Quel capitale pericoloso: tutte le formule di Piketty

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piketty1. Se si fa tanto di arrivare alla fine del Capitale nel XXI secolo (Bompiani, 2014, ma le indicazioni bibliografiche del testo sono dall’edizione inglese) di Thomas Piketty il godimento è assicurato – però che fatica! S’imparano tante cose, tranne forse l’impianto analitico che le regge, che può sfuggire al lettore sommerso com’è da una quantità di grafici e tabelle. Eppure quell’impianto teorico è ben presente a partire dalla conclusione teorica che dice che, quando il tasso di rendimento del capitale (al netto delle tasse) supera il saggio di crescita del reddito, le diseguaglianze economiche aumentano fino a poter risultare «incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società democratiche» (p. 26). Infatti, quando «l’imprenditore tende inevitabilmente a diventare un rentier sempre più dominante su coloro che non posseggono altro che il proprio lavoro, il capitale si riproduce più velocemente dell’aumento della produzione e il passato divora il futuro» (p. 571).

Ora questa «contraddizione centrale del capitalismo: r > g» (p. 571), che sta «alla base di una società di rentier» (p. 564), si è mantenuta per tutto il Sette e Ottocento e fino al 1913 (a che serve, come fa l’autore, cominciare dall’anno zero d.C.?), salvo però franare sotto l’urto delle due guerre mondiali e di una Unione Sovietica vista quale concreto competitor rispetto al capitalismo. Fu allora che vennero introdotte politiche economiche di welfare e redistribuzione della ricchezza che portarono a (r < g), ma è stata una parentesi nella storia economica (cfr. fig. a p. 356) perché, non appena scomparsa l’URSS, è ritornato trionfante (r > g) con tendenza del differenziale a crescere illimitatamente anche nel XXI secolo. Ma dove la causa della diseguaglianza tra r e g? Secondo Piketty bisogna partire dal rapporto del capitale sul reddito:

 β = K / Y

dove K è lo stock del capitale “tutto compreso” (a meno del solo “capitale umano”) ed Y il flusso della produzione annua “al netto” degli ammortamenti per il capitale impiegato che non si possono distribuire alle parti sociali per non intaccare la “riproducibilità” del sistema, almeno nelle condizioni esistenti. Dopo di che, nel caso di una funzione lineare di produzione a capitale e lavoro (ma questo è detto soltanto in nota a p. 599), risulta:

 Y = r K + W

dove r è il tasso di rendimento capitalistico “tutto compreso” («rendite, dividendi, interessi, royalties, profitti, capital gains, ecc.»)(p. 242) e W è l’ammontare delle remunerazioni che spettano ai lavoratori.

Ci si concentri ora sulla quota percentuale di reddito che va al capitale:

 α = r K / Y = r β

È questa la «prima legge fondamentale del capitalismo» (p. 52) che mostra come la percentuale di reddito percepita dal capitale sia in funzione diretta del rapporto capitale/reddito così che, se questo aumenta senza un’adeguata diminuzione di r, aumenterà la diseguaglianza di reddito tra le classi. E Piketty documenta come per il mondo nel suo complesso (l’esagerazione è tutta sua) il rapporto capitale/reddito, diminuito da un valore compreso tra 4 e 5 del periodo 1870-1910 ad un valore di 2,5/3,5 tra 1920 e 1980, sia poi risalito a 4,5 nel 2010 con la possibilità, secondo le sue proiezioni, di arrivare a 6,5 per la fine del XXI secolo (p. 196).

