Il Manifesto di Ventotene per una rilettura critica dell’Europa reale

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Nel Manifesto di Ventotene l’europeismo si connette in maniera indissolubile con la storia dell’antifascismo e con la lotta per l’emancipazione sociale: per questo esso deve essere difeso da coloro che ne avversano il retroterra politico e culturale, ma anche da coloro che lo utilizzano per giustificare qualunque realizzazione politica ed istituzionale del processo di integrazione. Perché l’Europa può essere il campo di battaglia in cui il compromesso tra capitale e lavoro proprio del modello democratico sociale viene sconfitto, ma anche il luogo in cui esso può salvarsi dalle tempeste della globalizzazione e della de-globalizzazione assumendo una forma sovranazionale.

Nel Manifesto di Ventotene l’europeismo si connette in maniera indissolubile con la storia dell’antifascismo e con la lotta per l’emancipazione sociale: per questo esso deve essere difeso da coloro che ne avversano il retroterra politico e culturale, ma anche da coloro che lo utilizzano per giustificare qualunque realizzazione politica ed istituzionale del processo di integrazione. Perché l’Europa può essere il campo di battaglia in cui il compromesso tra capitale e lavoro proprio del modello democratico sociale viene sconfitto, ma anche il luogo in cui esso può salvarsi dalle tempeste della globalizzazione e della de-globalizzazione assumendo una forma sovranazionale.

1. Il Manifesto di Ventotene come campo di battaglia.

Il senso di un testo è anche l’utilizzo che se ne riesce a fare. Ciò vale per un’opera teorica così come per un documento politico; vale con riferimento all’utilizzo che ne fecero gli autori, ma vale anche – e questa è una notazione probabilmente meno scontata – per l’utilizzo che ne fanno i lettori.

Non si può dire che il Manifesto di Ventotene smentisca questo assunto. Anzi, gli utilizzi strumentali e polemici, ideali o oppositivi che sono stati fatti di esso hanno contribuito a strutturare una parte a suo modo significativa del dibattito sull’europeismo in Italia nell’ultimo quarantennio. Il legame, stringente nell’esperienza biografica degli autori al confino, tra antifascismo militante e progetto federalista, carica il testo di una dignità morale e di una capacità evocativa straordinaria.

In questo senso molto profondo, il Manifesto di Ventotene, come acutamente afferma Padoa-Schioppa nella prefazione all’edizione della Mondadori, è un classico che, in quanto tale, “non appartiene più solo al tempo in cui fu scritta, bensì a tutti i tempi”. Questo, però, non significa solo che in esso si possa distinguere quanto vi sia di durevole e quanto invece dipenda dalle circostanze di tempo e di contesto specifiche della sua genesi. Significa anche che la lettura, l’interpretazione e l’utilizzo adesivo o oppositivo che si possono fare di esso, costituiscono un campo di battaglia teorica e prima ancora politica.

Come è noto, la versione originaria di quello che ebbe l’ambizione di essere solo il “progetto d’un manifesto”, come recita il sottotitolo, fu scritta da Ernesto Rossi – per quanto riguarda parte sul modello economico, all’inizio del terzo paragrafo – e per il resto integralmente da Spinelli, su cartine di sigaretta a Ventotene e poi portato sulla terraferma da Ursula Hirshmann all’interno di un pollo [1]. Non pare di poter immaginare che un documento politico prodotto in una tale rocambolesca contingenza abbia potuto – né abbia voluto – raggiungere un livello di complessità teorica troppo elevato. D’altra parte, certo, il fatto che il Regime – con una certa miopia o con un certa supponenza di invincibilità – avesse concentrato a Ventotene ottocento [2] dissidenti politici, tra cui alcune delle figure più lucide dell’antifascismo, creava un’ambiente straordinariamente fecondo per la discussione politica, culturale, filosofica, preparando un terreno di comprensione reciproca che avrebbe giovato alla prima generazione repubblicana. Tuttavia è anche vero che i rapporti della comunità confinaria con l’esterno rimanevano difficili e pericolosi. I confinati, nel complesso, erano per lo più prigionieri di lungo corso. Questo dà l’idea di una comunità molto plurale, molto fertile nella riflessione profonda e nello scambio culturale, ma anche, per forza di cose, probabilmente abbastanza chiusa in sé stessa, isolata, per l’appunto.  

Non si può leggere, quindi, il Manifesto come un testo teorico, ma come un documento politico. Affascinante anche per la sua caratterizzazione quasi visionaria, si potrebbe dire. Tuttavia, proprio quella caratterizzazione visionaria e quell’altissimo valore morale, rendono la contesa sul Manifesto, sul suo senso e sulla sua interpretazione, ancora più decisiva.

Si proverà qui di seguito a riassumere brevemente il contenuto di “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”, facendo riferimento anche all’altro testo, “Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche”, scritto da Spinelli qualche mese più tardi sempre a Ventotene e pubblicato, assieme al Manifesto, da Colorni nel ’44 [3], sottolineando, successivamente, quali possono essere alcune linee problematiche di lettura, di contesa appunto, che dicono molto non solo del Manifesto di Ventotene, ma soprattutto dell’europeismo di oggi, con la convinzione che bisogna difendere quel testo dai suoi detrattori, oggi forse più consapevoli e agguerriti che mai, ma anche a sottrarlo ad alcuni suoi esegeti che, in ragione della sua straordinaria carica morale, lo hanno utilizzato strumentalmente negli ultimi decenni come vessillo di un europeismo acritico. Perché l’Europa può essere il campo di battaglia in cui il compromesso tra capitale e lavoro proprio del modello democratico-sociale cha ha dato forma alla Costituzione repubblicana viene sconfitto, ma anche – come ci insegna, per l’appunto, il Manifesto di Ventotene – il luogo in cui esso potrebbe salvarsi dalle tempeste della globalizzazione e della de-globalizzazione assumendo una forma sovranazionale.

