Il Piano del mare e le Isole minori. Qualche proposta

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Le Isole marittime minori italiane sono territori meravigliosi, mete di flussi turistici che portano grande ricchezza me che rischiano di creare forti divaricazioni sociali ed economiche e meccanismi di espulsione per i residenti. La sensibilità per questi problemi negli ultimi anni è andata crescendo, il Piano del mare può rappresentare uno strumento per coordinare alcune possibili soluzioni.

Le Isole marittime minori italiane sono territori meravigliosi, mete di flussi turistici che portano grande ricchezza me che rischiano di creare forti divaricazioni sociali ed economiche e meccanismi di espulsione per i residenti. La sensibilità per questi problemi negli ultimi anni è andata crescendo, il Piano del mare può rappresentare uno strumento per coordinare alcune possibili soluzioni.

Nel mese di giugno del 2025 il Comitato Interministeriale per le politiche del Mare (CIPOM) ha avviato le consultazioni pubbliche per la stesura del Piano del mare per il triennio 2026 – 2028 e nei prossimi mesi procederà all’audizione di una serie di soggetti tecnicamente o politicamente qualificati, portatori di conoscenze o di interessi pubblici connessi al governo della risorsa marina[1].

Questo documento di programmazione strategica costituisce un punto di raccordo e di razionalizzazione delle politiche pubbliche sul tema. Per avere un’idea sommaria dell’ampiezza delle politiche coordinate e messe a sistema in quella sede basti scorrere l’indice del precedente Piano, il primo ad essere approvato, quello per il triennio 2023 – 2025: spazi marittimi, rotte commerciali, porti, energia, transizione ecologica, pesca e acquicoltura, cantieristica, lavoro marittimo, risorse geologiche, turismo, cooperazione internazionale, sicurezza, cambiamento climatico. Tra i temi trattati dal documento nel precedente triennio compare anche un riferimento al “sistema delle Isole minori”.

Il sistema delle Isole minori marittime italiane, nel suo complesso, sta sperimentando in questi anni una riconsiderazione d’insieme, valorizzata, in apice, dall’inserimento dell’obiettivo di rimuovere gli svantaggi dell’insularità nel sesto comma dell’articolo 119 della Costituzione. A questa riforma dal grande impatto simbolico si accompagna un’attenzione di settore che prende avvio dall’inserimento del complesso dei 35 comuni Situati sulle Isole minori italiane[2] nella Strategia nazionale per le aree interne, in particolare nell’individuazione di essi come settantatreesima Area interna[3].

Per il Dipartimento per le politiche di coesione e per il sud i Comuni che insistono interamente sulle Isole minori sono classificati tutti come periferici o ultraperiferici[4], lontani o molto lontani dai Poli di fornitura dei servizi e quindi, da questo punto di vista, svantaggiati rispetto ad altre aree del paese nel godimento di diritti.

Le Isole minori tuttavia, rispetto alle altre aree interne vivono non solo gli effetti depressivi della lontananza dai Poli, ma vivono anche effetti derivanti dalla pressione antropica dei flussi turistici sui loro territori, piccoli, spesso splendidi e geologicamente e paesagisticamente fragili. Le Isole minori presentano, in effetti, una innegabile vocazione turistica, connessa al fatto di rappresentare alcuni dei luoghi più iconici del Mediterraneo: molto spesso questo le colloca in un settore del turismo di lusso e in ogni caso la loro economia rischia di virare prepotentemente verso modelli di “monocultura turistica”. Questa caratterizzazione, a sua volta, esacerba le differenze sociali tra coloro tra gli abitanti che direttamente o indirettamente vivono di turismo e coloro i quali rischiano di venire travolti dall’aumento dei prezzi di beni e servizi connesso all’implementazione dei flussi. L’insieme di questi fenomeni genera dinamiche espulsive ai danni della popolazione storicamente residente e specifiche difficoltà a lavorare sull’isola per soggetti, non impiegati nell’economia turistica, che avrebbero, invece, interesse a trasferirvisi dal continente.

La seconda questione che viene in rilievo in questa sede, è che le Isole minori sono “Aree interne in messo al mare”: banalmente i trasferimenti da e per l’isola, sono mediati dall’attività delle compagnie di trasporto marittimo. Ciò significa, come facilmente intuibile, che gli spostamenti non sono mai autonomi e che sono sempre legati nel come, nel quando e spesso anche nel se dalle condizioni metereologiche e dai piani orari delle compagnie. Questo fenomeno, ovvio, rende impossibile la gravitazione dei territori insulari nei bacini di quelle metropoli reticolari che attraverso i sistemi di pendolarismo stanno plasmando il volto dei sistemi urbani.

