La corsa al riarmo: i dati e le prospettive

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Paper

Leggi abstract

Secondo l’accordo siglato all’Aja il 24 giugno 2025, i paesi aderenti alla NATO (tranne la Spagna a cui è stata concessa maggiore flessibilità) sono obbligati ad aumentare le loro spese militari fino al 5% del PIL entro il 2035, ammontare suddiviso in due componenti: 3,5% destinato alla “difesa pura” (ad esempio, armamenti, ricerca e sviluppo), 1,5% destinato a investimenti più ampi nel campo della sicurezza, come la cyber sicurezza e le infrastrutture critiche (reti energetiche, telecomunicazioni). Questa scelta si inserisce nello scenario di una corsa al riarmo generalizzata e caratterizzata dall’esplosione di conflitti di lunga durata. É quindi necessario definire il quadro attuale delle spese militari, non solo tra i paesi aderenti al Patto Atlantico, cercando di evidenziare le caratteristiche dell’attuale corsa al riarmo, anche nel contesto delle scelte politiche compiute dall’Unione Europea e dei conflitti in corso in Ucraina e nel Medio Oriente. Una ricognizione preliminare dei dati, non facilmente reperibili perché dispersi in diverse fonti, è quindi necessaria per fornire un quadro oggettivo della situazione del riarmo (paragrafo 1). Occorre poi capire quali cause economiche e politiche spiegano la corsa al riarmo iniziata un decennio fa, e questo è l’oggetto del secondo paragrafo, che fornisce una rassegna critica di questa nuova fase della politica internazionale. Considerazioni finali concludono il lavoro.

Secondo l’accordo siglato all’Aja il 24 giugno 2025, i paesi aderenti alla NATO (tranne la Spagna a cui è stata concessa maggiore flessibilità) sono obbligati ad aumentare le loro spese militari fino al 5% del PIL entro il 2035, ammontare suddiviso in due componenti: 3,5% destinato alla “difesa pura” (ad esempio, armamenti, ricerca e sviluppo), 1,5% destinato a investimenti più ampi nel campo della sicurezza, come la cyber sicurezza e le infrastrutture critiche (reti energetiche, telecomunicazioni). Questa scelta si inserisce nello scenario di una corsa al riarmo generalizzata e caratterizzata dall’esplosione di conflitti di lunga durata. É quindi necessario definire il quadro attuale delle spese militari, non solo tra i paesi aderenti al Patto Atlantico, cercando di evidenziare le caratteristiche dell’attuale corsa al riarmo, anche nel contesto delle scelte politiche compiute dall’Unione Europea e dei conflitti in corso in Ucraina e nel Medio Oriente. Una ricognizione preliminare dei dati, non facilmente reperibili perché dispersi in diverse fonti, è quindi necessaria per fornire un quadro oggettivo della situazione del riarmo (paragrafo 1). Occorre poi capire quali cause economiche e politiche spiegano la corsa al riarmo iniziata un decennio fa, e questo è l’oggetto del secondo paragrafo, che fornisce una rassegna critica di questa nuova fase della politica internazionale. Considerazioni finali concludono il lavoro.

1. I dati

La situazione attuale dei paesi aderenti al Patto Atlantico è rappresentata dalla tabella 1, che mostra la percentuale del PIL investita in spese militari.

Tabella 1. Spesa per la difesa dei paesi NATO in percentuale del PIL (base indice dei prezzi 2015, stime 2024)
Fonte: NATO, 2024

In dieci anni, tra il 2014 e il 2014, la Polonia ha aumentato le sue spese militari in percentuale del PIL del 119%, l’Estonia del 77,7%, la Lettonia del 235%, solo gli Stati Uniti hanno diminuito la spesa dell’8,89% nello stesso periodo (tabella 2). Curioso il dato del piccolo Lussemburgo che registra il più alto incremento percentuale della spesa rispetto al PIL, con il 248% in dieci anni. Il riarmo di alcuni paesi dell’ex Patto di Varsavia (Lettonia, Lituania, Polonia) è ovviamente giustificato dalla percezione della minaccia russa, avvertita come un problema di difesa dell’indipendenza nazionale.

Tabella 2. Variazione della spesa militare in percentuale del PIL paesi NATO (2014-2024, base indice prezzi 2015, stima 2024)
Fonte: Elaborazione dell’autore su dati NATO, 2024

Se allarghiamo l’analisi oltre la NATO possiamo avere una percezione chiara della tendenza mondiale al riarmo nell’ultimo decennio (tabella 3). Il conflitto russo-ucraino ha avuto i suoi effetti sui due paesi ed in modo più marcato per Kiev che, nel 2024, è arrivato a destinare un terzo del suo PIL alle spese militari.

Tabella 3. Spesa per la difesa in percentuale del PIL, 2014 e 2024 (base indice dei prezzi 2015, stime 2024)
Fonte: SIPRI Military Expenditure Database

Le tabella 4 e 5 confrontano la situazione attuale con quella esistente alla fine della Guerra Fredda, all’inizio degli anni Novanta.

Tabella 4. Spesa per la difesa nei paesi NATO in percentuale del PIL, 1993 e 2024 ( in USD 2023)
Fonte: SIPRI Military Expenditure Database
Tabella 5. Spesa per la difesa in percentuale del PIL, 1993 e 2024 ( in USD 2023)
Fonte: SIPRI Military Expenditure Database

La tabella 6 mostra la percentuale per paese di spesa militare sul totale mondiale nel decennio 2014-2024, valutata in dollari USA a prezzi e tassi di cambio costanti del 2023. Il totale mondiale di spesa militare ammontava nel 2014 a circa 1.923 miliardi di USD e nel 2024 è aumentata a circa 2.670 miliardi di USD. Come si può vedere gli Stati Uniti mantengono il primato della spesa militare con il 43,34 % nel 2014, anche se ridotto al 37,21% nel 2024, mentre la Cina ha aumentato la propria quota di spesa militare. Russia Ucraina e Israele, sono casi a parte perché coinvolti direttamente in conflitti di lunga durata. É importante notare che la spesa militare globale nel 2024 ha raggiunto un massimo storico (tabella 7). Dopo una fase di leggero calo nei primi dieci anni successivi alla Guerra Fredda, la spesa militare mondiale è raddoppiata negli ultimi 25 anni e ha raggiunto il 2,3% del PIL globale nel 2023.

Tabella 6. Percentuale della spesa militare mondiale 2014 e 2024 per paese (dati in milioni di dollari  a prezzi e tassi di cambio costanti del 2023)
Fonte: SIPRI Military Expenditure Database
Tabella 7. Spesa militare mondiale in miliardi di dollari USA a prezzi 2023
Fonte: SIPRI Military Expenditure Database

Se se si considerano i dati in percentuale della spesa militare mondiale per area geopolitica (in miliardi di dollari USA a potere d’acquisto costante 2023) si nota come le zone di conflitto potenziale (Est Asia) o conclamato (Europa orientale e Medio Oriente) assorbono ovviamente rilevanti risorse per la spesa militare (tabella 8). Sorprende, invece, la quota di spesa militare dell’Europa Occidentale, cresciuta nel decennio 2014-2024 e giunta al 14% del totale mondiale, mentre il dato del Nord America è ovviamente determinato dal ruolo tradizionale degli Stati Uniti come potenza militare.

Tabella 8. Spesa militare per aree geopolitiche in percentuale del totale mondiale (dati in miliardi di USD a prezzi 2023)
Fonte: Elaborazione dell’autore su dati SIPRI Military Expenditure Database

L’evoluzione della spesa militare negli Stati Uniti è rappresentata dalla tabella 9 (in milioni di dollari USA a prezzi costanti 2023). Si può notare che raggiunge il suo picco nel 2011 e oggi si attesta a quasi 968 miliardi di USD.

Tab.9. Spesa militare degli Stati Uniti 1949-2024 (a prezzi 2023)
Fonte: SIPRI Military Expenditure Database

Per evidenziare il livello raggiunto dal riarmo in questi ultimo decennio si può proporre una comparazione con quanto accadeva alla vigilia della Grande Guerra e della Seconda Guerra Mondiale, come mostrano le tabelle 10 e 11, nelle quali è riportata la percentuale di spesa militare sul reddito nazionale (in miliardi di dollari) delle principali potenze mondiali rispettivamente nel 1912-1913 e nel 1937.

