Nel libro Il tempo di Ares. Politiche internazionali, leggi economiche e guerre (Mondadori, Milano, 2025) Stefano Lucarelli adotta un’originale chiave interpretativa per dar conto delle guerre in corso, sintetizzata in questi termini: “l’evidenza scientifica support[a] una «legge» di tendenza verso la centralizzazione del capitale che distrugge la democrazia e fomenta la guerra. Man mano che i mercati internazionali si aprono, la concorrenza fra capitali conduce ad un esito molto diverso da ciò che viene auspicato dai modelli teorici mainstream: la proprietà azionaria parcellizzata e diffusa viene sottoposta al controllo di fatto di pochi. Questo esito si accompagna ad una tendenza protezionistica da parte degli Stati Uniti, il Paese che più subisce i tentativi di controllo dei capitali provenienti da chi ha maturato maggiori surplus commerciali. Ed è il dragone cinese a essere divenuto il grande creditore degli Stati Uniti”.
Questa chiave interpretativa è in larga misura assente nella letteratura economica contemporanea e può farsi risalire – oltre che ovviamente a Marx – a Hilferding e, più di recente, al volume Monopoly capital di Baran e Sweezy del 1966. È noto, a riguardo, il passaggio di Marx – nel capitolo 25 del volume 1 del Capitale – che qui conviene riportare: “With the increasing mass of wealth which functions as capital, accumulation increases the concentration of that wealth in the hands of individual capitalists, and thereby widens the basis of production on a large scale and of the specific methods of capitalist production… It is the concentration of capitals already formed, destruction of their individual independence, expropriation of capitalist by capitalist, transformation of many small into few large capitals. This process differs from the former in this, that it only presupposes a change in the distribution of capital already to hand, and functioning… Capital grows in one place to a huge mass in a single hand, because it has in another place been lost by many. This is centralisation proper, as distinct from accumulation and concentration.”
La prima parte del volume è dedicata alla ricostruzione storica degli anni della guerra fredda: ricostruzione effettuata con le categorie interpretative della teoria dei giochi. Segue un resoconto del dibattito interno alla c.d. international political economy, ovvero della disciplina che studia i rapporti esistenti fra la sfera economica e la sfera politica nell’arena internazionale. Opportunamente Lucarelli si sofferma, in dettaglio, sugli antecedenti storici di questi approcci, proponendo una lettura accurata delle teorie dei mercantilisti, di Smith, di Ricardo e del marxismo sul commercio estero. Il paragrafo successivo è dedicato alla geopolitica e, a seguire, al problema dell’esistenza di leggi di movimento del capitalismo. Nella sezione successiva, l’autore mostra le fallacie del “mito illuminista” secondo il quale il libero commercio fra Paesi riduce la probabilità di conflitti armati e si sofferma sulla legge tendenziale della centralizzazione dei capitali.
È questo il vero e proprio nucleo analitico di questo libro ed è opportuno chiarirne il significato. Seguendo Marx, Lucarelli sta nell’operare spontaneo del mercato produrre fallimenti e operazioni di acquisizione e fusione. Queste dinamiche allontanano progressivamente il mercato dalla sua configurazione concorrenziale: si tratta della tendenza che Marx definiva “l’espropriazione del capitalista da parte del capitalista”. In più, questa tendenza si associa progressivamente alla polarizzazione fra Paesi creditori e Paesi debitori. Sebbene spesso le guerre siano interpretate come eventi accidentali, secondo l’autore è proprio dal movimento verso la centralizzazione dei capitali che bisogna partire per comprenderne le cause. Lucarelli riporta ampia evidenza empirica a sostegno dell’aumento del grado di centralizzazione, sia per quanto riguarda la proprietà, sia per quanto riguarda il controllo. È interessante osservare – seguendo l’autore nel paragrafo che segue – che le imprese cinesi contribuiscono significativamente alla centralizzazione dei capitali su scala globale. Il fenomeno in atto costituisce un rilevante problema per la tenuta democratica soprattutto perché acuisce lo sbilanciamento fra Paesi in credito e Paesi in debito e, per conseguenza, crea i presupposti per protezionismo e guerre. La centralizzazione dei capitali, inoltre, oltre a essere un fenomeno di rilevanza economica, è anche un problema di carattere politico, dal momento che accentra il potere decisionale e, per questa via, indebolisce le istituzioni democratiche. L’autore suggerisce una misurazione del grado di centralizzazione basata sull’analisi delle reti complesse. In questo contesto, Lucarelli inserisce i dazi dell’amministrazione Trump, che, nella sua interpretazione, perseguono il fondamentale obiettivo di verificare quali siano i Paesi veramente amici degli Stati Uniti (e, per conseguenza, i worst offender).