Ma perché tanto peggioramento del rapporto capitale/reddito? La ragione sta nella «seconda legge fondamentale del capitalismo» (p. 166):

 β = s / g

dove s = percentuale di reddito risparmiata (al netto dell’ammortamento del capitale impiegato) e g = saggio di crescita del reddito. È questa la relazione tipica dei modelli di “crescita bilanciata” alla Harrod-Domar (cfr. pp. 231-232) ed è una condizione di equilibrio di lungo periodo valida nell’ipotesi che tutto il risparmio finisca ad incremento del capitale disponibile[1] e che giustifica perché mai, «se un paese risparmia molto e cresce poco, nel lungo andare accumulerà una enorme quantità di capitale (relativamente al suo reddito) con conseguenze significative sulla struttura sociale e la distribuzione del reddito» (p. 166).

Ora si raccolga il tutto (ma Piketty non lo fa) nella formula sintetica:

 α = r . s / g

dove ben si vede come la percentuale di reddito che va al capitale aumenta se cresce il tasso di rendimento e/o la propensione al risparmio, mentre diminuisce se aumenta il saggio di crescita del reddito. È questa la formula che giustifica la conclusione teorica da cui si erano prese le mosse, essendo evidente che, a meno di una diminuzione di s, α cresce se r > g. In un esempio esagerato (p. 233) viene detto che, se alla fine del XXI secolo e per l’intero mondo saranno g = 1% e s = 10%, per r = 5% sarebbe α = 50% con la metà del reddito prodotto che andrebbe a rendimento del capitale! Ovviamente una simile proiezione lascia il tempo che trova, ma a Piketty serve per «illustrare il ruolo cruciale svolto da una bassa crescita del reddito nell’accumulazione del capitale» (p. 196).

2. Però il mondo non è strutturalmente omogeneo, così che alla fine del XXI secolo potrebbero  presentarsi delle differenze significative tra le grandi aree geopolitiche, che peraltro già ci sono se nel 2010 il rapporto capitale/reddito è appena superiore a 4 negli Stati Uniti, ma quasi 6 in Europa e in Italia circa 7. Però la differenza si spiega col fatto che il saggio di crescita del reddito (com’è noto nella teoria economica) è pari alla somma del tasso di crescita del reddito pro-capite g’ con quello d’aumento della popolazione n:

 g = g’ + n

così che «paesi con tassi di crescita del reddito pro-capite analoghi possono trovarsi con rapporti di capitale/reddito assai differenti semplicemente perché i loro tassi di crescita demografica non sono gli stessi» (p. 167). E siccome per il periodo 1970-2010 è stato stimato un aumento percentuale di popolazione dell’1% negli USA e dello 0,50% in Europa, ecco perché «il rapporto capitale/reddito risulta strutturalmente più alto in Europa che negli Stati Uniti» (p. 175).

A prescindere dalla diversità nazionali (che poi Piketty considera in dettaglio, ma che qui non interessano), dalla sua meticolosa analisi statistica emerge in prospettiva la comparsa di un «capitalismo patrimoniale globalizzato» (p. 473) analogo a quello che fu già dell’ancien régime e della belle époque, sebbene adesso dovuto alla concomitanza di meno crescita di reddito e popolazione e maggior tasso di risparmio. Di esso vengono poi descritte in dettaglio le storture: dall’esagerata disparità di rendimento tra i singoli capitali, che produce i “super-ricchi”, alle differenze di salario per i singoli lavori che porta ai “super-manager” e infine al meccanismo di successione ereditaria che trasferisce le “grandi fortune” da chi le ha, accumulate alle volte con genialità e fatica a discendenti molto spesso “senza qualità”. Il tutto porta verso una «società ereditaria», che è l’opposto di una società meritocratica, con cui «io intendo una società caratterizzata sia da una iper-concentrazione della ricchezza che da una consistente persistenza delle grandi fortune da una generazione all’altra» (p. 351).