Tab.10. Spesa militare delle principali potenze mondiali in percentuale del reddito nazionale 1912-1913
Fonte: Ferguson, 1994: 154
Tab.11. Spesa militare delle principali potenze mondiali in percentuale del reddito nazionale (in miliardi di USD) nel 1937
Fonte: Kennedy, 1988: 332

Da questi dati si può comprendere come la richiesta di aumentare le spese militari al 5% del PIL, aprirà una corsa al riarmo generale. Se confrontiamo i dati riportati in tabella 3, si può notare che pochi paesi superano oggi la quota del 5% di spese militari sul PIL, in particolare quelli coinvolti in conflitti aperti, Ucraina (34,8%), Russia (7.05%) e Israele (8,78%) a cui si aggiunge l’Arabia Saudita, in un contesto geopolitico particolare (7,3%). Altri paesi potrebbero essere costretti ad una politica di riarmo per non trovarsi in svantaggio strategico, in particolare la Cina che, pur avendo enormi potenziali economici (la Repubblica Popolare Cinese ha il secondo PIL più alto dopo gli Stati Uniti) ha destinato al budget militare solo l’1,71% del suo reddito nazionale, mantenendolo sostanzialmente costante negli ultimo dieci anni.

Al riarmo NATO si è aggiunto il ReArm Europe Plan/Readiness 2030 che ha l’obiettivo di aumentare la spesa militare al 3,5% del PIL dell’Unione Europea entro la fine del decennio, mobilitando risorse per 800 miliardi di euro [1]. Attualmente  la spesa dei 27 Paesi membri dell’Unione Europea si attesta all’1,9% del PIL pari a circa 326 miliardi di euro di spesa, segnando un significativo incremento del 31% rispetto al 2021, per effetto ovviamente della guerra russo-ucraina.

La guerra avviata con l’invasione russa del febbraio 2022 è stato uno dei fattori principali del riarmo, non è errato affermare che i paesi dell’alleanza occidentale sono di fatto parte integrante di questo conflitto.

I dati aggregati, principalmente raccolti del Kiel Institute for the World Economy e pubblicati nella Ukraine Support Tracker, dimostrano il massiccio impegno occidentale nel conflitto in corso (tabella 12, dati in miliardi di euro, evidenziati in rosso gli aiuti militari).

Tab.12. Aiuti all’Ucraina dal gennaio 2022 al giugno 2025 (in miliardi di euro)
Fonte: Kiel Institute, Ukraine Support Tracker Data

Dal Gennaio 2022 al Giugno 2025, i paesi UE hanno definito accordi per aiuti militari pari a 89 miliardi di euro, mentre gli Stati Uniti hanno definito una cifra inferiore, pari a 65 miliardi di euro. In termini di aiuti finanziari, i paesi membri e le istituzioni dell’Unione hanno promesso aiuti per circa 103 miliardi di euro, mentre gli Stati Uniti per circa 50 miliardi di euro. Anche sugli aiuti umanitari l’impegno europeo è stato consistente con 13 miliardi di euro promessi, gli Stati Uniti poco più di 3 miliardi di euro. Sul piano concreto, sono stati effettivamente allocati effettivamente dall’Unione Europea (paesi ed istituzioni) circa 141 miliardi dei 205 miliardi promessi, mentre gli Stati Uniti hanno elargito agli ucraini 114 miliardi di euro dei 116 stabiliti (ha erogato il 98,2% degli aiuti promessi). L’Europa quindi deve ancora fornire il 31% degli aiuti promessi e questo impegno si aggiunge ai costi previsti per il piano di riarmo.

Ovviamente la guerra in Ucraina è solo una delle destinazioni della produzione di armi: la tabella 13 mostra la quota percentuale di armi pesanti pesanti esportate dai maggiori paesi produttori, rispetto al totale mondiale, tra il 2015 e il 2024;  la tabella 14 riporta invece la quota percentuale di importazioni di armi pesanti, rispetto al totale, per paese di destinazione, nello stesso periodo. Per entrambe le tabelle è indicata la variazione percentuale del volume totale di armi esportate e importante per ciascun paese nel decennio 2015-2024.

Tab.13. Esportazioni di armi pesanti in percentuale del totale mondiale per paese, 2025-2024, e variazione percentuale del volume totale di armi esportate nello stesso periodo
Fonte: SIPRI Fact Sheet, 2025; SIPRI Arms Transfers Database, March 2025
Tab.14. Importazioni di armi pesanti in percentuale del totale mondiale per paese, 2025-2024, e variazione percentuale del volume totale di armi esportate nello stesso periodo [2]
Fonte: SIPRI Fact Sheet, 2025; SIPRI Arms Transfers Database, March 2025

La destinazione dei flussi di esportazione e di importazione nel periodo 2020-2024 è un dato interessante per comprendere chi alimenta i maggiori teatri di guerra o le aree di tensione geopolitica. Nella tabella 15 sono indicate le principali destinazioni in percentuale delle esportazioni dei maggiori paesi produttori di armi. Gli Stati Uniti si presentano in una posizione anomale comparendo sia come esportatore, inviando armi in Arabia Saudita per il 12 % delle proprie esportazioni totali, per il 9,3% in Ucraina e per l’8,8% in Giappone, sia come importatore da Regno Unito e Israele.

Tab.15. Destinazione delle esportazioni dei principali paesi produttori in percentuale del totale (2020-2024)
Fonte: SIPRI Fact Sheet, 2025; SIPRI Arms Transfers Database, March 2025

La tabella 16 indica la percentuale sul totale importato dei principali paesi importatori

Tab.16. Principali paesi importatori e loro principali fornitori in percentuale del totale per ciascun paese (2020-2024)
Fonte: SIPRI Fact Sheet, 2025; SIPRI Arms Transfers Database, March 2025

La distribuzione regionale delle importazioni (tabella 17) rivela che nel periodo 2020-2024 il traffico di armi si è diretto in Europa in modo consistente, con un aumento di +17% rispetto al periodo 2015-2019, un effetto della guerra russo-ucraina ed una prova che il riarmo europeo è già in corso.

Tabella 17. Percentuale di importazioni di armi per area geografica (dati in milardi di dollari)
Fonte: SIPRI Fact Sheet, 2025; SIPRI Arms Transfers Database, March 2025

I dati raccolti dallo Stockholm International Peace Reserch Institute possono essere utili per individuare la tipologia di armamenti commissionati nel 2024 ai maggiori paesi produttori (tabella 18).

Tabella 18. Percentuale di importazioni di armi per area geografica (dati in milardi di dollari)
Fonte: SIPRI Fact Sheet, 2025; SIPRI Arms Transfers Database, March 2025

Il quadro dei dati tracciato resterebbe incompiuto senza un’analisi degli interessi economici coinvolti nel riarmo in corso, rappresentati dalle grandi corporate coinvolte.  La tabella 19 mostra i profitti (in miliardi di dollari a prezzi costanti 2023) per le 100 imprese produttrici di armi. Come si può notare l’ascesa dei profitti si è interrotta tra il 2011 e il 2014, per riprendere nel 2015, trainata prevalentemente dalla tensioni geopolitiche con la Russia.

Tabella 19. Profitti delle Top 100 arms-producing (in miliardi di dollari Usa a prezzi costanti 2023 (2002-2023)
Fonte: SIPRI Arms Industry Database

Nella tabella 20 mostra l’andamento dei ricavi (in milioni di dollari a prezzi costanti 2023) delle imprese produttrici di armamenti raggruppate per nazione nell’ultimo decennio. Come si può notare quello che negli anni Sessanta fu chiamato il complesso militare industriale degli Stati Uniti svolge ancora un ruolo centrale, con un fatturato di circa 309 miliardi di dollari, seguiti dalla crescita delle Cina (con un fatturato di 102 miliardi di dollari).

Tabella 20. Fatturato delle 100 principali imprese produttrici di armi raggruppate per nazionalità 2015-2023 (dati in milioni di dollari a prezzi costanti 2023)
Fonte: SIPRI Top 100 arms-producing and military services companies in the world database

La tabella 21 infine riporta il dettaglio delle principali imprese produttrici di armamenti e il loro fatturato nel 2022 (in milioni di dollari a prezzi costanti 2023).