2. La crisi europea nell’analisi dei confinati

“La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui ma un autonomo centro di vita”. Il Manifesto di Ventotene si apre con un’affermazione generale che è, nella sostanza, una parafrasi della seconda formulazione dell’imperativo kantiano. In questo senso quella premessa genealogica, richiama già i suoi esiti: la stessa critica alla sovranità statale che in “Per la pace perpetua”, aveva portato alla proposta kantiana di libera federazione di Stati. Nell’ottica di Kant, il disordine internazionale è la proiezione su scala planetaria dello stato di natura, nel quale il conflitto tra individui è la condizione costante, almeno dal punto di vista potenziale. Così come dalla dimensione conflittuale gli individui sortiscono stipulando quel patto che costituisce la comunità politica, allo stesso modo i popoli possono uscire dallo stato di conflitto internazionale perenne attraverso un patto che fondi, appunto, una federazione interstatale. Nel contrattualismo moderno lo stato di natura ha fine quando termina la potestà illimitata (rectius: limitata dai rapporti di forza) dell’individuo. La limitazione reciproca, per via pattizia e non polemica, delle potestà individuali costituisce e dà fondamento alla comunità politica. Allo stesso modo quel tipo particolare di stato di natura che è il disordine internazionale termina quando viene messo in discussione il dogma della sovranità statale [4]. In questo senso il Manifesto di Ventotene non è certo l’unico tentativo teorico che, partendo da premesse kantiane, termina con i medesimi assunti kantiani: finisce, cioè con il mettere in discussione il dogma della sovranità statale [5].

La critica che Spinelli e Rossi portano alla sovranità statale tuttavia non è articolata in via di principio, ma fa riferimento ad una particolare forma di Stato, storicamente determinata. Il fondamento della catastrofe europea non è tanto lo Stato in astratto o il pluralismo dell’ordine internazionale, ma il modo specifico nel quale si sono articolati i rapporti tra Stato, società, economia e democrazia nell’Europa del primo Novecento: quella di Spinelli e Rossi è un’analisi irrimediabilmente storica. Questo è un elemento che quando si legge il Manifesto di Ventotene non deve mai essere trascurato. Gli Autori non parlano mai di uno Stato o di una democrazia intese come istituzioni astrattamente considerate, ma quali si erano configurate nel precedente ventennio. In quella fase di crisi di civiltà europea giungono alle estreme consegue le contraddizioni di tre processi fondamentali della modernità.

1. “L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stato un potente lievito di progresso [6]” essa ha permesso l’autodeterminazione dei popoli e la lotta contro imperi e dominazioni. Tuttavia il rapporto perverso tra nazione e capitale ha condotto gli Stati europei al nazionalismo e all’imperialismo [7]. Dal punto di vista interno il risultato di questa proiezione di ogni singolo Stato nazionale ad affermare la propria potenza è il predominio dei ceti militari che minacciano la democrazia.

2. Il secondo processo storico esaminato è l’irruzione delle masse sulla scena politica. Le istituzioni della democrazia liberale non si sono dimostrate in grado di garantire l’integrazione delle masse popolari nella cornice dello Stato. Ciò ha comportato e insieme reso possibile la reazione dei ceti privilegiati che ha travolto le stesse istituzioni democratico-liberali. Questo passaggio costituisce un punto importante per capire la caratterizzazione del concetto di democrazia nel Manifesto e rende, in parte, più chiare certe critiche al metodo democratico che oggi paiono spiazzanti. In effetti il lettore odierno, nato e cresciuto nella democrazia costituzionale e sociale del secondo Novecento, tende a identificare la democrazia con quel regime politico e retrodatare quella identificazione. Quando Spinelli nel Manifesto parla di democrazia fa riferimento a quelle istituzioni liberali che, talvolta in maniera faticosa ed imperfetta, talaltra in maniera totalmente fallimentare, avevano mediato l’integrazione delle masse nelle strutture giuridiche e politiche dello Stato monoclasse [8]. Rispetto a quella forma democratico-liberale che aveva aperto il varco al fascismo per poi esserne travolta, la sfiducia degli Autori del Manifesto appare a più riprese [9].

3. Il terzo processo storico considerato è l’avvento di quelli che poi verranno chiamati totalitarismi: il razzismo scientifico [10], la teoria del lebenesraum [11], la statolatria [12] sono le sue componenti più dirompenti; il nazismo tedesco ne è la manifestazione più aggressiva e perfetta; “una rinnovata divisione dell’umanità in Spartiati e Iloti” l’esito più terribile e inquietante [13].

Le tre analisi convergono: il fascismo è il punto di arrivo dello Stato nazionale al tempo della politica di massa, il suo destino naturale è la guerra.

3. La soluzione federalista tra pace ed emancipazione sociale

Come è noto, la soluzione alla crisi europea è, nell’ottica degli Autori del Manifesto, una variante federale dell’internazionalismo: un “serio internazionalismo” viene definito [14]. Il progetto federalista, in quest’ottica, presenta una duplice valenza. Dal lato interno esso è volto ad ostacolare le autarchie e con esse il ritorno al potere dei gruppi sociali reazionari che hanno, nella crisi tra le due guerre, fatto perno sulle strutture degli Stati nazionali per travolgere le deboli democrazie liberali e sbarrare la strada all’avanzata delle forze progressiste. Dal punto di vista esterno, il federalismo si configura come indispensabile strumento di accentramento del diritto internazionale volto al superamento dell’anarchia e della polemicità del paradigma sovranista, come manifestatosi nella crisi europea.

I singoli Stati continuerebbero ad operare come luoghi di sviluppo della vita politica, sociale ed economica nazionale, tuttavia, sarebbero privati definitivamente [15] di quella sovranità che, nella visione di Spinelli, è foriera di egoismi e particolarismi [16]. La federazione dovrebbe detenere la competenza per produrre quell’ordine giuridico sopranazionale che regoli gli interessi complessivi all’interno dello spazio europeo e i mezzi coercitivi per farne valere le regole [17].

