Ricerca e formazione: No alla valutazione centralizzata

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Discutere oggi di valutazione nel nostro Paese richiede una radicale operazione di ecologia semantica e di manutenzione delle parole. Lo stesso termine “valutazione”, infatti, si adopera oggi impropriamente per designare uno specifico dispositivo di New Public Management utilizzato a fini di governo piuttosto che nella sua tradizionale accezione di strumento di riflessività formativa e scientifica. Basta scorrere alcune pagine che Aldo Visalberghi scrisse oltre sessanta anni fa nell’introdurre in Italia lo studio della valutazione. Mai – ammoniva Visalberghi -la valutazione avrebbe dovuto essere impiegata sulla base di un’impostazione gerarchica tesa a “istituire [per mezzo di essa] una sorta di classismo o castalismo aggiornato” (1955, p. 12). Del resto – chiosava l’illustre pedagogista non potendo evidentemente immaginare l’uso distorto che se ne sarebbe fatto oggi – si tratta di una “disciplina talmente complessa e consapevole della selva di interrogativi in cui si muove, che difficilmente verrebbe in mente a qualcuno che ne sia minimamente informato, di farne un uso così sciocco come quello di dividere per suo mezzo le persone in intelligenti e stupide e di determinare così la loro destinazione sociale” (ibidem).

Ebbene, un’analoga istanza di rettifica semantica si dovrebbe far valere anche a proposito di alcuni miti d’oggi che sono sbandierati non meno scioccamente nei discorsi sulla valutazione scolastica, sulla valutazione dell’università e della ricerca (Borrelli 2016): “premialità“, “meritocrazia“, “eccellenza“, ad esempio, sono tutte espressioni utilizzate in modo tendenzioso e mistificante. Un premio finanziario è qualcosa che si dovrebbe dare in aggiunta ai fondi ordinari, e non una minore riduzione degli stessi. La meritocrazia (Young 1958) prefigura una distopia sociale piuttosto che un ideale di equità cui aspirare. L’eccellenza è un concetto relazionale tale per cui, se si riuscisse a fare in modo che tutti i ricercatori davvero la raggiungessero, essa neanche esisterebbe come idea: la ricerca, come la conoscenza del resto, è per definizione qualcosa di costantemente incompiuto e perfettibile, alla quale sarebbe quanto meno velleitario attribuire la qualifica di eccellente.

In tempi di offuscamento semantico è importante ribadire con forza alcuni principi inderogabili. Uno di essi riguarda il fatto che la valutazione non può che essere parte della stessa attività di ricerca, nonché patrimonio delle comunità scientifiche che la esercitano secondo le proprie specifiche consuetudini epistemiche. In quanto tale, la funzione valutativa non dovrebbe essere sequestrata da un’agenzia paragovernativa né surrogata artificiosamente attraverso un insieme di criteri eteronomi e di misurazioni di “produttività” fondamentalmente estranee alle singoli tradizioni disciplinari e ai relativi sistemi di apprezzamento scientifico. Si pensi, ad esempio, ai docenti delle scuole che allenano gli studenti per la soluzione delle prove INVALSI, oppure alla classificazione delle riviste nei cosiddetti settori non bibliometrici, per cui di un articolo scientifico ormai si rinuncia a giudicare l’eventuale contributo all’avanzamento delle conoscenze per limitarsi a verificare se la rivista che lo ospita è di fascia A o meno. L’esercizio di Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR), ad esempio, viene svolto allo scopo di dirottare maggiori risorse finanziarie verso quelle strutture accademiche dove si farebbe migliore ricerca. Ma questa non è mai stata la motivazione di chi fa ricerca, e non per caso. Né tanto meno dovrebbe essere la finalità di un legislatore che voglia disegnare l’università del futuro (De Martin 2017) con l’obiettivo di “fornire una educazione di qualità, equa ed inclusiva”, secondo quanto previsto dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile sottoscritta nel 2015 in sede ONU.

Ma quali sono allora i reali fondamenti e quali le vere funzioni che la valutazione di stato assicura dal momento che i suoi asseriti effetti in termini di miglioramento della qualità della ricerca nel suo complesso sono tutt’altro che chiari e unanimemente riconosciuti?

Le funzioni inconfessabili della valutazione

I fautori di questo sistema centralizzato di valutazione sostengono che la valutazione non porta i frutti sperati quando non viene assunta come un reale abito culturale ma ci si limita a viverla come un mero adempimento burocratico. Il presupposto implicito di questo discorso è che basterebbe buttare via l’acqua sporca della logica dell’adempimento per far emergere il bambino della cultura della valutazione. In realtà, sembra che il vero fondamento di questo dispositivo sia proprio la produzione di acqua sporca, ovvero l’imposizione alla scuola e all’università di un oneroso sistema di adempimenti burocratici allo scopo di soddisfare un bisogno di legittimazione simbolica a beneficio dell’opinione pubblica (anzi dei taxpayers, come oggi si dice).

Di conseguenza, l’applicazione solo estrinseca ed adempimentale della valutazione non può essere trattata come un indesiderabile effetto perverso rispetto alla sua pretesa funzione manifesta. Al contrario – è questa l’ipotesi che qui si sostiene- essa svolge efficacemente proprio le funzioni per le quali il dispositivo valutativo è stato messo a punto. È in questa prospettiva, peraltro, che si comprende il mantra, altrimenti ingiustificato e inspiegabile, per cui sarebbe meglio una cattiva valutazione che nessuna valutazione.