Tabella 21. Fatturato delle  principali imprese produttrici di armi nel 2022 (dati in milioni di dollari a prezzi costanti 2023)
Fonte: SIPRI Top 100 arms-producing and military services companies in the world database

La tabella 22 mostra l’andamento del titolo della Lockheed Martin Corp, la maggiore impresa nella produzione di armamenti, nel New York Stock Exchange tra il 2014  il 2025, come si può notare il titolo ha avuto un trend di crescita passando in un decennio da circa 163 dollari ad un record di 546 dollari, aumentando il suo valore del 235%. In termini di capitalizzazione di mercato, Lockheed Martin è passata dai 46.81 miliardi di dollari nel 2014 a 114.60 miliardi a fine 2024. Oltre all’apprezzamento del valore delle azioni, la società ha anche aumentato i dividendi annuali per azione, passando da circa 6,27 dollari nel 2014 a 12.75 nel 2024, con un ulteriore incremento a 13,20 nel 2025.

Tabella 22. Andamento del titolo Lockheed Martin Corp dal febbraio 2014 all’agosto 2025 (NYSE, in dollari)
Fonte: Investing,com
2. Perché il riarmo

I dati raccolti nel paragrafo precedente mostrano che la corsa al riarmo è inziata sistematicamente dieci anni fa e nel 2024 la spesa in difesa ha raggiunto il massimo storico attestandosi su 2.670 miliardi di dollari (tabella 7). È lecito chiedersi, anche se pochi lo hanno fatto, quali siano le cause di questa consolidata corsa agli armamenti, in cui soprattutto i paesi dell’Alleanza Occidentale  sono impegnati.

Una prima, ma superficiale, spiegazione può essere la percezione del pericolo russo dopo l’invasione della Crimea (nel 2014) che ha condotto al conflitto attuale in cui i paesi occidentali sono direttamente impegnati fornendo all’Ucraina invasa finanziamenti e armi. L’Europa quindi è l’area dove si concentrerebbe una tensione geopolitica tale da giustificare un aumento della spesa militare. Il rapporto ReArm Europe Plan lo dichiara esplicitamente quando afferma: “È stata l’invasione non provocata dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 ad accelerare e intensificare [il dibattito europeo sul riarmo], aggiungendo urgenza e slancio” (European Parliamentary Research Service, 2025: 2). Se il riarmo europeo è motivato dal timore dell’aggressivo Orso Russo, nessuno sforzo finanziario potrebbe colmare il divario oggi esistente tra paesi dell’Unione e la Russia in termini di arsenale bellico. Riportiamo ancora una volta qualche dato. Innanzitutto in termini di potenziale di armi nucleari, come mostra la tabella 23, non c’è alcun paragone possibile. L’unico deterrente nucleare in possesso dell’Unione è quello francese, che è di fatto sotto il controllo nazionale e non è stato messo a disposizione di una difesa comune. Il deterrente nucleare britannico non appartiene più all’Unione.

Tabella 23. Armamento nucleare mondiale (Gennaio 2025)
Fonte: SIPRI Yearbook 2025: 9

Come si può notare il potenziale deterrente nucleare dell’Unione è appena il 5,3% di quello russo, se lo uniamo a quello inglese, l’Europa Occidentale può mettere in campo un potenziale pari al 9,4% di quello detenuto da Mosca. Questo significa che, nonostante che testate nucleari siano armi micidiali anche in quantità limitata, una deterrenza europea non esiste senza la protezione degli Stati Uniti entro l’Alleanza Atlantica [3]. Una politica di riarmo per essere tale dovrebbe puntare almeno a pareggiare la potenza dell’avversario russo, che oltre a possedere ingenti forze nucleari ha anche un divario in armi convenzionali e in uomini (tabella 24), anche se la guerra in Ucraina lo ha intaccato non marginalmente (le perdite di carri armati russi nel conflitto è stimata in 10.478). Anche dove l’Unione Europea raggiunge un pareggio o supera il potenziale rivale, l’assenza di un comando unificato, che non sia quello della NATO, rende non realistica la contrapposizione tra europei e russi.

Tabella 24. Armamento convenzionale dei principali paesi (2022)
Fonte: MB, 2023

Il tentativo di aprire un confronto militare con la Russia non può essere realisticamente una motivazione della corsa al riarmo europeo, ma solo una sua giustificazione politica. L’unica ratio può essere sintetizzata dall’antico e abusato motto latino si vis pacem, para bellum, per il quale il riarmo è lo strumento per innalzare il costo di un’aggressione al punto da renderla inaccettabile per qualsiasi avversario razionale, ma ovviamente nell’era nucleare una minaccia convenzionale non può avere lo stesso effetto di una deterrenza basata su un equilibrio di armi nucleari. Quindi il riarmo europeo non produrrà una deterrenza autonoma, ma solo un rafforzamento dell’Alleanza Atlantica come stabilito dall’accordo siglato all’Aja. 

Una vera corsa al riarmo, per la simmetria costituita dalla tipologia di arsenali, potrebbe svolgersi tra le due sponde del Pacifico, tra Stati Uniti e Cina. Nel 2022, la Cina ha superato gli Stati Uniti in termini di numero assoluto di navi da guerra, diventando la più grande marina militare del mondo per dimensione della flotta. Questa espansione è stata estremamente rapida perché la Cina ha costruito più navi in un anno rispetto all’intera industria navalmeccanica statunitense dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il confronto si estende anche ai missili balistici intercontinentali, settore in cui la Cina ha fatto grandi progressi, e nell’ambito della cibernetica e dell’intelligenza artificiale.

Questo confronto potrebbe generare uno scenario molto simile a quello che contrappose Gran Bretagna e Germania nel decennio precedente il primo conflitto mondiale. La Gran Bretagna, potenza navale dominante, si trovò a dover rispondere all’ambizioso piano dell’Impero Tedesco di costruire una grande flotta per contestare il suo primato e affermarsi come potenza mondiale. La competizione si focalizzò in particolare sulle navi da guerra più avanzate dell’epoca, le cosiddette Dreadnought-Class, un tipo di incrociatore da battaglia tecnologicamente superiore che stabilì un nuovo standard per l’architettura navale. Questo tipo di confronto è stato rappresentato in un modello matematico azione-reazione da Lewis Richardson, un fisico e psicologo britannico che per primo cercò di spiegare la dinamica a spirale della spesa militare secondo la quale i progressi di una nazione innescano una risposta da parte dell’avversario, portando a una continua escalation illimitata (Richardson, 1961). Il confronto tra Stati Uniti e Cina, che avviene non solo sul piano militare, ha assunto da tempo questa caratteristica a spirale.

Al di fuori di un confronto diretto tra due paesi, il riarmo generale potrebbe essere l’effetto di una crescente insicurezza del sistema di relazioni internazionali, seguito all’attentato al World Trade Center di New York dell’11 settembre 2001. Il sistema internazionale ha assunto caratteristiche anarchiche, per l’assenza di una autorità centrale in grado di garantire la sicurezza e in questo contesto ogni Stato deve provvedere alla propria difesa.  Tuttavia ogni incremento di spesa bellica in uno Stato viene percepito come una minaccia dagli altri Stati e questa reciproca percezione di pericolo innesca una spirale di insicurezza avviando una corsa generalizzata al riarmo diretta a ripristinare un equilibrio di potere. Il risultato finale è un ciclo infinito in cui ogni Stato cerca di aumentare la propria sicurezza, ma finisce per diminuire la sicurezza di tutti i contendenti scatenando reazioni simmetriche. Sebbene questo concetto, indicato come “dilemma della sicurezza” in un saggio seminale di John Herz (1950),  sia stato delineato nel contesto della Guerra Fredda, il suo meccanismo logico può essere applicato anche alla attuale competizione militare, soprattutto per alcune aree, come l’Europa Occidentale, in cui la percezione di un deficit di sicurezza è ormai consolidata.

Per una parte degli studiosi il crescente riarmo generalizzato conduce necessariamente ad un conflitto conclamato, seguendo l’esperienza delle due guerre mondiali o delle “guerre per procura”, combattute durante la Guerra Fredda, ma come dimostra l’approccio del “realismo contingente” di Charles Glaser (1994) l’esito di una corsa agli armamenti non necessariamente conduce ad un conflitto, vi è sempre una scelta tra la competizione, caratterizzata da un accumulo unilaterale di armi, e la cooperazione, attraverso accordi per evitare le corse agli armamenti, che è dettata da un calcolo dei rischi e dei benefici. Sia la competizione che la cooperazione sono considerate azioni intraprese da uno Stato per garantire la propria sicurezza. Un Paese può infatti spingere un avversario a cooperare dimostrandogli di essere in grado di sostenere il costo di una corsa agli armamenti, rendendo la cooperazione una scelta più desiderabile. In questo senso, la logica della deterrenza e quella della spirale si sovrappongono: la ricerca della sicurezza, in un ambiente di incertezza, può portare sia a una competizione distruttiva che a una cooperazione forzata.