Per chi appartiene alle generazioni formatesi dal dopoguerra in poi, negli anni della lenta e faticosa costruzione funzionalista delle istituzioni comunitarie, l’idea di una immediata palingenesi federalista per l’agognato dopoguerra, può apparire precipitosamente velleitaria, finanche ingenua. La relativizzazione – quasi una smaterializzazione – politica, istituzionale e giuridica dei vecchi Stati nazionali e l’articolazione di uno spazio ampio federale ci può apparire come un salto dalla traiettoria incerta e dall’atterraggio improbabile. Per comprendere, tuttavia, la portata del testo, non bisogna dimenticare che quando il Manifesto fu redatto, tra la fine della primavera e l’estate del ’41 [18], gli eserciti dell’Asse erano in tumultuosa avanzata in Russia (l’Operazione Barbarossa era scattata il 22 giugno), conservavano ancora saldamente l’iniziativa in Nord Africa, avevano ormai il pieno controllo dei Balcani e avevano instaurato governi fantoccio o amministrazioni militari in gran parte dei paesi dell’Europa occidentale, in primis nella Francia di Vichy, fascismi autoctoni dominavano nei paesi del Sud Europa. Insomma, la dissoluzione degli Stati nazionali e la realizzazione – anche solo in fieri – dell’unità europea erano una realtà di fatto, come raramente era accaduto nella storia del Vecchio Continente: la loro forma storica era, né più né meno, l’impero nazista. Quindi, se è innegabile che la storia abbia preso un’altra piega, dal punto di vista analitico non si può dire che fosse totalmente irrealistico pensare che ormai l’Europa avesse raggiunto politicamente la sua unità spaziale e che i processi costituenti successivi alla guerra si sarebbero svolti nell’ambito del Großraum [19]. Uno di questi – se avessero vinto i nazisti che nell’estate del ’41 si affacciavano all’apogeo della loro potenza – sarebbe stata una forma imperiale tedesca, un altro possibile percorso avrebbe potuto essere la vagheggiata federazione europea. In ogni caso, ciò di cui erano convinti Spinelli e Rossi era che il ritorno agli Stati nazionali sarebbe stato il terreno su cui si sarebbero sviluppate nuovamente le dinamiche perverse di cui si è detto brevemente in precedenza (nazionalismo, autoritarismo, imperialismo, razzismo): quella sarebbe stata la strada tentata dai gruppi sociali reazionari che avevano portato alle estreme conseguenze le contraddizioni della modernità statuale e nazionale [20]. Ad un esito similmente reazionario si sarebbe inevitabilmente infine approdati anche se le forze democratiche e socialiste avessero in una prima fase, gestito percorsi costituenti, anche, nel caso, fortemente emancipatori all’interno, tuttavia dei singoli Stati nazionali [21].

D’altra parte – ma il tema sarà ben più chiaro ne Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche – non basterà né la completa vittoria degli ideali democratici né di quelli socialisti negli Stati dell’auspicato dopoguerra per risolvere il problema della guerra, se in ogni caso gli Stati si fanno portatori degli interessi esclusivi dei popoli che rappresentano e non esiste un potere federale (non semplicemente il diritto internazionale) a dare ordine alle relazioni globali [22].

Per gli Autori del Manifesto nell’estate del ’41 quella che si sarebbe aperta nel dopoguerra sarebbe stata, irrimediabilmente, una stagione costituente. Spinelli affronta quella fase costituente in un modo che, nel metodo, fa ancora riferimento al portato leninista che in quel momento egli non aveva ancora rigettato [23]. Nel merito, invece, si allontana da una impostazione classista. Dal punto di vista del metodo, ritiene che la prassi democratico-assembleare sia incapace di portare a compimento un processo rivoluzionario in grado di costituire nuove istituzioni. In questo, come si diceva in precedenza, il superamento del leninismo non appare neanche avviato [24]: il momento fondante del nuovo ordine deve essere realizzato da un partito (il partito federalista europeo) che possa costituire l’avanguardia del solo progetto di società che si ritiene in grado di consentire l’uscita del Continente dalla sua crisi [25]. Non è qui in discussione direttamente il metodo democratico in sé, quanto piuttosto lo spontaneismo democratico. Nel merito, si diceva in precedenza, la posizione di Spinelli ha già superato il classismo del comunismo antebellico: il partito proletario non è riuscito a costruire plausibili politiche di alleanza con le altre forze democratiche [26]. Della politica classista dei socialisti e dei comunisti, Spinelli salva, per certi versi paradossalmente, la prassi riformista, ma giudica la loro incapacità egemonica come insuscettibile di renderli centrali in una fase costituente (almeno in Occidente) [27].

Nell’ottica di Spinelli e Rossi, ciò che appare chiaro è il blocco sociale che dovrà costruire la base della federazione europea e della sua fase costituente: ceti intellettuali, classe operaia, settori più dinamici dell’imprenditoria sfavoriti dai regini protezionistici e dalle formazioni monopolistiche.

Quello che Spinelli pare cercare e non avere ancora pienamente trovato in quelle pagine è, per l’appunto, una teoria dell’egemonia compatibile con la democrazia. Se, da una parte, Spinelli sviluppa un abbozzo di teoria del blocco sociale come base del processo costituente europeo (un blocco sociale che vada al di là della sola classe operaia), dall’altra, non immagina ancora pienamente le dinamiche, egemoniche appunto, attraverso le quali quel progetto federalista possa realizzarsi nella democrazia: esso rimane sospeso tra l’avanguardismo leninista e la mitologia soreliana.

Se la base sociale del processo costituente europeo è strutturalmente progressista, non sorprende che il Manifesto di Ventotene – ed è la parte materialmente redatta da Rossi – contenga anche un abbozzo di programma sociale della Federazione. Il progetto federale e la sua “Costituzione economica”, in effetti, sono considerati in maniera intimamente connessa: la Federazione è condizione necessaria è sufficiente della trasformazione della società in senso progressista, proprio perché il progetto federalista ha una valenza esterna, ma anche interna.

Nonostante i due Autori provengano da (due diverse) tradizioni marxiste, nel Manifesto di Ventotene si rivendica molto di più il primato dell’uomo sul profitto piuttosto che l’abolizione della proprietà privata e, anzi, è interessante notare, anche ad onta di alcune polemiche parlamentari recenti, quanto il progetto sociale del Manifesto di Ventotene sia straordinariamente vicino ai corrispondenti principi della Costituzione repubblicana: funzionalizzazione della proprietà privata [28], limitazione del diritto di successione e della concentrazione patrimoniale [29], nazionalizzazione delle imprese monopolistiche, ma anche libertà di impresa anche orientata a fini sociali [30]; e ancora: scuola pubblica [31], assistenza sociale [32], libertà sindacale e abolizione del corporativismo [33].

4. Il manifesto di Ventotene e gli europeismi italiani.

Il Manifesto di Ventotene, come si diceva all’inizio, rappresenta uno snodo importante della storia ideale dell’europeismo italiano. Ampiamente dimenticato nella prima fase dell’esperienza comunitaria, diventa poi, nel corso del tempo, un testo di riferimento nella fase in cui l’impegno politico di Spinelli nel PCI contribuisce alla battaglia per l’elezione diretta del Parlamento europeo. Da allora, progressivamente, le idee del Manifesto diventano centrali, soprattutto per il dibattito europeista all’interno di quella sinistra che, almeno fino alla fine degli anni ’60, aveva visto con disagio, se non con aperta opposizione, l’integrazione europea.