Tanta crescita di sperequazione dei redditi è però alla lunga insopportabile ed il mercato vi pone rimedio periodico spontaneo con le crisi di devalorizzazione del capitale, come accaduto tra 1914 e 1945 per mezzo di due guerre mondiali inframezzate da una “grande depressione” (la “crisi di devalorizzazione” di fine Settecento, che però a Piketty è sfuggita, è stata invece il prodotto della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche!). Onde evitare che anche in futuro ci attendano «la prossima crisi o la prossima guerra che questa volta sarebbero veramente globali» (p. 471), egli richiede d’intervenire consapevolmente su qualcuna delle variabili presenti nella sua formula conclusiva e la prima soluzione che viene alla mente per disinnescare il pericoloso aumento di α sarebbe quella d’incentivare la crescita del reddito, che però non sembra possibile se le sue previsioni statistiche, che la danno in diminuzione nel XXI secolo (dal 3,5% tra 2012 e 2030 al 3% dal 2030 al 2050 ed infine al 2% nel 2050-2100) (p. 101), sono verosimili.

Ecco perché egli propone di agire invece sulla propensione al risparmio riducendola mediante una «imposta progressiva mondiale sul capitale accompagnata dalla massima trasparenza finanziaria internazionale» (p. 515) che gli pare uno strumento fiscale più adatto «per rispondere alle sfide del XXI secolo rispetto alla tassazione progressiva del reddito ch’è stata propria del XX secolo» (p. 473). Ma s’intenda: «tutti i tipi di patrimonio vanno considerati: proprietà immobiliari, patrimoni finanziari e commerciali – nessuno escluso» (p. 517) perché quella tassazione non avrebbe affatto lo scopo di sovvenzionare lo Stato sociale (sebbene gli introiti finirebbero nelle casse pubbliche), ma quello «di fermare prima di tutto la crescita indefinita della diseguaglianza della ricchezza e poi d’imporre una regolazione effettiva del sistema finanziario e bancario che ne eviti le crisi» (p. 518). Egli è però consapevole del carattere utopico della sua proposta, che consiglia di tentare almeno a livello locale, «in particolare in Europa a partire dai paesi meglio disposti ad adottarla» (p. 471).

Ma perché mai, resta da domandarsi, dovrebbe esserci convenienza capitalistica ad una riduzione del rapporto capitale/reddito che andrebbe comunque a danno dei rentier? C’è convenienza perché qui c’è qualcos’altro che Piketty nemmeno sospetta, e cioè che quel suo rapporto cruciale possiede anche un significato teorico ben diverso da quello da lui descritto. Esso è infatti l’inverso del “saggio massimo del profitto”, da intendersi come quel saggio di rendimento capitalistico che si avrebbe «se i lavoratori vivessero d’aria» e che nessun altro saggio di rendimento può superare perché ai lavoratori viene in realtà pagato qualcosa. È questa una grandezza economica introdotta da Piero Sraffa in Produzione di merci a mezzo di merci (1960) e che consegue dalla equazione di distribuzione del reddito:

 Y = r K + W

nell’ipotesi che W = 0, così che:

max r = Y / K = 1/ β

Ora questo saggio massimo del profitto, che costituisce per definizione il limite estremo di remunerazione percentuale del capitale, se viene a diminuire per l’aumento del rapporto capitale/reddito, non può che ridurre lo spazio di movimento dei rendimenti percentuali d’ogni capitale, essendo naturalmente: r < max r. Al limite, se mai venisse il momento in cui max r = 0, sarebbe necessariamente anche r = 0 a dimostrazione analitica esemplare che “il limite di rendimento del capitale è il capitale stesso”, come aveva già detto (più o meno) Karl Marx nel suo Capitale (nel XIX secolo). Allora è marxista Piketty? Ma niente affatto. È il capitale che nella sua logica di movimento è marxista!

 

[1] La logica di costruzione è questa: se l’incremento di reddito ΔY è provocato dalla produttività del capitale Y/K per l’incremento del capitale ΔK coincidente col risparmio S = sY (p. 178), allora
ΔY = Y/K x ΔK
e quindi:
g = ΔY/Y = Y/K x ΔK/Y = Y/K x S/Y = s / β

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