L’insicurezza potrebbe anche attivare meccanismi economici, in quello che è stato chiamato “capitalismo della sorveglianza”, delineato da Shoshana Zuboff (2019), in cui l’aumento delle spese militari non sarebbe tanto una risposta a minacce reali, quanto una strategia per alimentare un ciclo di insicurezza che giustifica ulteriori investimenti nel settore della difesa.

Una spiegazione più complessa può richiamare la relazione esistente tra politica di riarmo e interessi economici, relazione che è a fondamento della teoria dell’imperialismo.

Come è noto fu l’economista inglese John Atkinson Hobson (1902 [1996]) a definire questa teoria, avviando una vera tradizione di pensiero che attraverso la revisione critica di Vladimir Lenin (1916 [1973]) ha fortemente influito sul marxismo contemporaneo.

Secondo Hobson la politica imperialistica era dettata dall’esigenza di individuare aree di investimento profittevoli per il capitale in eccesso, in particolare in paesi arretrati, con costi del lavoro bassi, rendimenti elevati e risorse sfruttabili [4]. Questo tipo di politica era adottata su pressione dei grandi gruppi finanziari e industriali [5]. La politica di riarmo era una conseguenza dell’espansione imperialistica: per garantire la sicurezza degli investimenti all’estero e per proteggere le rotte commerciali, le potenze imperiali aumentavano le spese militari. Per Hobson la corsa agli armamenti era quindi funzionale agli interessi imperialisti, e creava un circolo vizioso in cui la politica di espansione coloniale alimentava il militarismo, e viceversa [6].

La teoria di Hobson stabilisce quindi un legame tra militarismo e interessi particolari di gruppi  sociali industriali e finanziari [7].  Questo intricato legame tra la spesa per gli armamenti e il potere economico fu denunciato dal presidente americano Dwight D. Eisenhower, che nel 1960 coniò la celebre espressione “complesso militare-industriale”, per descrivere una potente struttura trasversale che unisce in una sinergia di interessi i produttori di armi, i politici, gli accademici e i ricercatori universitari, tutti allineati per indirizzare la spesa pubblica verso l’industria bellica e la ricerca di nuovi sistemi d’arma.

Un’espressione che ha avuto larga fortuna negli studi sul militarismo soprattutto negli approcci eterodossi. In particolare, l’economista pacifista, Seymour Melman, ha approfondito il tema del complesso militare-industriale, in importanti studi negli anni Settanta (Melman, 1970. 1971). Secondo questo approccio gli Stati Uniti negli anni sessanta hanno sviluppato una nuova forma di capitalismo di Stato, definito “capitalismo del Pentagono”, in quanto caratterizzato dal ruolo del Pentagono non più come semplice acquirente di beni militari, ma come gestore centrale di un vasto impero industriale per la produzione di beni e servizi, dai sistemi d’arma alla ricerca e sviluppo, assumendo le funzioni di un organo di pianificazione. Questa struttura economica avrebbe generato una economia di guerra permanente, in cui la spesa militare diventa una parte costante dell’economia nazionale, indipendentemente dal fatto che il paese sia effettivamente in guerra. Questo sistema soffocherebbe l’innovazione e limiterebbe il potenziale di crescita economica civile, e sarebbe inoltre intrinsecamente inefficiente, in quanto l’attenzione alla produzione militare condurrebbe a una diversione di risorse e capitali dal settore civile, privilegiando le prestazioni e la complessità tecnica rispetto ai costi e all’efficienza.

Dalla guerra in Afghanistan e Iraq in poi gli interessi economici legati al Pentagono sono di nuovo diventati centrali, dopo una pausa dovuta alla fine della Guerra Fredda e alla politica di alcune  amministrazioni democratiche. I dati dimostrano che appunto dal 2002 la spesa militare negli Stati Uniti è in continua ascesa, fino a raggiungere il massimo storico negli ultimi anni. Seppure il ruolo del Pentagono non è quello di un organo pianificatore dell’intera economia americana, esso assume comunque una funzione economica rilevante, come dimostra il budget del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che è il più consistente al mondo, avvicinandosi nel 2024 a 1.000 miliardi di dollari. Inoltre il Dipartimento della Difesa è il più grande datore di lavoro al mondo, con circa 3,2 milioni di dipendenti, includendo personale militare attivo, riserve e impiegati civili, generando un indotto ancora più elevato di milioni di persone, ma difficilmente calcolabile. I contratti assegnati dal Dipartimento della Difesa alle aziende private costituiscono un indicatore chiave del suo impatto economico. Nel 2023, i contratti della difesa hanno superato i 450 miliardi di dollari, sottoscritti prevalentemente con cinque grandi corporate: Lockheed Martin (con oltre 64 miliardi di dollari di ricavi dal settore della difesa); RTX (ex Raytheon Technologies, 40 miliardi di dollari); Northrop Grumman (35 miliardi di dollari); General Dynamics (33 miliardi di dollari); Boeing Defense ( 32 miliardi di dollari).

Ovviamente la corsa al riarmo ha solo effetti sulla struttura produttiva, ma influenza anche i mercati finanziari, rendendoli un terreno fertile per movimenti speculativi. Dall’inizio del 2022 fino alla fine del 2024, i titoli delle principali aziende produttrici di armi e del settore della difesa hanno mostrato un andamento generalmente molto positivo sui mercati finanziari. Il più grande produttore di armamenti al mondo, la Lockheed Martin ha registrato una crescita notevole (tabella 22). Il suo titolo ha visto un aumento significativo nel 2022 (+37,29%), trainato dalla domanda di aerei da combattimento F-35, missili Javelin e altri sistemi. La crescita è continuata anche nel 2023, seppur con un rallentamento (-5,09%), e ha ripreso nel 2024 (+6,54%) soprattutto trainata dalla guerra in Ucraina. La Northrop Grumman (USA), un’azienda, specializzata in sistemi aeronautici, spaziali e di cyber security, ha beneficiato in particolare della domanda di bombardieri B-21 e di sistemi per la difesa missilistica, e il suo titolo ha registrato una forte crescita nel 2022 (+40%), subendo una leggera flessione nel 2023, per poi stabilizzarsi Anche le aziende europee hanno avuto performance molto positive: La tedesca Rheinmetall ha visto una delle crescite più esplosive nel settore, con un aumento delle azioni superiore al 1000% dal 2022. Questa performance è stata guidata dalla decisione del governo tedesco di aumentare drasticamente la spesa militare e di investire nella modernizzazione delle forze armate. Per citare altri esempi, il titolo dell’azienda britannica BAE Systems ha registrato una crescita notevole nel periodo considerato, con un aumento di quasi il 79% nei due anni precedenti l’agosto 2025, grazie a contratti per fregate, aerei da guerra e sottomarini. Infine l’italiana Leonardo ha anch’essa registrato un andamento molto positivo, con una crescita delle azioni di circa il 609% dal febbraio 2022 (indicativo di una crescita eccezionale). L’azienda ha beneficiato dell’aumento della spesa per la difesa in Italia e in Europa, rafforzando la sua posizione nel settore degli elicotteri, dei sistemi elettronici e degli aerei da combattimento.

In questo contesto la forte attrattiva dei titoli di impresa impegnate nel riarmo può alimentare ondate speculative. Gli investitori, inclusi i grandi fondi istituzionali, sono incentivati ad acquistare queste azioni, scommettendo su un loro ulteriore aumento di valore nel breve o brevissimo termine. Questo genera un’impennata dei prezzi non sempre giustificata da progressi produttivi o scientifici, ma piuttosto dall’aspettativa di futuri profitti legati ai conflitti e alla sicurezza internazionale. La logica speculativa può portare alla formazione di una bolla finanziaria nel settore della difesa. L’irrazionalità e l’emotività del mercato, alimentate da un clima di tensione e dalla promessa di facili guadagni, spingono i prezzi delle azioni a livelli insostenibili, che rischiano di crollare bruscamente se le condizioni geopolitiche dovessero cambiare o se la crescita effettiva non dovesse corrispondere alle aspettative.