In questo senso la vicenda della ricezione del Manifesto di Ventotene può essere considerata una cartina di tornasole straordinariamente chiara del progressivo approdo della sinistra italiana ad un convinto e a tratti identitario europeismo. Tra le grandi culture politiche nazionali che si sviluppano nel secondo Novecento in Italia, a partire dalla Costituente, quella comunista è senza dubbio la più cauta e titubante di fronte al progetto di integrazione e europea. Ben altro si può dire invece della tradizione cattolica e di quella liberale.

Da un primo punto di vista, è un fatto storico innegabile che, anche per circostanze storiche contingenti, siano stati i leader democratici cristiani ad avviare il processo di costituzione delle comunità europee: Adenauer, Schumann e De Gasperi. Il punto di partenza culturale che aveva portato i cattolici del dopoguerra ad imboccare un percorso il cui esito naturale sarebbe stato il processo di integrazione europea era ed è una visione universalista (cattolica, appunto) della Civitas christiana, unita ad una concezione fortemente antistatalista della politica. Il suo correlativo oggettivo è rappresentato dal principio di sussidiarietà. Subita agli albori della modernità la divaricazione tra la sfera temporale e quella spirituale, la dottrina politica della Chiesa sviluppa ben presto l’idea di un pluralismo sociale e istituzionale che si muove in quella ampia intercapedine tra individuo e Stato che la teoria liberale dello Stato moderno immaginava invece vuota: l’organizzazione ecclesiastica in primo luogo, ma anche associazioni, corporazioni, famiglie. Alla pretesa dello Stato moderno di porsi come monopolista della regolamentazione sociale in ogni campo dell’agire umano, essa oppone un’idea di sussidiarietà per la quale le istituzioni medesime contribuiscono alla regolamentazione di spazi sociali parziali e le istituzioni più ampie intervengono solo quando quelle meno ampie risultano inidonee. Dagli albori del processo di integrazione europea, dunque, nel pensiero cattolico il principio di sussidiarietà si lega alla tendenza all’universalismo, diventando così il punto di equilibrio teorico di una serie di limitazioni specifiche tra le sfere di regolamentazione di istituzioni e poteri diversi subnazionali, nazionali e sovranazionali [34].

La stessa esigenza di limitazione dell’onnipotenza statale è alla base dell’europeismo dei liberali che poi passerà al pensiero neoliberista. La sfera economica, intesa come libero dispiegarsi degli interessi individuali nella dinamica dello scambio, viene vista come limite che il governo non deve oltrepassare pena l’ingiusto sacrificio della libertà dei singoli e l’inefficienza allocativa. L’ideale del liberismo del secondo ‘900, perciò, vede tra le sue massime realizzazioni possibili la costruzione di un ordine giuridico del mercato concorrenziale strutturato da regole generali e astratte e svincolato il più possibile dalla relazione con quelle istituzioni – irrimediabilmente statuali – nelle quali la spinta democratica genera tensioni dirigistiche e redistributive [35]. L’idea di un mercato concorrenziale costruito dal diritto e l’idea antiprotezionista di un mercato unico al di là e al di sopra degli Stati, trovano il loro coronamento nella costruzione di un mercato unico europeo, istituzione cardine e fulcro concettuale, politico e ideologico del processo di integrazione.

I comunisti italiani arrivano tardi all’europeismo. Dal dopoguerra e per tutti gli anni della segreteria di Togliatti, la lettura prevalente del processo di integrazione europea è quella di considerarlo un accordo dei governi borghesi europei, sotto l’egida degli Stati Uniti, in funzione antisovietica, oltre che un indebolimento di quelle istituzioni statali che sono considerate, ancora negli anni ’60, il perno di ogni azione rivoluzionaria o riformista. La rilettura togliattiana della tensione tra nazionale e internazionale è, da una parte, portata a valorizzare il tema della via nazionale al socialismo, che si reputa ostacolata dal processo di integrazione europea; e, dall’altra, informata a declinare un internazionalismo che è, più che altro, solidarietà con il blocco sovietico. Il ripensamento, lento e parziale sul tema dell’europeismo, avviene di pari passo con l’allontanamento del PCI da Mosca, muovendo i primi passi spinto dall’inquietudine diffusa dopo la repressione della Primavera di Praga, e si afferma, durante la segreteria Berlinguer, negli anni del Compromesso storico. L’Eurocomunismo rappresentava una sorta di prolungamento su scala continentale delle soluzioni adottate avanti a queste sfide: la necessità di reimmaginare un internazionalismo che assumesse come un dato, al momento immodificabile, la collocazione internazionale dell’Italia e, nel contempo, il carattere imperialistico dell’internazionalismo sovietico. È in questa fase che Spinelli si riavvicina ai comunisti, o meglio: è in questa fase che il Pci si avvicina all’europeismo dei federalisti.

All’interno del mondo comunista e soprattutto post-comunista, il Manifesto contribuisce in maniera decisiva a strutturare – anche ex post,se si vuole – un nesso ideale tra resistenza antifascista e integrazione europea, ma anche a garantire, con la sua autorevolezza morale e la sua forza ideologica legittimante, una adesione alle realizzazioni concrete del processo di integrazione, finanche quando queste sono apparse, in effetti, piuttosto contrastanti con alcuni degli assunti politici di quel testo.

5. Il Manifesto di Ventotene come testo critico dell’europeismo realizzato.

Non meraviglia che, come si diceva in avvio, il Manifesto di Ventotene rappresenti un testo assieme identificativo e contestato. Un testo criticato da quelle culture politiche che guardano al ritorno dei sovranismi o che vivono con disagio il portato storico dell’antifascismo, che sono estranee al percorso di scrittura, approvazione e attuazione della Costituzione repubblicana, fino a contestare passaggi concernenti l’assetto economico sociale della auspicata Federazione europea che avrebbero trovato di lì a poco una trasposizione normativa proprio nella Carta costituzionale. Il Manifesto di Ventotene, tuttavia, è anche un testo le cui interpretazioni e i cui utilizzi possono essere tanto legittimanti dei processi di integrazione europei così come sono (l’Europa reale, per così dire), tanto possono costituire, invece, una loro radicale messa in discussione. Sulla base di quest’ultima lettura si proverà a identificare quattro punti nei quali il Manifesto di Ventotene rappresenta un modello altro per l’Europa di ieri, di oggi e di domani, un modello che, si spera possa essere ancora realizzabile.