Per questa ragione non è produttivo limitarsi a fare un tagliando della valutazione centralizzata rivedendo qua e là singoli aspetti dell’impianto complessivo. La valutazione ANVUR assomiglia in questo senso a un articolo di fede, a una teologia in cui, come ha spiegato il filosofo Gilles Deleuze, tutto si presenta come razionale”se si danno per assunti il peccato, l’immacolata concezione, l’incarnazione. La ragione è sempre una zona ritagliata nell’irrazionale…” (1973, p. 44). Si tratta allora di adottare una prospettiva critica radicale, che metta cioè in questione la “radice” di questa teologia della valutazione al fine di spiegare su che cosa essa fonda e legittima socialmente le sue irrazionali pretese di razionalità.

C’è una ragione tutta interna al mondo universitario e al suo sistema di potere, ad esempio, per cui la cultura della valutazione dà necessariamente luogo a una logica dell’adempimento e si risolve poi in un disegno di normalizzazione autoritaria. La valutazione introduce un insieme di condizionamenti e, appunto, di obblighi da adempiere all’interno di un’istituzione che per vocazione storica e dettato costituzionale dovrebbe operare, per dirla con Jacques Derrida, in relativa autonomia e “senza condizione” (2001).

I procedimenti con cui l’ANVUR e l’INVALSI hanno organizzato il Sistema Nazionale di Valutazione seguono la logica del trasferimento di pratiche e conoscenze dall’alto: come può la scuola autonoma assoggettarsi alle logiche cristallizzanti di una valutazione centralizzata e standardizzata? Di fatto, allestire una tecnostruttura centralizzata per la valutazione della ricerca significa generare forti pressioni al potenziamento di funzioni di “sovranità” sulle e nelle istituzioni universitarie e nelle scuole. In virtù di questo processo di verticalizzazione organizzativa, si possono così soddisfare gruppi di potere che non potevano essere più adeguatamente garantiti o lo erano solo in modalità informali e con sempre minore legittimazione sociale.

Il fatto che l’insieme dei “prodotti di ricerca” delle università sia sotto controllo da parte di un’agenzia esterna e che dalle sue valutazioni dipenda in parte il loro finanziamento giustifica la formazione all’interno di ogni istituzione di un sistema di comando verticale che si assuma direttamente la responsabilità di governarne il processo di produzione. L’imputazione di responsabilità manageriale produce un modello di leadership che determina nuove fonti e chance di gerarchizzazione contraendo gli spazi di democrazia interna. La produttività di ciascuno concorre alla premialità di tutti, cosicché tutti si sentono in linea di principio investiti del diritto-dovere di ingerirsi nel lavoro di ciascuno. Ecco come lo “stato valutativo”(Neave 2012; Pinto 2012) tende a fare di ciascuna istituzione un’entità quasi-sovrana che esercita potere al suo interno su ciascuno dei suoi membri e compete all’esterno con altre istituzioni (con altre entità quasi-sovrane) per contendere ad esse studenti e fondi di finanziamento.

In definitiva, la valutazione così come viene concepita e praticata oggi nelle scuole e nelle università italiane assomiglia più a uno strumento di comando che a un’occasione di riflessività formativa e scientifica. Per restituirla alle sue funzioni c’è bisogno di una nuova sensibilità capace prima di tutto di rimettere in discussione l’egemonia culturale per effetto della cui influenza negli ultimi anni si sono caricate scuola e università di principi di ingegneria gestionale e di valori aziendalistici che nulla dovrebbero avere a che fare con le loro finalità e con la loro specifica condizione di essere luoghi di trasmissione e produzione di sapere “senza condizioni”. Si tratta di un presupposto fondamentale per resettare e riavviare le istituzioni formative italiane e per ripristinarvi condizioni di agibilità scientifica e democratica, dal momento che – come diceva Confucio – “quando le parole perdono il loro significato, le persone perdono la propria libertà”.

 

*Università del Salento

**Università degli Studi Suor Orsola Benincasa

 

Bibliografia

Alvesson, M. e Spicer, A. Il paradosso della stupidità. Il potere e le trappole della stupidità nel mondo del lavoro, Raffaello Cortina, Milano 2017.

Beauvallet, M., Le strategie assurde. Come fare peggio credendo di fare meglio, Garzanti, Milano 2010.

Boltanski, L., Della critica. Compendio di sociologia dell’emancipazione, Rosenberg & Sellier, Torino 2014.

Borrelli, D. (2015), Contro l’ideologia della valutazione. L’ANVUR e l’arte della rottamazione dell’università, Jouvence, Milano.

Borrelli, D. (2016), “La valutazione della qualità: un ‘mito d’oggi’? Considerazioni introduttive agli interventi di Ian McNay e Jochen Glaser”, Sociologia italiana, vol. 8, p. 101-117.

Deleuze, G. (1973), “Capitalismo e desiderio. Conversazioni fra Félix Guattari e Gilles Deleuze”, in ID., La fine degli intellettuali, Medusa, Milano, pp. 43-69.

Derrida, J. (2001), L’università senza condizione, con Rovatti, P.A., Cortina, Milano 2002.

Pinto, V. (2012), Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Cronopio, Napoli.

Viesti, G. (2016) (a cura di), Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, Donzelli, Roma.

Visalberghi, A. (1955), Misurazione e valutazione nel processo educativo, Edizioni di Comunità, Milano.

Young, R. L’avvento della meritocrazia. Gli uomini sono tutti uguali?, Comunità Editrice, Roma/Ivrea 2014.

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