Qui Lucarelli si discosta dall’obiettivo dichiarato del protezionismo dell’amministrazione Trump, ovvero, come ha chiarito l’economista Miran, fra i principali teorici dell’utilità dei dazi, dal fatto che i dazi sarebbero finalizzati alla re-industrializzazione del Paese e soprattutto all’aumento del gettito fiscale, in una condizione nella quale il debito pubblico in rapporto al Pil negli USA (e nel mondo) è in continuo aumento e in una condizione nella quale lo status di moneta di riserva internazionale del dollaro implica la sua rivalutazione. È probabilmente vero quanto scrive l’autore e cioè che la re-industrializzazione USA sarà un processo lento, ma questo non implica che nelle intenzioni il protezionismo risponda anche a questo obiettivo. La sezione 3 è dedicata alla libera circolazione dei capitali, che regge, secondo Lucarelli e con una tesi convincente, non sui c.d. fondamentali ma su comportamenti imitativi e gregari che rafforzano le ondate speculative. L’autore mette in evidenza il fatto che la liberalizzazione finanziaria – promossa dal Washington Consensus – è stata spesso associata al verificarsi di crisi, contrariamente all’aspettativa per la quale sarebbe stata fonte di stabilizzazione e di crescita globale. Le crisi, poi, sono strettamente associate a quella che l’autore definisce la “gestione dell’attenzione”, connessa al bombardamento mediatico.
Il volume tratta a seguire gli effetti delle politiche monetarie sulle crisi e si conclude con una ricostruzione della proposta keynesiana dell’International clearing union.
Ad avviso di chi scrive, due nessi sono probabilmente da approfondire e potrebbero essere oggetto di future ricerche:
- Il primo riguarda la relazione esistente fra centralizzazione dei capitali e stagnazione tecnologica. Esiste, come è noto, ampia evidenza empirica sul calo della produttività del lavoro negli ultimi decenni nei Paesi OCSE. Alcuni autori hanno fatto riferimento al c.d. paradosso della produttività, ovvero al fatto – messo in rilievo da Gordon (2004) – stando al quale pure a fronte dell’accelerazione dell’avanzamento tecnico, la produttività del lavoro risulta stagnante. Altri hanno proposto l’ipotesi di stagnazione secolare (cfr. Hansen, 1939; Summers, 2014a; b). Non è, quindi, sufficientemente chiaro come conciliare l’aumento dell’efficienza tecnica e organizzativa che dovrebbe derivare dalla centralizzazione dei capitali – per l’operare di economie di scala – con questi fenomeni.
- In secondo luogo, si potrebbe approfondire la questione della diffusione geografica della centralizzazione dei capitali, per comprendere le ragioni per le quali questa è significativamente più presente in alcune aree (segnatamente gli USA) e meno in altre (p.e. l’Italia, che continua ad avere una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni con frammentazione dei controlli proprietari.
In definitiva, il libro è da consigliare: accessibile anche ai non addetti ai lavori, è reso accattivante dai frequenti riferimenti alla mitologia greca.
Riferimenti bibliografici
Hansen, AH (1939). Economic progressand declining population growth, “The American Economic Review”, 29: 1-15.
Gordon, R.J. (2004). Five puzzles in the behavior of productivity, investment, and innovation, “National Bureau of Economic Research”, working paper n. 10660.
Summers, L (2014a), Reflections on the ‘new secular stagnation hypothesis’, in C Teulings and R Baldwin (eds), Secular stagnation: facts, causes and cures, 27-38.
Summers, L (2014b), US economic prospects: secular stagnation, hysteresis, and the zero lower bound, Business Economics, 49: 65-73.