5.1. Sovranità

Il Manifesto di Ventotene immagina la realizzazione della Federazione europea come uno sviluppo della grande traiettoria storica della formazione degli Stati sovrani: uno Stato federale, uno “Stato internazionale”, senza alcun dubbio, ma, in ogni modo, uno Stato sovrano. Non è un caso che i modelli ai quali, esplicitamente o implicitamente, si fa riferimento sono l’Unificazione dell’Italia e la nascita degli Stati Uniti d’America. In questo senso, il soggetto federale immaginato da Spinelli e Rossi si presenta come indubbiamente politico, cioè, “portatore di fini generali”, seppure nell’ambito del principio di attribuzione delle competenze proprio di ogni Stato federale [36].

Il processo di integrazione europea non ha guardato al modello dello Stato sovrano. Se ciò non è avvenuto non è solo o tanto perché – argomento formale – gli Stati membri hanno mantenuto, sempre e comunque, la propria sovranità. Era probabilmente già insito nella sua genetica che affondava le sue radici nell’incontro tra il principio di sussidiarietà dei cattolici e del libero mercato dei liberali, l’idea della priorità delle regole e dei vincoli sulla politica [37]. Il processo di integrazione ha avuto come suo fulcro iniziale l’istituzione, attraverso le regole del diritto, di un ordinamento giuridico peculiarissimo nella storia della civiltà: un mercato unico e concorrenziale, relativamente autonomo dagli Stati, regolato da norme giuridiche di carattere pubblicistico e sovranazionale. Quel mercato-ordinamento, da un lato, ha progressivamente limitato la sovranità degli Stati in tutta una serie di settori che avrebbero potuto interferire con il suo funzionamento unitario e concorrenziale; dall’altro lato, ha progressivamente spinto alla riallocazione in capo alla Comunità-Unione di tutta una serie di competenze e di poteri che, precedentemente allocati all’interno del perimetro della sovranità degli Stati, andavano adesso a garantire il raggiungimento dei fini di quell’ordinamento parziale.

Come portato storico e logico della sua matrice genetica, quindi, la Comunità europea, prima, e l’Unione europea, poi, lungi dall’essere il “continuo della sovranità statale con altri mezzi”, si sono proposti per decenni radicalmente come antisovrano [38], cioè come volti a limitare l’istanza sovrana senza però trasferirla altrove [39].

5.2. Costruttivismo

Il Manifesto di Ventotene immagina un blocco sociale e un partito politico che aprono e chiudono una fase costituente il cui fine e il cui esito sono, in qualche modo, previsti, voluti e predeterminati. Ancora una volta la memoria è legata alla prassi volontaristica del potere costituente propria della formazione e della rivoluzione degli Stati moderni.

Radicalmente diverso si è presentato il processo di costruzione delle istituzioni europee. Il modello funzionalista è stato fondamentale per rendere possibile la nascita dell’ordinamento europeo, dopo che la sconfitta del nazifascismo non ha prodotto quella crisi generalizzata, preconizzata e auspicata da Spinelli, nella quale i processi politici avrebbero avuto inevitabilmente il Großraum europeo come proprio palco. Ciò tuttavia ha impresso al processo due caratteristiche peculiari e estremamente problematiche: il processo costituente europeo non ha un piano preordinato ed è pressocché infinito e indefinito nella durata.

Il processo di formazione, di consolidamento e di sviluppo delle istituzioni europee è stato fondamentalmente cieco, potenzialmente infinito nella sua durata e indefinito nei suoi confini, ha risposto a sollecitazioni specifiche o a crisi determinate, anche al di là delle intenzioni esplicite o implicite degli Stati: si pensi a fenomeni realmente costituenti come il riconoscimento della primazia del diritto comunitario o, di recente, al protagonismo riconosciuto alla Bce nel risolvere le crisi finanziarie. Ciò comporta una difficile controllabilità popolare e una perenne logica emergenziale che da ultimo sta portando ad un vero e proprio espandersi di gestioni commissariali come quelle sul Pnrr o sul riarmo [40].

5.3. Blocco sociale

Nella logica del Manifesto di Ventotene, il discorso sulla fondazione della Federazione europea non è mai disgiunto da quello parallelo sul blocco sociale che ne sostiene il processo costituente. Nella visione di Spinelli e Rossi esiste un blocco sociale conservatore (grande industria monopolistica che prospera nel protezionismo, rendita, apparati statali, militari ed ecclesiastici, residui aristocratici) la cui egemonia è inevitabile all’interno dello Stato nazionale. Esiste, in opposizione a questo, un possibile blocco sociale progressivo (lavoro subordinato, settori più dinamici dell’impresa, intellettuali) il cui accesso al potere è irrealizzabile se non nell’ambito della dissoluzione dello Stato nazionale. La fondazione della federazione, dunque, sembra potersi realizzare, almeno dal punto di vista politico, non attraverso meri accordi tra Governi o classi dirigenti, ma attraverso la formazione di nessi di solidarietà tra soggetti individuali e collettivi su scala transfrontaliera. Un blocco sociale progressista europeo, per l’appunto, che, per inciso, non è molto diverso da quel blocco sociale del lavoro su cui si fonda la democrazia costituzionale italiana. Non è un caso che il Manifesto, non solo individui l’obiettivo politico della Federazione europea, ma ne preconizzi anche i caratteri socio-istituzionali: indice che nella concezione di Rossi e Spinelli, l’estensione dei diritti sociali, la liberazione dell’essere umano dal bisogno, la fine dello sfruttamento monopolistico, il primato dell’uomo sul profitto sono, insieme, effetto diretto dell’ipotesi federalista, ma anche il suo obbiettivo prioritario.

