Di cosa parlano le nostre statistiche sul mercato del lavoro?

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Political and social notes

Le analisi sul mercato del lavoro italiano si basano principalmente, anche se non esclusivamente, sulle statistiche prodotte dall’Istat con la rilevazione sulle forze di lavoro. Nella maggior parte dei casi, però, gli utilizzatori di questa fonte trascurano di chiarire ai loro lettori quali sono le definizioni di occupazione e disoccupazione che sono adottate dall’Istat nell’ambito dell’attuale indagine Rilevazione continua sulle forze di lavoro (Rcfl). L’esplicitazione dei criteri definitori è di cruciale rilevanza, poiché come vedremo di seguito esiste uno scarto sensibile tra il senso socialmente attribuito a termini di “occupazione” e “disoccupazione” e quello che, invece, è contenuto nelle definizioni adottate dall’indagine Rcfl. Ciò comporta il rischio di una mistificazione della realtà, soprattutto agli occhi della vasta platea di fruitori di statistiche non esperti (che non sono pochi neanche tra gli addetti ai lavori) e, più in generale, dell’opinione pubblica.
L’introduzione dei criteri definitori che attualmente utilizza l’Istat si è avuta con l’adeguamento della Rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro (Rtfl) al Regolamento n. 577/98 del Consiglio dell’Unione Europea. Ciò ha introdotto, tra l’altro, il vincolo della continuità della rilevazione (da qui il passaggio dalla rilevazione trimestrale a quella continua), e ha indicato una nuova sequenza e una diversa formulazione dei quesiti dell’indagine, ma soprattutto una diversa definizione degli “occupati” e delle “persone in cerca di occupazione”, secondo quanto suggerito dall’International Labour Office. In particolare, a differenza di quanto avveniva in precedenza con la Rtfl, attualmente la rilevazione della condizione occupazionale è svincolata dalla percezione che l’individuo ha della propria situazione lavorativa.
Chi sono gli occupati secondo l’Istat? Parafrasando la definizione adottata nell’indagine Rcfl sono considerate “occupati” le persone con 15 anni e oltre che: (1) nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura; a queste persone si sommano, poi (2) quelle che hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nell’impresa di un familiare nella quale collaborano abitualmente; e, infine, (3) le persone che per diversi motivi sono assenti dal lavoro (per esempio per ferie, per malattia) con alcune limitazioni: (3a) nel caso dei lavoratori dipendenti l’assenza non deve superare i tre mesi e la retribuzione non deve essere sotto la soglia del 50%; (3b) nel caso dei lavoratori indipendenti, sono considerati “occupati” quelli che durante il periodo d’assenza, mantengono l’attività; (3c) nel caso, invece, dei coadiuvanti familiari, per essere considerati “occupati” l’assenza non deve superare i tre mesi.
All’interno di questi criteri i punti che ci appaiono critici sono innanzitutto la soglia d’orario ridottissima (un’ora settimanale) per essere considerati “occupati”; a ciò si aggiunge che lo status di occupato non è legato alla presenza di un contratto di lavoro regolare o al rispetto di alcune fondamentali norme in materia di lavoro e, infine, che si considerino come occupazione anche le attività svolte senza corrispettivo monetario (basta un corrispettivo in natura). Tali criteri non coincidono con il senso socialmente attribuito al lavoro e all’essere occupato e sottendono un modello di mercato del lavoro che ipotizza un’occupazione con più elevati livelli di flessibilità, di mobilità, di discontinuità e, tutto sommato, di precarietà, in cui il lavoro e sempre più svincolato dalla regolazione istituzionale e spogliato degli elementi, materiali e simbolici, di strutturazione sociale. Infatti, attraverso tali criteri è statisticamente inclusa tra gli occupati una quota, più o meno rilevante, di persone che non si percepiscono come “occupati” e che farebbero molta fatica a definirsi come tali. Si provi a pensare come “occupato” un giovane senza nessun tipo d’attività lavorativa quotidiana, ma che in una settimana ha impiegato un paio d’ore per un solo giorno a fare attività di facchinaggio (per esempio il trasloco di un conoscente) per un corrispettivo a nero di poche decine di euro. Simili impieghi non contengono i requisiti che consentono ad una persona di percepirsi occupato, eppure statisticamente lo sono. Siamo, invece, nell’ambito di quelli che comunemente sono chiamati “lavoretti”, che non incidono sull’autopercezione delle persone che, pertanto, non si sentono occupati e nemmeno dei lavoratori saltuari.