L’effetto diretto di questi due fenomeni si traduce in una difficoltà precipua dell’abitare le isole.

Si affronteranno qui di seguito alcuni aspetti di questa questione che possono trovare nella discussione sulla stesura del Piano del mare per il triennio 2026 – 2028 proposte e soluzioni.

La prima sfida dell’abitare riguarda la questione-casa. Come si diceva in precedenza lo spazio dell’Isola è uno spazio limitato e fragile e oggi le piattaforme di hosting permettono una pervasività sia della domanda che dell’offerta di immobili in locazione turistica tale da massimizzare le potenzialità estrattive del capitale. L’aumento del rent gap tra locazioni turistiche e locazioni residenziali fa scivolare sempre più immobili verso il primo dei due termini, ciò comporta, di conseguenza, un complessivo aumento dei costi dell’abitare e in particolare delle locazioni anche residenziali. In questo senso, le isole minori rappresentano un laboratorio del conflitto fra il diritto costituzionale all’abitare[5] e la pressione turistica, in cui la scarsità del bene casa non riesce a soddisfare la domanda di abitazione stabile[6].

I territori dei Comuni italiani totalmente insulari presentano canoni di locazione immobiliari mediamente molto alti. Questa intuizione può essere facilmente confermata dall’analisi dei dati dell’osservatorio per il Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate. Prendendo come riferimento l’elaborazione dello studio annuale sulla “Territorializzazione dei livelli dei canoni di locazione”[7], si evince che tra i sette comuni italiani in cui i canoni di locazione sono più alti, ben quattro risultano essere isolani (3° Capri, 5° Ponza, 6° Anacapri, 7° Ventotene). Su 33 Comuni interamente isolani, 12 si collocano nel primo percentile della distribuzione totale dei 7.900 Comuni italiani; 26 nei primi 5 percentili. Tutti i Comuni isolani presentano un livello dei Canoni di locazione che è più alto di quello della rispettiva media provinciale; 26 Comuni su 33 (il 78,8%) hanno valori che sono più alti di quelli del proprio capoluogo di Provincia, che molto spesso è uno dei Poli di erogazione di servizi attorno ai quali i Comuni gravitano; in 20 Comuni su 33 (il 60,6%) i valori di riferimento sono uguali o superiori anche a quelli del relativo Capoluogo di Regione.

Appare chiaro come ci sia bisogno nelle Isole minori italiane di una seria politica per le locazioni. Innanzitutto c’è la necessità di a regolamentare gli affitti brevi, immaginando mezzi di contrasto al passaggio di immobili dal mercato delle locazioni residenziali a quello delle locazioni turistiche.

In secondo luogo c’è da immaginare, anche con gli strumenti normativi già in campo, una politica per le locazioni più generale. Negli ultimi decenni, dopo il tramonto definitivo del mercato regolamentato introdotto alla fine degli anni ‘70 con il cosiddetto Equo canone, le politiche per la locazione in Italia hanno puntato prevalentemente sull’utilizzo di un diritto tributario premiale. Come è noto la legge n. 431 del 1998, liberalizzando parzialmente il mercato delle locazioni, introduceva due forme contrattuali: il contratto a canone libero, di quattro anni prorogabile per altri quattro, e quello a canone concordato, di tre anni, prorogabile per altri due. L’ammontare del canone concordato viene stabilito di intesa tra le associazioni rappresentative di inquilini e proprietari attive nel territorio del Comune di riferimento.

Già la legge n. 431 del 1998 immaginava un sistema di benefici fiscali per coloro che stipulassero contratti a canone concordato. L’idea di fondo è quella che l’accesso al beneficio fiscale possa sviluppare un interesse all’implementazione di una contrattazione collettiva in grado di generare canoni concordati più bassi di quelli liberi. In effetti, soprattutto nelle grandi città, il meccanismo inizia a dare qualche frutto positivo. Attualmente, dopo il decreto-legge n. 47 del 2014, , in luogo del regime ordinario, si può optare a) per la cedolare secca al 10% sui redditi da locazione a canone concordato degli immobili situati nei Comuni definiti “ad alta tensione abitativa” dalla legislazione precedente; b) per la cedolare secca al 21% per i redditi derivanti da tutti i contratti a canone libero, ovunque stipulati, e dai contratti a canone concordato stipulati nel resto del territorio nazionale.