Il processo di integrazione europea non ha mai seguito la dinamica qui descritta. Ad un primo livello del discorso, si può dire che gli attori dell’integrazione sono stati gli Stati nazionali. Ciò è vero da un punto di vista formale (gli Stati stipulano i Trattati, gli Stati siedono in quel Consiglio europeo che è il massimo organo di indirizzo politico, ecc.); ma è vero, per quanto ci interessa, anche – e forse soprattutto – da un punto di vista sostanziale. Nonostante i meccanismi redistributivi riguardino sempre in ultima analisi gli individui, le scelte ad essi relativi possono avere differenti unità di misura. L’unità di misura assolutamente prevalente in Europa sono stati gli Stati membri. Raramente, ad esempio, si sono creati meccanismi di solidarietà politica tra i lavoratori europei in grado di aprire fronti di vertenza comune. Molto più spesso i blocchi sociali, i nessi di solidarietà e i meccanismi egemonici si sono sviluppati all’interno dei confini nazionali. Causa e, insieme, effetto di ciò: se da un punto di vista formale e procedurale l’Unione ha raggiunto una cera maturità democratica, non si può dire che esista una vera e propria politica democratica europea con proprio soggetti forti e rappresentativi (partiti, sindacati, mezzi di informazione, movimenti, ecc.).

Ad un secondo ed ulteriore livello del discorso, tuttavia, si deve ammettere che molte volte un blocco sociale realmente transnazionale, con interessi comuni e strumenti politici in grado di farli valere, si è formato e ha operato in maniera anche efficiente. Esso tuttavia si è presentato in una formazione che è ben diversa da quella immaginata da Spinelli. Si pensi ad esempio a quanto la grande finanza europea abbia, durante la fase dell’austerità, contribuito alla implementazione di politiche deflazionistiche di livello continentale, riuscendo anche a esercitare un’egemonia sui lavoratori subordinati dei paesi centrali dell’eurozona che invece avrebbero potuto avere vantaggi da politiche più espansive.

In questo senso il Manifesto di Ventotene interroga gli europei innanzitutto sul tema della politicità dei processi di integrazione: essi non sono mai neutri ma hanno una determinata connotazione a seconda di quali sono i gruppi sociali che li esercitano e in essi si impegnano. In secondo luogo, esso indica come la costruzione di un’Europa sociale non è uno dei possibili corollari del mercato unico, ma fa tutt’uno con la funzione storica che il processo di integrazione assegna a se stesso e gli interessi sociali che lo orientano. In terzo luogo, il Manifesto indica che un’altra Europa possibile si può sviluppare solo se è possibile costruire nessi di solidarietà che rafforzino su base europea quel blocco sociale del lavoro, immaginato da Spinelli e Rossi e vittorioso nel testo e nella prassi della Costituzione repubblicana, ormai sfaldato e recessivo in tanti paesi dell’Occidente. L’Unione europea, in altre parole, può essere il palcoscenico sul quale il blocco sociale del lavoro che ha dato vita alla Costituzione del ’48 può trovare una centralità ormai da molto tempo perduta, ma può essere anche il luogo del suo ulteriore arretramento.

5.4. Democrazia

Il tema della democrazia, si è visto in precedenza, risulta abbastanza problematico all’interno del testo del Manifesto di Ventotene. L’impostazione da cui parte Spinelli nel ’41 è quella leninista: in una fase rivoluzionaria, cioè costituente, c’è bisogno di una avanguardia organizzata che si faccia interprete del blocco sociale progressivo – e per ciò portatore di interessi generali – che forzi il corso degli eventi, anche realizzando una volontà popolare maggioritaria che tuttavia non ha né strutture istituzionali, né formule politiche per prendere consapevolezza di sé stessa e realizzarsi.

Spinelli cambierà ben presto opinione. La stessa concezione del partito federalista si modifica profondamente: non più avanguardia organizzata e determinata a forzare il corso degli eventi ma forza trasversale ai partiti democratici progressisti, nell’ambito dei quali la militanza congiunta non è impedita [41]. La strategia federalista, insomma, nel dopoguerra è già passata da una concezione leninista ad una democratica egemonica.

Dal Manifesto, tuttavia, ci può derivare una suggestione che resta valida: in una fase costituente i processi democratici trovano una difficoltà che è innanzitutto logica. Anche andando al di là del testo, possiamo dire che questo fenomeno avviene in primo luogo perché la democrazia è caratterizzata da elementi sostanziali (lo si è visto prima) ma anche, irrimediabilmente, da elementi procedurali. Se la democrazia non è solo procedura essa tuttavia non è neppure solo indistinta volontà generale, proprio perché la volontà generale, per diventare prassi democratica, ha bisogno di un quadro di regole dentro la quali esprimersi. In una fase costituente quelle regole non esistono ancora, esiste solo – se esiste – una indeterminata volontà popolare.

D’altra parte, il movimento federalista immaginato da Spinelli è rivoluzionario e non mira alla conquista di nessun potere costituito (neppure quello che si può intendere in senso più generale come Stato). Esso si manifesta come puro potere costituente, costituente di una nuova entità politica che ha un nuovo popolo, un nuovo governo e un nuovo territorio. In questo situarsi radicalmente nella dimensione costituente esso non può presentarsi come democratico in senso proprio. Innanzitutto perché la democrazia presuppone un demos che si faccia kratos. Nel processo costituente europeo un popolo, cioè un gruppo di soggetti individuali e collettivi che sente dei vincoli di solidarietà, non c’è ancora. Il popolo (europeo) è il prodotto del processo, non il suo presupposto.

Il procedere del metodo funzionalista, come si è visto anche in precedenza, comporta un percorso costituente tendenzialmente aperto, non finito, proteiforme, che produce modifiche istituzionali in maniera adattiva e responsiva rispetto alle emergenze o alle sollecitazioni dell’ambiente circostante. In questa logica, non è difficile capire come il processo costituente europeo – un processo che coinvolge e modifica le istituzioni sia a livello nazionale che continentale – rischia di mettere perennemente sotto stress la prassi democratica sia dell’Unione che degli Stati membri.

In questo senso, dalla lotta all’inflazione fino al Pnrr, passando per le riforme del sistema pensionistico fino ad arrivare alla stagione dell’austerità, più volte nell’ultimo mezzo secolo, le classi dirigenti italiane hanno indotto alcune trasformazioni istituzionali profonde attraverso la logica del vincolo esterno (accompagnato, magari, da governi tecnici che ne fossero lo strumento): l’idea per la quale la democrazia italiana non sia in grado di realizzare alcuni fondamentali interessi del paese – in termini di efficienza, modernizzazione, razionalizzazione – per cui essa deve essere coartata e orientata da una serie di regole o di poteri provenienti dall’istituzione internazionale. Forse, almeno da parte di alcuni, questa lettura del rapporto tra democrazia nazionale e integrazione europea è stata legittimata anche da una cattiva, parziale e fuorviante lettura del Manifesto di Ventotene.