Alcune analisi suggeriscono che la scelta di puntare sul riarmo, in particolare in Europa, abbia un obiettivo prettamente finanziario: far salire il prezzo dei titoli del settore della difesa e attrarre capitali, creando un “capitalismo di guerra”. In questo modello, la produzione militare diventa non solo una industria, ma un vero e proprio sistema finanziario su cui speculatori e grandi fondi di investimento e banche giocano un ruolo cruciale, orientando le loro strategie verso il settore degli armamenti e facilitando la speculazione. Inoltre, l’aumento della spesa pubblica per la difesa può portare a una maggiore volatilità sui mercati finanziari, e a un aumento del debito pubblico, specialmente per i Paesi già indebitati come l’Italia. Questo può a sua volta aumentare il premio per il rischio sui titoli di Stato, rendendo più costoso per i governi finanziare le loro attività, ma avvantaggiando le posizioni di rendita finanziaria.

Questo tema della finanziarizzazione bellica introduce il problema dello spreco connesso alla spesa militare, al centro della teoria del surplus di Paul Baran e Paul Sweezy, definita in Monopoly Capital (1966). In questa ipotesi la spesa militare è un mezzo per assorbire surplus economico in eccesso ed evitare crisi di sovrapproduzione del sistema capitalistico, fondato sui grandi monopoli. La spesa militare è considerata un meccanismo ideale perché: i) non produce beni di consumo o di investimento e quindi non crea ulteriore offerta che andrebbe a saturare i mercati di beni civili; ii) non crea un’offerta “produttiva” in senso capitalista, in quanto i beni militari (aerei, missili, navi da guerra) non rientrano nel ciclo di riproduzione del capitale; iii) è politicamente accettabile, in quanto è un tipo di spesa che ottiene ampi consensi politici e non incontra le stesse resistenze nella classe dirigente di altre forme di spesa pubblica (ad esempio, per i servizi sociali): iv) infine è illimitata, perché a differenza della spesa per infrastrutture o istruzione, che ha dei limiti pratici, la corsa agli armamenti e il mantenimento di un vasto apparato militare possono giustificare spese enormi e in continua crescita. Tale linea di ricerca è stata sviluppata anche da Paul Mattick (1956) e Michael Kidron (1967, 1970) per spiegare il lungo boom economico post-bellico nel capitalismo occidentale. La tesi principale era che la spesa militare su larga scala, pur non producendo beni che entrano nel ciclo produttivo, ha agito come una valvola di sfogo per il surplus di capitale, contribuendo così a prevenire le crisi di sovrapproduzione e a sostenere la crescita economica.

In sostanza, la spesa militare non serve solo a scopi strategici o di difesa, ma è una necessità economica del capitalismo monopolistico per mantenere alti i livelli di domanda aggregata, sostenere l’occupazione e scongiurare la crisi di stagnazione che deriverebbe dall’eccessivo surplus. Tali tesi sono sostenute oggi dalla rivista americana Monthly Review per interpretare le dinamiche economiche globali, inclusa la crescente spesa militare.

L’ipotesi di Baran e Sweezy riprende molti temi dal dibattito degli anni Sessanta sul cosiddetto keynesismo militare come strumento per risolvere crisi cicliche del capitalismo. Un concetto che ha trovato fondamento storico nella grande mobilitazione per la guerra che effettivamente pose fine alla Grande Depressione negli Stati Uniti e in Germania, portando alla piena occupazione e a una forte crescita economica.

Diversi studiosi e analisti economici sostengono oggi che il riarmo attuale, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, possa essere interpretato come una forma di keynesismo militare. In un contesto di crisi economica, bassa crescita e crescente instabilità geopolitica, la spesa militare massiccia sarebbe utilizzata dai governi come uno strumento per stimolare l’economia, creare occupazione e rilanciare l’industria. Alcuni studiosi, come James M. Cypher (2022), Michael Roberts (2025), Robert Skidelsky (2025), Luciano Vasapollo (2020) e il celebre linguista e attivista politico Noam Chomsky, denunciano un passaggio progressivo da un modello di welfare state, basato sulla spesa per i servizi pubblici, a un warfare state, dove la spesa militare assume un ruolo centrale. Questo spostamento di risorse è visto come una soluzione per i governi che, pur non volendo o potendo attuare politiche economiche espansive tradizionali, trovano nella sicurezza nazionale una giustificazione politicamente accettabile per spendere ingenti somme di denaro pubblico [8].

I dati disponibili, tuttavia, non giustificano un uso della spesa militare in funzione anticiclica: nel medio-lungo periodo, le decisioni sulla spesa militare sono state influenzate più da considerazioni strategiche e di sicurezza che non da motivazioni puramente economiche. Le nazioni vedono la spesa per la difesa come un investimento prioritario, anche a scapito di altre voci di bilancio, specialmente in periodi di crescente incertezza e conflitto.

Una tesi particolare sul rapporto tra politica di riarmo e suoi effetti economici è stata proposta da Paul Kennedy alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, alla vigilia del crollo dell’Unione Sovietica e della fine della Guerra Fredda (Kennedy, 1988). Secondo Kennedy la spesa militare, sebbene necessaria per mantenere un livello di sicurezza, può trasformarsi in un fattore di declino se eccede la capacità produttiva dell’economia nazionale. Un’eccessiva allocazione di risorse per le forze armate, la produzione di armamenti e il mantenimento di basi militari all’estero drena investimenti che altrimenti sarebbero destinati all’innovazione, alla ricerca e sviluppo e al miglioramento della produttività civile. Questo porta a una lenta ma inesorabile erosione della base economica della nazione, che perde competitività rispetto ad altre potenze emergenti suoi concorrenti. La tesi di Kennedy è basata sull’evoluzione dei grandi imperi che, raggiunto il culmine della loro potenza militare, cominciarono un inesorabile declino economico. Questa parabola evolutiva fu attraversata dall’impero spagnolo, nel XVII secolo, dalla potenza francese di Luigi XIV, dalla Gran Bretagna vittoriana, fino a giungere al crollo dell’Unione Sovietica. Kennedy applica la sua tesi anche agli Stati Uniti, suggerendo che il paese, pur essendo la superpotenza dominante dopo la Seconda Guerra Mondiale,  cade nella stessa trappola della sovra-estensione imperiale, per l’enorme spesa per la difesa, il mantenimento di alleanze globali e l’impegno in conflitti hanno eroso lentamente erodendo la competitività economica americana, in particolare rispetto a Giappone,  la Germania e soprattutto Cina.

Un’altra tesi più recente sul rapporto tra riarmo, conflitti conclamati e declino economico delle grandi potenze è stata definita da Emiliano Brancaccio a partire dall’appello “Le condizioni economiche per la pace” (pubblicato nel febbraio 2023 dal Financial Times), redatto con l’autorevole collaborazione di Robert Skidelsky, a cui hanno aderito importanti esponenti della comunità accademica internazionale. Le tesi contenute nell’appello erano già apparse in un saggio, La guerra capitalista, redatto da Brancaccio in collaborazione con Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, nel 2022, subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, e riprese poi nella raccolta pubblicata nel 2024 con lo stesso titolo dell’appello (Brancaccio – Giammetti – Lucarelli, 2022; Brancaccio, 2024). Come sottolinea lo stesso autore, la tesi è “una proposta inedita di collegamento tra alcune intuizioni di Marcello De Cecco, Barry Eichengreen, Giovanni Arrighi e altri sui rapporti tra regime finanziario e crisi dell’ordine mondiale, e i più avanzati studi marxisti sulla tendenza del cosiddetto capitalismo imperialista verso lo scontro militare” (Brancaccio, 2024: 10). Questa sintesi offre una chiave di lettura per questa nuova fase del capitalismo mondiale che è in gran parte l’effetto dello squilibrio eccezionale in cui versa l’economia degli Stati Uniti,  la potenza egemone, causata dalla perdita della sua competitività, esplosa con particolare gravità dopo la crisi del 2008. Il segno di questo declino è dato dall’accumulo continuo del deficit commerciale nei confronti della Cina soprattutto. L’approfondirsi del divario delle due economie e il timore di centri capitalistici statunitensi di perdere il controllo strategico di assets nella inarrestabile corsa alla centralizzazione di capitali che spingerebbe i cinesi e altri creditori ad acquisire pacchetti di controllo di aziende statunitensi (Brancaccio, 2024: 11) [9]. Da questa grande paura nascerebbe la svolta protezionistica americana degli ultimi decenni, che lentamente si è fatta strada emarginando il credo liberoscambista. Nei loro rapporti commerciali, gli Stati Uniti hanno praticato il friend shoring, stabilendo rapporti privilegiati con paesi ritenuti amici a svantaggio dei pericolosi concorrenti, “elevando barriere commerciali e finanziarie, il grande debitore statunitense mira soprattutto a proteggersi contro il rischio di acquisizioni di capitali in mani estere averse” (Brancaccio, 2024: 12) [10]. Tale politica, spesso giustificata ideologicamente dalla necessità di isolare regime autocratici e illiberali, tenta di costruire un nuovo ordine internazionale sempre fondato sulla centralità statunitense, ma induce gli esclusi, i creditori orientali, a cui è impedito di esportare capitali e merci, “a una sorprendente reazione militare” per conquistare spazi nel disordine mondiale.