Il concetto normativo di “alta tensione abitativa” risale legislazione degli anni ottanta (per la prima volta nel decreto-legge n. 9 del 1982, recanteNorme per l’edilizia residenziale e provvidenze in materia di sfratti): nei comuni indicati da delibere del CIPE, sulla base di criteri specificati nella serie di successivi decreti legge succedutesi negli anni ’80, il legislatore disponeva, di volta in volta, il blocco dei provvedimenti di rilascio degli immobili in locazione.  Il concetto di “alta tensione abitativa”, poi, passava dalla legislazione emergenziale, legata appunto ai provvedimenti di blocco degli sfratti, ad assumere una valenza sistemica, con la legge n 431 del 1998 che riconobbe per la prima volta un vantaggio fiscale (l’abbattimento dell’imponibile nel caso di scelta del regime di locazione concordato) alla circostanza che l’immobile ricadesse in un territorio ad alta tensione abitativa. Nelle intenzioni del legislatore, l’attuazione della disciplina era affidata ad un meccanismo di aggiornamento periodico (precisamente biennale) dell’elenco dei Comuni ad alta tensione abitativa.  In tal modo, il CIPE, su proposta del Ministro per i lavori pubblici e trascorso il periodo di due anni, avrebbe dovuto aggiornare l’elenco dei Comuni, coadiuvato dalle indagini condotte dal neo istituito Osservatorio della condizione abitativa. Il meccanismo di aggiornamento avrebbe dovuto evitare un eccessivo irrigidimento della disciplina e l’adeguamento ai cambiamenti sociali e abitativi del Paese.

Il condizionale è d’obbligo perché, in concreto, il meccanismo dinamico pensato per bilanciare i vari interessi in campo non seguì le tempistiche dettate dalla legge. Fin da subito, il CIPE tardò ad avviare la revisione dell’elenco dei Comuni. La delibera n. 86 del 2003, con la quale il CIPE adempiva agli obblighi di legge, in parte recepiva gli elenchi precedenti, stilati negli anni ’80 e ’90, in parte recepiva le indicazioni provenienti dalle Regioni. Ne risulta un quadro dei Comuni interessati piuttosto disomogeneo che coinvolge grandi città e alcuni centri minori a queste collegati, utilizzando anche parametri di individuazione in deroga rispetto alla stessa legge n. 431 del 1998.

L’elenco dei Comuni ad alta tensione abitativa risulta essere, non solo piuttosto disomogeneo e frutto di una mediazione tra strutture ministeriali e Regioni, ma anche formalmente e sostanzialmente inattuale. Lo è formalmente perché, per l’appunto, la legge prevedeva un aggiornamento periodico delle liste al quale, in più di un ventennio, non si è mai provveduto. Lo è dal punto di vista sostanziale, perché la realtà del mercato delle locazioni è negli anni mutato profondamente: la radicale turistificazione di parti importanti del territorio è uno dei fattori di questa mutazione.  Per i Comuni delle Isole minori l’inattuazione normativa ha avuto effetti molto negativi. Ad eccezione dei Comuni di Ischia e Forio – unici tra quelli isolani ad essere definiti ad alta tensione abitativa – nessun’altro è considerato nell’elenco approvato con la delibera del 2003.

La possibilità di accedere ad una aliquota agevolata per i redditi derivanti da locazione residenziale a canone concordato potrebbe essere un rimedio per garantire affitti più bassi a chi vuole continuare a risiedere sulle isole o trasferirvisi in pianta stabile. Questa misura potrebbe passare attraverso una revisione dell’elenco dei Comuni ad alta tensione abitativa da parte del CIPE (oggi diventato CIPES: Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile) o per una misura ad hoc che coinvolga solamente le Isole minori. Entrambe le soluzioni potrebbero essere oggetto di programmazione all’interno del prossimo Piano del mare.

Uno degli effetti collaterali dell’elevato costo delle locazioni sulle Isole minori è la difficoltà per i lavoratori, soprattutto del settore pubblico (lavoratori e lavoratrici della scuola, della sanità, dei servizi amministrativi, di quelli socioeducativi, ecc.), di trasferirsi in quei territori. Ciò comporta una difficoltà per le amministrazioni statali o comunali di garantire una continuità dei rispettivi servizi. D’altra parte lo stesso pendolarismo marittimo costituisce per i lavoratori che non possono o non vogliono trasferirsi un pesante svantaggio.

