e i livelli di reddito e con essi il ruolo della domanda aggregata del Mezzogiorno nello sviluppo del sistema nazionale (Forges Davanzati & Patalano, in corso di pubblicazione), ma che il contributo al sostegno della domanda aggregata ha favorito più lo sviluppo di altre aree del paese che lo sviluppo locale.
Le potenzialità di sviluppo di un territorio nel contesto della divisione nazionale e internazionale del lavoro non possono essere individuate mediante l’acritica applicazione di modelli troppo astratti e generali. Se, da un lato, la dimensione territoriale e locale può giocare un ruolo rilevante, essa va comunque contestualizzata nel sistema di relazioni esterne in cui ogni territorio è inserito e nelle dinamiche generali di evoluzione economica in atto. Le singole aree regionali possono assumere un proprio ruolo definito solo nel contesto delle relazioni esterne che le coordinano nel sistema di divisione nazionale e internazionale del lavoro.
Da questo punto di vista, il Mezzogiorno non può più essere considerato oggi, nel suo insieme, una semplice area produttiva arretrata e in ritardo di sviluppo, simile ad altre aree dell’Unione europea, come implicitamente presupposto negli approcci basati sulle teorie della convergenza e della produttività, quanto piuttosto un’area d’integrazione dipendente caratterizzata da forti squilibri interni (Fabiani & Scarano 2000).
L’integrazione dipendente non implica necessariamente maggiore povertà relativa, quanto piuttosto forme di assoggettamento di un’area territoriale a logiche eterodirette, che, in quanto tali, possono condurre a situazioni in cui i suoi interessi collettivi specifici vengono resi subalterni e funzionali a interessi esterni. Ciò implica che, quando gli interessi esterni cambiano, si possa assistere a un abbandono di tali aree al proprio destino, ormai inficiato dalle stesse condizioni strutturali che hanno regolato la subalternità funzionale. Quando un’area dipendente viene abbandonata a se stessa, quello che resta è un’arretratezza squilibrata, difficile da governare.
Inoltre, il Mezzogiorno non si configura oggi come una semplice area in ritardo di sviluppo solo a causa del retaggio della sua pregressa dipendenza funzionale, ma anche e soprattutto perché è un ampio insieme di aree arretrate contigue, poste congiuntamente all’estrema periferia del mercato europeo, penalizzate dalla distanza geografica sul fronte dei costi di trasporto, che rende più difficile il loro configurarsi come centri manifatturieri autonomi o inseriti in un sistema internazionale di subfornitura. In quanto tale il Mezzogiorno resta un’area unitaria, con una propria identità separata e con una problematica comune. Se infatti l’arretratezza territoriale contigua ad aree più sviluppate può generare possibilità di complementarità, l’arretratezza contigua all’arretratezza può generare solo isolamento (Fabiani & Scarano 2000). E ciò renderebbe ancora auspicabile un intervento esterno di rottura del trend, con investimenti infrastrutturali, analoghi a quelli del primo decennio dell’intervento straordinario, capaci di ridurre il gap creato dalla distanza geografica dai mercati europei trainanti.
Ma se il Mezzogiorno è posto alla periferia del Mercato europeo, esso è invece in una posizione strategica all’interno del Mediterraneo, che sta tornando a essere un canale strategico per le nuove rotte commerciali che congiungono l’Europa e l’Atlantico con l’Asia. Il Mezzogiorno potrebbe quindi oggi inserirsi efficacemente nelle reti logistiche che devono sostenere questi nuovi traffici. Ma ciò richiederebbe nuovamente ingenti investimenti di capitali e capacità progettuali che necessiterebbero di nuove forme di intervento pubblico su larga scala, almeno sul fronte del coordinamento, degli incentivi e della regolamentazione.
Nel contesto degli odierni orientamenti di regolazione europea e internazionale, purtroppo, non si intravvedono più le condizioni oggettive per una convergenza di interessi volta a favorire un intervento esterno su ampia scala nel Mezzogiorno. E ciò potrebbe anche non essere un fatto del tutto negativo, se gli interventi esterni, come in passato, avvengono solo al fine di generare una subalterna dipendenza funzionale.
Nel contesto nazionale odierno, però, la debolezza economica del Mezzogiorno sembra essere ridiventata un problema di carattere esclusivamente sociale, in quanto possibile fonte di instabilità politica. Ciò fa correre il rischio che i problemi del Mezzogiorno tornino a essere percepiti, come nella fase del primo meridionalismo classico, solo ed esclusivamente come un problema etico, intorno al quale versare fiumi di retorica, di lamentele e di invettive, prive di prospettive realistiche nel modificare gli assetti esistenti e volte solo a invocare e giustificare interventi assistenziali (Fabiani & Scarano 2000).
Si può quindi concludere che, senza dubbio alcuno, oggi continua a porsi una ‘questione meridionale’ sul fronte delle prospettive di benessere sociale delle popolazioni meridionali. Il Mezzogiorno è ancora un’area territoriale che necessiterebbe l’individuazione di una via di uscita dalle forme di dipendenza e di subalternità economica del passato. Tale via, però, può essere individuata solo mediante scelte coraggiose di ampio respiro e non mediante manovre di piccolo cabotaggio, volte ad accaparrarsi quote di fondi sociali europei destinati a contrarsi nel tempo, se non a sparire del tutto.
Da questo punto di vista, il vero nucleo della ‘questione meridionale’ risiede ancora oggi nel domandarsi se esiste la possibilità che emergano soggetti sociali, e quindi politici, interni al Mezzogiorno, capaci di farsi portatori di un progetto di ampio respiro e di interesse generale a livello locale.
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