La tesi sostenuta da Brancaccio e dai suoi collaboratori di ricerca, è senz’altro degna di nota soprattutto perché tenta di colmare una grave lacuna epistemologica nel dibattito scientifico contemporaneo sul riarmo, in cui prevale una visione frammentata, parziale, incapace di definire un quadro interpretative dove collocare avvenimenti apparentemente contraddittori, ma che hanno una coerenza storica e logica, che deve essere svelata [11]. L’analisi di Brancaccio costituisce un valido punto di partenza, soprattutto dal punto di vista metodologico, per il tentativo di definire ed enunciare leggi di tendenza, riprendendo il contributo più importante che il marxismo ha lasciato al pensiero economico contemporaneo, purtroppo ignorato dalla generale vulgata del mainstream.

Tuttavia non si possono non evidenziare alcuni punti critici dell’analisi proposta da Brancaccio, emersi soprattutto negli ultimi tempi. Innanzitutto la politica protezionista sostenuta dalla nuova amministrazione di Donald Trump si rivolge anche agli alleati occidentali, soprattutto quelli dell’Unione Europea, accusati addirittura di sottrarre fraudolentemente ricchezza agli americani. Il dazio medio del 15% imposto alle importazioni di merci europee, non è stato certo favorevole, e la rinuncia europea a definire una risposta appare come una resa per evitare ulteriori danni. Il Canada, fedele alleato di Washington, oltre alle minacce di annessione, ha subito anche un dazio medio del 25%, che appare ingiustificato visto che l’esempio di area monetaria ottimale descritto da Robert Mundell è proprio l’area integrata dei Grandi Laghi. Un analogo dazio del 25% è stato imposto al Messico, non certo un nemico degli Stati Uniti. Di contro l’amministrazione Trump ha ridotto i dazi nei confronti di importazioni cinesi dal 145% al 30% (mentre la Cina ha abbassato le sue tariffe sui prodotti americani al 10%). Infine dazi del 15% sono stati applicati alle esportazioni di Giappone e Corea del Sud, tradizionali e importanti alleati nel Pacifico. Inoltre seguendo la tesi di Brancaccio, il paese che avrebbe dovuto iniziare una politica di reazione e aggressività militare avrebbe dovuto essere la Cina, in quando maggior creditore svantaggiato, e invece la questione di Taiwan resta allo status quo e anzi sulla scenario della politica mondiale la Cina si propone come attore di mediazione, pur mantenendo le sue scelte strategiche e i suoi rapporti privilegiati con la Russia. Infine la componente del debito pubblico degli Stati Uniti detenuta dalla Cina mostra una consolidata tendenza alla riduzione, passando da 1.316,7 miliardi di dollari della fine del 2013 ad una cifra tra i 750 e 780 miliardi di dollari del 2024 [12]. Se consideriamo poi gli investimenti diretti negli Stati Uniti da parte della Cina, il massimo storico è stato raggiunto nel 2016 toccando circa 48 miliardi di dollari. A partire dal 2018, si è verificato un drastico calo degli investimenti cinesi negli Stati Uniti, dovuto certamente alle restrizioni imposte dalla prima amministrazione Trump e alle dispute sulla proprietà intellettuale, ma anche per i controlli più severi sulla esportazione di capitali, introdotti dal governo cinese per motivi di stabilità economica interna [13]. Un ulteriore elemento critico riguarda il problema del deficit degli Stati Uniti il cui andamento è strettamente legato alla funzione del dollaro come moneta mondiale. Le politiche di Trump hanno avuto l’effetto di indebolire la divisa americana intaccando la sua funzione di riserva di valore internazionale (da gennaio 2025 il dollaro ha perso il 13,7% rispetto all’euro). In sintesi un miglioramento del deficit esterno degli Stati Uniti condurrebbe a ridurre la sua egemonia monetaria, e questa prospettiva è una della tante contraddizioni della politica dell’amministrazione Trump [14].

3. Conclusioni

Il riarmo ormai è una realtà consolidata della politica internazionale, alla sua radice vi sono senz’altro motivazioni di ordine economico, ma anche di moventi diversa natura, espressione di particolari condizioni storiche, sociali e religiose.

All’inizio del nuovo millennio, l’ordine internazionale costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale, fondato sulla centralità delle Nazioni Unite, è stato progressivamente delegittimato, e l’attuale assetto delle relazioni internazionali si avvicina più alla situazione precedente la Prima Guerra Mondiale, in cui le potenze mostrano una crescente aggressività, senza alcun meccanismo di autorità sovranazionale che possa ricondurre entro una dimensione cooperativa la gestione dei conflitti.

Il primo colpo al sistema delineato alla Conferenza di San Francisco (aprile e giugno 1945)  è stato sferrato dall’amministrazione statunitense di George Bush Jr. con la guerra in Afghanistan e Irak nel 2001-2003, che sono state giustificate non da un mandato delle Nazioni Unite, ma sulla base del diritto all’autodifesa (articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite) e alcune risoluzioni che hanno riconosciuto il terrorismo come una minaccia. La Prima Guerra del Golfo (1990-1991) fu l’ultimo conflitto condotto da una vasta coalizione internazionale in base ad un chiaro e formale mandato delle Nazioni Unite (Risoluzione 678). I conflitti combattuti durante la Guerra Fredda erano crisi interne alle sfere di influenza che erano strategicamente utilizzate da Stati Uniti e Unione Sovietica per allargare o difendere la propria area di egemonia.

Le attuali politiche imperialistiche sono molto simili a quelle che caratterizzarono il periodo precedente la Prima Guerra Mondiale, in quanto adoperano gli stessi strumenti: i. difesa degli interessi economici nazionali attraverso il protezionismo (con diverse motivazioni) e la difesa dei settori di importanza strategica per la sicurezza nazionale; ii. uso della forza militare per regolare conflitti in aree geografiche ritenute di interesse strategico; iii. espansione territoriale [15]; iv. costruzione del consenso interno attraverso politiche di tipo bonapartista, fondate su mandati elettorali di tipo plebiscitario ed istituzioni governative orientate in senso autoritario.

In un recente suo contributo, Ernesto Screpanti ha distinto nella politica di relazioni internazionali “una spinta economica e un’autonoma spinta politica cioè da una propensione del capitale all’accumulazione nei mercati esteri e una propensione dei ceti politici all’estensione degli imperi. Nel vecchio imperialismo otto-novecentesco la spinta economica predominava. Si veniva a creare un rapporto di simbiosi tra politici e capitalisti, l’azione degli uni risultando funzionale a quella degli altri, e l’accumulazione del capitale da parte delle imprese guidava l’azione dei politici […]. Quando il predominio della spinta economica all’espansione capitalistica genera problemi all’azione politica dello stato, le classi dirigenti possono reagire tentando di far prevalere la spinta politica su quella economica, l’azione dello stato su quella del capitale. Ciò è accaduto in seguito alla grande crisi del 2007-9. Nella quale, tra le altre cose, è emerso con chiarezza il conflitto d’interessi tra ceti politici e ceti economici. È proprio questa crisi che ha determinato la commutazione di predominio tra spinta economica e spinta politica all’imperialismo.” (Screpanti, 2025: 16).

Occorre tuttavia osservare che la spinta politica fu prevalente anche nella prima fase dell’imperialismo, mentre nel dopoguerra, nella fase delle cosiddetto neo-colonialismo o neo-imperialismo, fu prevalente la spinta economica. L’analogia tra il primo imperialismo e questa nuova fase di confronto imperialistico è definita dalla prevalenza del momento politico che guida gli interessi economici nazionali. Tuttavia, a differenza del primo imperialismo, il confronto, seppur serrato, non potrà mai sfociare in uno scontro diretto di tipo nucleare tra le grandi potenze in quanto, come è ovvio, i costi supererebbero nettamente i benefici.