In questo senso, nell’ambito della discussione sul Piano del mare, dovrebbe porsi la questione di come sviluppare misure agevolative per i dipendenti pubblici in servizio su quei territori, quali, ad esempio, speciali indennità retributive connesse alla pendolarità o al cambio di residenza o ancora benefici di carriera, come il raddoppio del punteggio ottenuto per ogni anno di servizio sui territori isolani, come già avviene per gli insegnanti[8].  

Questi appena accennati sono solo alcuni spunti. Il Piano del mare può costituire un passaggio significativo per contribuire a ripensare le politiche pubbliche per le Isole minori: importante anche perché alla definizione di esso contribuiscono in sede consultiva i soggetti portatori di interessi collettivi afferenti a quei territori, primo tra tutti l’ANCIM (Associazione Nazionale Comuni Isole Minori). La speranza è che l’attivazione di una collaborazione interistituzionale sviluppata in quella sede possa realmente contribuire a inverare il novellato dettato costituzionale, rimuovendo, nel possibile, gli vantaggi dell’insularità.


[1] Fino ad ora, lo stakeholder ascoltato è l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale che ha posto l’attenzione prevalentemente sulle criticità strutturali legate all’approvvigionamento energetico, idrico e alla gestione sostenibile delle risorse naturali. Per la consultazione del report v. https://www.dipartimentopolitichemare.gov.it/media/einhlc4z/ogs.pdf

[2] I Comuni sono Portovenere (sulla terra ferma, in Liguria, comprende le isole di Palmaria, Tino e Tinetto); Campo nell’Elba, Capoliveri, Isola del Giglio, Marciana, Marciana Marina, Porto Azzurro, Portoferraio e Rio (in Toscana); Ponza e Ventotene (nel Lazio); Anacapri, Barano d’Ischia, Capri, Casamicciola Terme, Forio, Ischia, Lacco Ameno, Procida e Serrara Fontana (in Campania); Isole Tremiti (in Puglia); Favignana, Lampedusa e Linosa, Leni, Lipari, Malfa, Pantelleria, Santa Marina di Salina e Ustica (in Sicilia); Calasetta, Carloforte, La Maddalena, Sant’Antioco, Porto Torres (in Sardegna, l’ultimo comune indicato, posto sulla terraferma, comprende il territorio dell’Asinara).

[3] Il 6 Aprile 2022 la Conferenza Stato-Regioni ha dato parere favorevole alla costituzione della 73esima area della Strategia Nazionale Aree Interne, che comprende i 35 Comuni delle isole minori. La relativa istruttoria è consultabile al link https://www.agenziacoesione.gov.it/wp-content/uploads/2022/09/Istruttoria_Comuni_Isole-Minori_2022.pdf

[4] Nell’ambito della Strategia Nazionale per le Aree Interne, sono considerati comuni periferici o ultra periferici quelli distanti o significativamente distanti dai comuni considerati “centro di offerta di servizi” ovvero in grado di offrire simultaneamente un’articolata offerta scolastica secondaria superiore; b. un ospedale sede di Dipartimento di Emergenza Urgenza e Accettazione (DEA) almeno di I livello; c. una stazione ferroviaria di livello Platinum, Gold o Silver.

[5] Secondo la Corte Costituzionale, il diritto all’abitazione “rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” ed è compito dello Stato garantirlo, contribuendo così “a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana” (v. sentenza Corte Cost. n. 217 del 1988; nello stesso senso, v. sentenze Corte Cost. n. 106 del 2018, n. 168 del 2014, n. 209 del 2009 e n. 404 del 1988). Quindi, “benché non espressamente previsto dalla Costituzione, tale diritto deve dunque ritenersi incluso nel catalogo dei diritti inviolabili e il suo oggetto, l’abitazione, deve considerarsi «bene di primaria importanza» (sentenza Corte Cost. n. 166 del 2018; si vedano anche le sentenze Corte Cost. n. 38 del 2016, n. 168 del 2014 e n. 209 del 2009)”.

[6] Ampiamente sul tema, A. Caputi e A. Fava, Privati di Napoli. La città contesa tra beni comuni e privatizzazioni, Castelvecchi, Roma, 2022.

[7] Lo studio completo e la rispettiva nota metodologica sono consultabili al link: https://www.agenziaentrate.gov.it/portale/documents/d/guest/allegato-109-territorialita-del-livello-dei-canoni-di-locazione-degli-immobili.

[8] Si veda l’audizione alla Camera nel giugno del 2024, dei Comuni eoliani https://documenti.camera.it/leg19/documentiAcquisiti/COM09/Audizioni/leg19.com09.Audizioni.Memoria.PUBBLICO.ideGes.39089.24-06-2024-13-16-54.115.pdf.

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