6. Conclusioni

Il Manifesto di Ventotene, come si diceva in principio, è oggi al centro di un conflitto interpretativo che è tutto politico. Quel testo è in qualche modo sfidato su tre direttrici. In primo luogo, c’è un sovranismo identitario che ne guarda con sospetto alle radici, che affondano nella storia dell’antifascismo italiano; che ne contesta la declinazione sociale, spesso consonante con lo spirito e il testo della Costituzione; che immagina la ricostruzione del piano politico attorno al nodo della Nazione. In secondo luogo ci sono coloro che giudicano il testo tout court un’espressione, magari eccentrica e indiretta, di quelle stesse logiche funzionaliste e neoliberali che ritengono aver plasmato il processo di integrazione, come se ci fosse un unico filo rosso che parte da Ventotene e arriva all’austerità dei primi anni ’10. In questa prospettiva, se anche il modello di Ventotene è “il cavallo di Troia” del neoliberismo, solo il ritorno agli Stati nazionali rappresenta il modo per difendere il compromesso tra capitale e lavoro ereditato dal secondo ‘900 [42]. In terzo luogo ci sono coloro che, come si diceva in precedenza, hanno utilizzato il Manifesto come una specie di testo sacro, utile per trasformare in dogma tutte le realizzazioni politiche e istituzionali del progetto di integrazione. 

Contro questi ultimi, nelle pagine precedenti, si è provato invece ad affermare che il Manifesto corrisponde ad un’idea di Europa che può essere usata efficacemente come contraltare critico del processo di integrazione realmente realizzatosi. Contro i sovranismi, invece, da una parte si ritiene che in un mondo nel quale, nonostante gli evidenti fenomeni di de-globalizzazione, gli attori economici privati assumono sempre più una dimensione colossale [43], solo una organizzazione di dimensioni continentali – se in essa conquistano centralità quei ceti sociali subalterni di cui parla il Manifesto di Ventotene – possa garantire il controllo della politica sull’economia; in secondo luogo si contesta che, nella attuale situazione, un ritorno agli Stati nazionali possa avvenire in una maniera contemporaneamente democratica e progressiva.


[1] L. Levi, Altiero Spinelli fondatore del movimento per l’unità europea, in A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano, 2014, p 148.

[2] L. Levi, op. cit. p. 155.

[3] L’altro documento pubblicato in quella sede è Politica marxista e politica federalista,

[4] I. Kant, Per la pace perpetua, Garzanti, Milano, 2024.

[5] Mutatis mutandi il giurista non può non pensare alla riflessione kelseniana sul diritto internazionale, si veda C. Nitsch, Diritto e forza nella comunità degli Stati. Studi su Hans Kelsen e la teoria del diritto internazionale, Satura Editore, Napoli, 2012.

[6] A. Spinelli, E. Rossi, Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, in A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano, 2014, p. 11.

[7] La nazione […] è divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo […]. La sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nella egemonia dello Stato più forte su tutti gli altri Stati asserviti”, A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 12.

[8] Sullo Stato monoclasse, M.S. Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, 1986, 35.

[9] A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 13.

[10] “quantunque nessuno sappia cosa sia una razza, e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l’assurdità, si esige dai fisiologi di credere, dimostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l’imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse e l’odio e l’orgoglio”. A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 15.

[11] “Si è creata la pseudo scienza della geopolitica che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dar veste teorica alla volontà di sopraffazione dell’imperialismo”. A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 15.

[12] “Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si avvalgono dello Stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello Stato chi stabilisce quali debbano essere i loro fini, e come volontà dello Stato viene senz’altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere” (A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p.16).

[13] A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 17.

[14] A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 18.

[15] Spinelli non ha in mente una confederazione, la cosa è chiara in nota, quando dice che, una volta formata la federazione, i singoli popoli perderebbero il diritto all’autodeterminazione: il patto federativo deve essere irrevocabile (cfr. A. Spinelli, Gli Stati uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, in A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano, 2014, p. 65).

[16] “Un ordinamento federale, il quale, pur lasciando a ogni singolo stato la possibilità di sviluppare la sua vita nazionale nel modo che meglio si adatta al grado e alle peculiarità della sua civiltà, sottragga alla sovranità di tutti gli stati associati i mezzi con cui possono far valere i loro particolarismi egoistici, crei ed amministri un corpo di leggi internazionali al quale tutti ugualmente debbono sottomettersi” (A. Spinelli, op. cit., p. 65).

[17] Nel testo del ’42 Gli Stati uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, con riferimento alle competenze della federazione, si esprime in questi termini: “La federazione deve avere l’esclusivo diritto di reclutare e di impiegare le forze armate (le quali dovrebbero avere anche il compito di tutela dell’ordine pubblico interno), di condurre la politica estera; di determinare i limiti amministrativi dei vari stati associati […]; di provvedere alla totale abolizione delle barriere protezionistiche ed impedire che si riformino; di emettere una moneta unica federale; di assicurare la piena libertà di movimento di tutti i cittadini entro i confini  della federazione; di amministrare tutte le colonie, cioè tutti i territori ancora incapaci di autonoma vita politica [sic!]. Per assolvere in modo efficace a questi compiti, la federazione deve disporre di una magistratura federale, di un apparato amministrativo indipendente da quello dei singoli Stati, del diritto di riscuotere direttamente dai cittadini le imposte necessarie per il suo funzionamento, di organi di legislazione e di controllo fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini e non su rappresentanze degli stati federati” (A. Spinelli, op. cit., p. 66).

[18] “Il manifesto fu scritto nel giugno del 1941 e riformulato, ma senza variazioni sostanziali, nel successivo mese di agosto, per migliorare la disposizione della materia e adeguare il testo al fatto politico nuovo dell’ingresso in guerra dell’Unione Sovietica” (L. Levi, op. cit., p. 148).

[19] “Il crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che, o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali” (A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 23).