La politica neo-imperialista del dopoguerra che utilizzava strumenti indiretti di tipo economico e culturale in un contesto di libero scambio, culminato nella globalizzazione, è oggi completamente superata. Il moderno imperialismo ha riscoperto l’uso della forza militare come braccio della politica, del controllo diretto dei territori e la protezione dei propri interessi economici [16]. Esso ha molti elementi di affinità anche con il modello imperialistico sovietico attuato durante la Guerra Fredda, che puntava all’espansione della propria sfera di influenza politica con la creazione di Stati satelliti e annessioni territoriali. Le dichiarazione del presidente Trump in merito ad annessioni di Canada, Groenlandia e Panama, sono un esempio dell’adozione di questo  modello.

Paradossalmente l’età della globalizzazione ha prodotto la sua antitesi, il ritorno di una logica di interesse nazionale, mettendo in crisi tutti i progetti di cooperazione internazionale, a cominciare dal processo di integrazione europea che appare oggi fortemente indebolito [17]. La politica americana dei primi anni del secondo millennio ha anticipato la politica di aggressione che la Russia e poi Israele stanno seguendo per mettere in sicurezza e consolidare le proprie aree di interesse strategico.

Lo scenario internazionale è ormai dominato da conflitti locali che appaiono come regolamenti di conti per affermare la proprio forza sul contendente o per eliminare una minaccia alla propria sicurezza [18]. Così fu in Irak, così è stato in Ucraina e in Medio Oriente, così sarà molto probabilmente in altre aree di tensione geopolitica, come dimostra il recente conflitto, subito rientrato, che si è riacceso tra India e Pakistan.

A questa componente di conflitti conclamati si accompagna il riposizionamento dei sistemi di alleanze nel vuoto lasciato dal crollo del precedente ordine (come dimostra il recente vertice di Tianjin della Shanghai Cooperation Organisation). Ciascuno tenta di consolidare la propria posizione geopolitica per trattate poi da posizioni di vantaggio. Lo sbocco di questa fase porterà ad un nuovo ordine mondiale caratterizzato da un nuovo equilibrio e finché questo equilibrio non sarà trovato la politica internazionale sarà caratterizzata da instabilità sistemica, di cui la corsa al riarmo, lo strumento per definire la propria capacità di difesa degli interessi nazionali, sarà il segno più evidente.


Riferimenti bibliografici

Arrighi, G. 1994. The Long Twentieth Century, Londra: Verso.

Baran, P A. – Sweezy, P. M. 1966. Monopoly Capital. An Essay on the American Economic and Social Order, London: Monthly Review Press, 1966. Traduzione italiana: Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Torino: Einaudi, 1968.

Bonaiuti, C. – Maranzano, P. – Pianta, M. – Stamegna, M. 2023. Arming Europe: Military Expenditures and their Economic Impact in Germany, Italy, and Spain, Roma: Greenpeace.

Brancaccio, E. 2024. Le condizioni economiche della pace, Milano: Mimesis.

Brancaccio, E. – Giammetti, R. – Lucarelli, S. 2022. La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Milano: Mimesis.

Cypher, J. M. 2022. “The Political Economy of Systemic U.S. Militarism”, Monthly Review, Vol. 73, No. 11 (April 2022), pp.23-37. Disponibile on line: https://monthlyreview.org/2022/04/01/the-political-economy-of-systemic-u-s-militarism-2/

Ferguson, N. 1994. “Public Finance and National Security: The Domestic Origins of the First World War  Revisited”, Past & Present, Feb., 1994, No. 142, pp. 141-168.

Glaser, C. L. 1994. “Realists as Optimists: Cooperation as Self-Help”,  International Security, Vol. 19, No. 3, pp. 50-90.

Herz, J. 1950. “Idealist Internationalism and the Security Dilemma”, World Politics, Vol. 2, No. 2 (Jan., 1950), pp. 157-180.

Hobson, J. A. 1902 [1996]. Imperialism: A Study, London: Nisbet. Traduzione Italiana, L’Imperialismo, Milano: Newton Compton Editori.

Kennedy, P. 1988. The Rise and Fall of the Great Powers: : Economic Change and Military Conflict From 1500 to 2000, London: Unwin Hyman.

Kidron, M. 1967. “A Permanent Arms Economy”, International Socialism (1st series), No.28, Spring 1967, pp.8-12.

Kidron, M.  1970. Western Capitalism since the War, London: Pelican Books.

Kiel Institute, Ukraine Support Tracker Data, https://www.ifw-kiel.de/topics/war-against-ukraine/ukraine-support-tracker/

Lenin. 1916 [1973]. L’imperialismo fase suprema del capitalismo, a cura di Valentino Parlato. – 3. ed. – Milano: Editori Riuniti.

Mattick, P, 1956. “The Economics of War and Peace”, Dissent, Vol. 3, No. 4. (Fall 1956), pp. 376-389.

MB. 2023. The Military Balance, 2023. London: The International Institute for Strategic Studies

Melman, S. 1970. Pentagon Capitalism: The Political Economy of War. New York: McGraw-Hill. Traduzione Italiana: Capitalismo militare. Il ruolo del Pentagono nell’economia americana. Torino, Einaudi, 1972.

Melman, S. 1971. The war economy of the United States; readings on military industry and economy. New York: St. Martin’s Press.

NATO. 2024. Defence Expenditure of NATO Countries (2014-2024), Bruxelles: NATO Press & Media.  Disponibile on line https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2024/6/pdf/240617-def-exp-2024-en.pdf

Richardson, L. F. 1960. Arms and Insecurity: A Mathematical Study of the Causes and Origins of War, Lomdon: Boxwood Press.

Roberts, M. 2025. “From welfare to warfare: military Keynesianism”, The Next Recession Blog. Disponibile on line https://thenextrecession.wordpress.com/2025/03/22/from-welfare-to-warfare-military-keynesianism/

Screpanti, E. 2025. L’imperialismo globale e la grande crisi: L’incerto futuro del capitalismo, terza edizione, Firenze: Tedaliber.

SIPRI Arms Industry Database. Disponibile on line: https://www.sipri.org/databases/armsindustry

SIPRI Fact Sheet, 2025, Trends in International Arms Transfers, 2024, Stockholm: Stockholm International Peace Reserch Institute.

SIPRI Military Expenditure Database.  Disponibile on line: https://www.sipri.org/databases/milex

SIPRI Yearbook 2025. Stockholm International Peace Research Yearbook 2025. InstituteArmaments, Disarmament and  International Security, Stockholm: Stockholm International Peace Reserch Institute.

Skidelsky, R. 2025. “Military Keynesianism?”, disponibile on line https://robertskidelsky.substack.com/p/military-keynesianism

Vasapollo, L. 2022. Trattato di analisi del ciclo economico multicentrico, Roma: Edizioni Efesto.

Zuboff, S. 2019. The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Londra: Profile Books.


[1] Già nel 2022 l’Unione Europea aveva lanciato il programma Strategic Compass per  rafforzare la difesa entro il 2030. Cfr. Bonaiuti – Maranzano – Pianta – Stamegna, 2023.

[2] La variazione percentuale dell’Ucraina tra i due periodi è stata del 9627% e non è rappresentabile nella tabella 13.

[3] Il regime di controllo degli armamenti nucleari ha subito un progressivo deterioramento nel XXI secolo. Nel 2002, gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente dal Trattato ABM (anti missili balistici), sostenendo che i trattati tradizionali erano limitanti per gli interessi di sicurezza nazionale. Questa tendenza è proseguita con il ritiro dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) nel 2018 e dal Trattato Open Skies (controllo attività militari basato sulla osservazione area reciproca) nel 2020. Di recente, la Russia ha sospeso la sua partecipazione al Trattato New START (New Strategic Arms Reduction Treaty, per la riduzione delle armi nucleari) nel 2022. Questo disfacimento del quadro normativo globale è un trend cruciale da monitorare, in quanto elimina i meccanismi di trasparenza che, secondo alcuni, sono fondamentali per la stabilità. Esiste un dibattito sull’efficacia di tali accordi: mentre alcuni sostengono che siano inefficaci nel limitare gli avversari, altri li vedono come strumenti cruciali per promuovere la trasparenza, facilitare la pianificazione militare e ridurre l’incertezza e il rischio di attacchi a sorpresa.