Tornando ai criteri definitori utilizzati dall’Istat, si osserva che anche per la misurazione della disoccupazione i criteri sono sensibilmente lontani dalla percezione sociale del fenomeno. La disoccupazione, infatti, è stimata dal conteggio delle “persona in cerca di occupazione”, espressione con la quale l’Istat intende l’insieme delle persone non occupate tra i 15 e 74 anni che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nei trenta giorni che precedono l’intervista e sono, altresì, disponibili a lavorare o ad avviare un’attività autonoma entro le due settimane successive all’intervista. A questi, inoltre, si sommano le persone che inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla data dell’intervista e sono disponibili a lavorare o ad avviare un’attività autonoma entro le due settimane successive all’intervista, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro. In altri termini, non basta l’assenza di lavoro per essere conteggiato ai fini della disoccupazione, bisogna dimostrare di aver avviato la ricerca attiva di occupazione ed essere immediatamente (e incondizionatamente) disponibili a lavorare, a prescindere dal tipo di lavoro e dalle condizioni occupazionali offerte. Senza escludere neanche l’occupazione a nero. Se queste condizioni non sussistono, gli intervistati sono conteggiati come “persone non attive”. Anche in questo caso l’applicazione dei criteri ufficiali comporta che molte delle persone, che pure si percepiscono come disoccupate, non rientrano nei criteri che definiscono statisticamente la disoccupazione (e non sono conteggiati come tali). Facendo un esempio, un giovane lavoratore senza occupazione che nell’ultimo mese non ha fatto un tentativo di ricerca di lavoro (mandando un curriculum, presentandosi presso un’impresa, andando al CpI, etc.) oppure, se lo ha fatto, non è disponibile ad accettare un lavoro con una paga troppo bassa, magari a nero, o un lavoro troppo pesante, o non corrispondente al suo titolo di studio, l’Istat in questi casi non lo conteggia come “persona in cerca di occupazione”, ma come “persona non attiva”, e quindi fuori dal calcolo della disoccupazione.
Tenendo conto della discrepanza tra la definizione statistica e la percezione sociale di occupazione e disoccupazione, bisognerebbe valutare in quale misura l’applicazione degli attuali criteri definitori provoca una sovrastima nella percezione sociale dell’occupazione dovuta all’inclusione di persone che svolgono lavoretti saltuari, ma che, di fatto, non hanno un’occupazione (al più rappresentano quelli che la letteratura definisce working poor) e una sottostima della disoccupazione, in quanto molte delle persone senza occupazione sono considerate come “non attive”, per l’esclusione in particolare dei “lavoratori scoraggiati”, ovvero quelli che non cercano un’occupazione, perché hanno la percezione di non poterla trovare, ma che pure sono disponibili a lavorare (fenomeno per esempio molto rilevante per il Mezzogiorno, in cui c’è uno squilibro strutturale tra domanda e offerta di lavoro).
In definitiva, tale ragionamento non vuole condurre ad una delegittimazione della preziosa informazione statistica prodotta dall’Istat, ma vuole invece stimolare un ripensamento dei criteri definitori adottati, al fine di elaborare una proposta di revisione degli stessi da discutere in ambito europeo. Una riflessione critica e una proposta operativa si rendono necessarie soprattutto per un paese come l’Italia in cui le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro, in particolare i diversi dualismi (di genere, d’età, territoriali, etc.), lo rendono notevolmente diverso dal modello analitico sottostante ai criteri adottati per la misurazione dei principali indicatori del mercato del lavoro. Nel frattempo è necessario richiamare tutti gli operatori che utilizzano questa fonte statistica a tener conto nei propri ragionamenti delle definizioni che l’Istat adotta, ricordandosi che anche con i dati statistici abbiamo a che fare con una costruzione sociale della realtà, ovvero con una rappresentazione del mondo.

 

* Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Scienza della Politica dell’Università di Salerno.

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