[20] “Le forze conservatrici, cioè: i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali; i quadri superiori delle forze armate, culminanti, là dove esistono nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche […]; ed al loro seguito tutto l’innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che anche sono solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza […]. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto finora, e le esporrebbe all’assalto delle forze progressiste” (A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p.18).

[21] “Potrebbero pure questi stati essere in apparenza largamente democratici e socialisti; il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali, e ciascuno stato riproporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi” (A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 23).

[22] Non è vero che le democrazie sono di per sé pacifiche “si è invece visto che le democrazie, anche le più rispettose all’interno dei diritti dei loro cittadini, non trasportavano affatto queste loro virtù nei rapporti con l’estero, nei quali rimanevano egoiste, disposte all’esclusione e alla sopraffazione dei rivali” (A. Spinelli, op. cit., p 43).

[23] L. Levi, op. cit., p. 173.

[24] L. Levi, op. cit., p. 173: “Nella conclusione del Manifesto c’è un appello a costruire un partito rivoluzionario. È una scelta che risente ancora del condizionamento delle grandi ideologie del passato, che hanno usato il partito come veicolo per realizzare i loro obbiettivi politici, e in particolare del leninismo, che Spinelli non aveva ancora pienamente superato”. Nella sua autobiografia, molti anni dopo, Spinelli sottolineerà l’importanza che aveva per lui nel periodo precedente alla pace di militare in “un’organizzazione che si presenta come un clero, depositario delle segrete leggi che regolano la morte delle vecchie e la nascita delle nuove società umane” e che si propone di “prendere il potere assoluto necessario per creare una nuova e perfetta società” (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 254).

[25] “Il popolo ha sì alcuni fondamentali bisogni da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere o cosa fare […]. Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. Pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove servono capi che sappiano dove arrivare” (A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 20).

[26] In questo senso e anche indipendentemente dalla riflessione dei federalisti europei, guardando retrospettivamente la vicenda degli anni ’30, non si può non rilevare l’isolamento in cui i comunisti si erano trovati sia a seguito della politica del “socialfascismo”; sia, dopo il ’37, a seguito della crisi dei fronti popolari in Francia e in Spagna sia del fallimento degli appelli ai “fratelli in camicia nera” di Togliatti, nel ‘36.

[27] “Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui vanno ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali; ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai, educati classisticamente, non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o addirittura di categoria, senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti; oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe […]. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai” (A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 21).

[28] “La bussola […] non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita […]. la statizzazione generale dell’economia […] porta […] a un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia” (A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., 26).

[29] “Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e di successione, hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante la crisi rivoluzionaria in senso egualitario per eliminare i ceti parassiti […]” (cfr. art. 42, Cost.); “una riforma agraria che, passando la terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà del lavoratori nei settori non statizzati, con gestioni cooperative, azionariato operaio, ecc.” (cfr. art. 44 e art. 47, Cost.; A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 28).

[30] “Le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individuale non vanno mai spente nella morta gora della pratica routinière […]; quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo e di impiego, e contemporaneamente vanno consolidati e perfezionati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore vantaggio per tutta la collettività” (cfr. art 41, Cost.; A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 27).

[31] “I giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare le possibilità effettive di proseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi […]” (cfr art. 34, Cost.; A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 28).

[32] “[…] assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il vestiario, col minimo di conforto necessario per conservare il senso della dignità umana” (cfr. art. 38, Cost.; A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 28).

[33] “I lavoratori debbono tornare ad essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni cui intendono prestare la propria opera” (cfr. art. 39, Cost.; A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 29).

[34] N. Urbinati, Utopia europea, Castelvecchi, Roma 2019, p. 20 e ss.

[35] Si veda in proposito la proposta di von Hayek, nel 1939 di una federazione mondiale tra Stati come strumento istituzionale per garantire la pace ma anche per evitare che i governi potessero tentare una qualche politica redistributiva connessa all’intervento pubblico. In una dimensione politica così grande, infatti, le differenze politiche e la mancanza di solidarietà orizzontale tra i gruppi sociali a livello sovranazionale avrebbe costretto i governi ad affidare, per forza di cose ad una istituzione cieca come il mercato autoregolamentato la funzione di allocazione esclusiva delle risorse. In questo senso, come si vedrà in seguito il progetto del manifesto di Ventotene si pone in esatta antitesi a questo modello federativo liberale (cfr. F. A. von Hayek, Le condizioni economiche del federalismo tra stati, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016).

[36] “fin dall’inizio, […] Spinelli concepì l’unificazione dell’Europa come il processo di creazione di uno Stato, sia pure di uno Stato, come quello federale, nel quale il potere è distribuito su più livelli di governo. Più specificamente egli aveva ispirato la sua visione dell’unità europea al modello costituzionale americano. È da sottolineare che i principi istituzionali sui quali si fondano le Comunità europee si discostano sostanzialmente da quel modello e che l’evoluzione delle istituzioni europee ha ancora accresciuto la distanza tra i due modelli” (L. Levi, op. cit., p. 161).

[37] N. Urbinati, op. cit., p. 31.

[38] Il termine, come è noto, è di M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle Costituzioni, Rivista di diritto Costituzionale 1/96; negli stessi anni Guarino lo chiama “non-governo”: G. Guarino, Verso l’Europa, ovvero la fine della politica, Mondadori, Milano, 1997, p. 123.

[39] “Dopo il fallimento della CED Spinelli […] promosse una politica di opposizione al mercato comune”, dal 1962 si rende conto del successo di questo e considera la Comunità europea come il primo passo della federazione e quindi avvia la lotta per la trasformazione democratica delle istituzioni comunitarie, L. Levi, op. cit., p. 195. Sul tema, tra i tanti, recentemente C. Iannello, Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà, Maltemi, Milano, 2025, p. 86.

[40] “Sono consci della centralità della questione coloro i quali, giustamente, connettono ma anche subordinano gli sviluppi in atto o venturi dell’integrazione militare europea con la necessità di avviare una fase propriamente costituente che corrisponda allo sviluppo e all’esercizio di un’autentica sovranità popolare” (A. Patroni Griffi, Perché è sempre più necessaria una Costituzione per l’Europa, La Nuova Europa. Economia salute e società, 27/3/2025).

[41] L. Levi, op. cit., p. 173.

[42] In questo senso si veda la posizione di A. Somma, Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale, Rogas, Roma, 2021.

[43] Di recente C. Iannello, Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà, Militemi, Milano, 2025.

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