[4] “La sovrapproduzione, vale a dire 1’esistenza di impianti manifatturieri eccessivi da un lato, e il sovrappiù di capitale che non poteva trovare un investimento profittevole all’interno del paese dall’altro, forzarono la Gran  Bretagna, la Germania, l’Olanda la Francia a collocare porzioni  sempre più grandi delle loro risorse economiche al di fuori dell’area del loro attuale dominio politico e perciò spinsero ad intraprendere una politica di espansione per conquistare nuove aree.  Le origini economiche di questo fenomeno sono messe a nudo da periodiche depressioni commerciali, causate dal fatto che i produttori non trovano mercati  adatti e profittevoli per  collocare  la  loro  merce (Hobson, 1902 [1996]: 110-111). É inutile attaccare l’imperialismo o il militarismo nella loro manifestazione politica se non si punta l’ascia alla radice economica dell’albero e se le classi che hanno interesse all’imperialismo non vengono private dei redditi eccedenti che cercano questo sfogo” (Hobson, 1902 [1996]: 119).

[5] “La radice economica dell’imperialismo e il desiderio di forti interessi  organizzati della finanza e dell’industria di assicurarsi e di sviluppare a  spese della nazione e con la forza dello Stato nuovi mercati per le loro merci e i loro capitali eccedenti. La guerra, il militarismo e un’«ardente politica estera» sono i mezzi necessari a questo scopo”  (Hobson, 1902 [1996]: 130).

[6] “I  decenni  dell’imperialismo  sono  stati  prolifici  di  guerre;  molte  di  queste  guerre  sono state motivate direttamente dall’aggressione delle razze bianche sulle razze inferiori, e si sono concluse con la conquista con la forza del territorio.  Ogni passo dell’espansione in Asia, Africa e nel Pacifico è stato accompagnato da spargimento di  sangue; ogni potenza imperialista mantiene  un  esercito  sempre più  grande  pronto  per  missioni  all’estero;  rettificazione  delle  frontiere,  spedizioni  punitive,  e  altri eufemismi  usati  al posto  della parola guerra,  sono  stati  in continuo  aumento. La pax  britannica, che era sempre stata una impudente falsità, è  divenuta un  grottesco mostro  di  ipocrisia […]. A parte la inimicizia tra Germania e Francia, la principale causa degli enormi armamenti che hanno dilapidato le risorse della maggior parte dei paesi europei è rappresentata dagli interessi contrastanti che esistono nell’espansione territoriale e commerciale. […]. L’affermazione della scuola del si pacem vis para bellum secondo cui solo gli armamenti costituiscono la migliore sicurezza per la pace, è basata sull’assunzione che esiste un vero e duraturo antagonismo di interessi tra i  vari popoli che sono chiamati  a subire questo mostruoso sacrificio” (Hobson, 1902 [1996]: 143-144).

[7] Secondo Ernesto Screpanti: nell’Imperialismo di Hobson “è contenuto il vizio originario di quasi tutte quelle teorie, e precisamente nel capitolo dedicato allo studio delle “radici economiche dell’imperialismo”. Il vizio consiste nella convinzione che l’imperialismo ha la sua “radice economica” non nel capitalismo ma in una qualche sua imperfezione” (Screpanti, 2025: 29).

[8] “La spesa militare è di nuovo in aumento per far fronte alla minaccia percepita della Russia e della Cina; ed è ragionevole supporre che, poiché i programmi di welfare non saranno tagliati per fare spazio al riarmo, l’indebitamento pubblico aumenterà per finanziare tale incremento. L’entità dell’inflazione che ne deriverà dipenderà dal grado di rallentamento delle economie occidentali e dalla disponibilità dei governi a limitare i consumi civili. Keynes stesso sarebbe stato depresso, ma non sorpreso dalla facilità con cui si può alimentare il fervore bellico per giustificare le politiche keynesiane. Non avrebbe sostenuto gli Stati autoritari di oggi, Russia e Cina, ma non avrebbe nemmeno avuto molta simpatia per coloro che in Occidente continuano a parlare della minaccia che essi rappresentano per ottenere denaro. «La guerra deve essere affrontata con molta prudenza, riverenza e calcolo», scriveva Keynes da giovane. In un mondo che sta tornando a blocchi economici e politici antagonisti, la sua condanna del bellicismo da parte dei detentori del potere è urgentemente appropriata, poiché l’attuale tecnologia bellica può distruggere non solo la civiltà, ma la vita stessa” (Skildesky, 2025).

[9] Il concetto di centralizzazione dei capitali è centrale nell’analisi di Brancaccio e può essere considerato uno sviluppo del concetto impostato da Marx e da Lenin.

[10] “L’obiettivo, nell’essenza, consiste nell’affrontare i problemi dell’economia americana dividendo il mondo in due grandi blocchi economici: da un lato gli “amici” occidentali e i loro sodali, con i quali proseguire gli affari, e dall’altro i “nemici” da tenere alla larga, tra cui rientrano in primo luogo la Cina, la Russia, alcuni produttori di energia medio-orientali e altri paesi creditori poco simpatetici con gli interessi prevalenti tra Wall Street e Capitol Hill” (Brancaccio, 2024: 12).

[11] “La ragione di fondo, a ben guardare, è di ordine epistemologico. I più sembrano, infatti, accontentarsi di una metodologia di tipo aneddotico, tipica degli approcci geopolitici attualmente à la page. Ossia, una serie di fatti giustapposti, una concezione della storia come fosse banalmente costituita dalle decisioni individuali dei suoi protagonisti, una sopravvalutazione delle spiegazioni ufficiali di quelle decisioni. E sopra ogni cosa, una espressa rinuncia: mai pretendere di ricercare “leggi di tendenza” alla base dei conflitti militari. Da Allison Graham a Étienne Balibar, nessuno osa oggi parlare delle “tendenze” su cui invece indagavano i loro grandi ispiratori, da Tucidide ad Althusser. La conseguenza di questo involuto metodo di analisi è che nel dibattito prevalente si avverte la pressoché totale assenza di indagini dedicate agli interessi materiali sottesi ai movimenti di truppe e cannoni. Manca cioè un esame delle tendenze strutturali che alimentano i venti di guerra di questo tempo (Brancaccio-Giammetti-Lucarelli, 2022: 133).

[12] La politica cinese segue le esigenze del commercio in questo senso è diretta a mantenere le condizioni di pace, come osserva Ernesto Screpanti: “I grandi capitalisti di oggi hanno un interesse fondamentale a superare le rivalità inter-imperiali piuttosto che a inasprirle, anche se in molte occasioni alcuni settori dei capitali di certe nazioni cercano di sfruttare le ambizioni geopolitiche delle classi dirigenti” (Screpanti, 2025: 36).

[13] “Le direttrici di espansione dell’imperialismo cinese sono quattro: 1) un rafforzamento dei rapporti commerciali con i paesi dell’area euro-asiatica, 2) un’intensificazione degli investimenti diretti nei paesi emergenti e in via di sviluppo, 3) la trasformazione del gruppo BRICS in un’alleanza strategica capace di espansione economica e accumulo di potere politico, 4) uno sforzo politico, economico e diplomatico finalizzato alla de-dollarizzazione dell’economia mondiale” (Screpanti, 2025: 161).

[14] Su questo tema, si veda l’analisi di Screpanti, 2025: 49.

[15] Questa caratteristica dell’espansione territoriale come elemento caratterizzante dell’imperialismo è stata al centro dell’analisi di Giovanni Arrighi (1994).

[16] “Il punto è che c’è un interesse comune del capitale multinazionale alle guerre per la libertà contro I paesi canaglia, ed è un interesse all’apertura dei mercati, all’appropriazione delle fonti d’energia e di materie prime e all’abbattimento di ogni ostacolo al libero movimento dei capitali e delle merci” (Screpanti, 2025: 61).

[17] Ernesto Screpanti ha distinto due fasi della globalizzazione: “la fase di globalizzazione dispiegata, che va da metà degli anni ’80 fino allo scoppio della grande crisi 2007-9; e la fase della globalizzazione rallentata, che inizia con la crisi e arriva fino a oggi. Nella prima fase la spinta economica ha predominato su quella politica e l’accumulazione del capitale è stata irruenta; nella seconda ha predominato la spinta politica e l’economia mondiale è entrata in una fase di rallentamento dello sviluppo […].È una fase dell’accumulazione in cui, sotto la spinta delle politiche protezioniste messe in atto dagli Stati Uniti dopo la grande crisi, è stato rallentato il processo di estensione del commercio mondiale, e di conseguenza è stata rallentata anche la crescita del PIL globale” (Screpanti, 2025: 11-12).

[18] “É per la conquista dell’egemonia imperiale, cioè per decidere quale sarà il nuovo stato egemone che eventualmente sostituirà gli Stati Uniti, che oggi si scontrano le forze economiche delle grandi potenze e, sia pur per procura, le forze militari” (Screpanti, 2025: 20).

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.