Il lato nero del profitto

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Political and social notes

Il Ministro Sacconi dichiara, in ogni occasione possibile, che il lavoro nero va contrastato con tutti gli strumenti possibili, in primo luogo con l’attività di vigilanza e repressione. Si tratta dello stesso Ministro che ha voluto il Libro Unico del Lavoro, di cui al decreto-legge n. 112/2008, il cui primo obiettivo consiste nel ‘semplificare’ l’attività d’impresa, mediante due principali dispositivi. In primo luogo, si esonerano le imprese dal tenere la documentazione necessaria a comprovare la regolarità delle assunzioni nel caso in cui esse abbiano più sedi operative, rendendo obbligatoria la disponibilità dei registri nella sola sede legale. In secondo luogo, si dispone che se un ispettore riscontra manodopera non regolare, ma se l’imprenditore “non mostra la volontà di occultarla”, non è possibile comminare una sanzione. Non soltanto si è in presenza di norme che oggettivamente favoriscono il ricorso al lavoro nero, ma si è di fronte a una inversione di tendenza – difficilmente giustificabile – rispetto a quanto si è cercato di fare nel recente passato, soprattutto per impulso della CGIL, mediante l’adozione di “indici di congruità” finalizzati a quantificare l’impiego ‘normale’ di forza-lavoro in relazione al fatturato aziendale, con interventi di sanzionamento per deviazioni significative da tali valori, che hanno dato buon esito laddove sono stati sperimentati. Nel corso degli ultimi anni, si è potuto riscontrare il simultaneo aumento delle dimensioni dell’economia sommersa, in Europa e in Italia, e dei profitti. Il Fondo monetario internazionale stima che, nell’Unione europea, sono circa 20 milioni gli individui coinvolti in attività irregolari, che in Italia una percentuale di lavoratori oscillante fra il 30 e il 48% si colloca in segmenti di mercato ‘nascosti’ e che tale percentuale è di molto aumentata nel corso dell’ultimo decennio. Disaggregando il dato, si rileva, su fonte CENSIS, che il tasso di irregolarità si assesta intorno al 20% nel Mezzogiorno, in aumento rispetto ai primi anni 2000, a fronte di una media del 9% al Nord, dove subisce una pur lieve flessione. Al tempo stesso, la BCE registra che i profitti complessivi in Europa sono aumentati dai circa 7 milioni di euro nel 1999 ai quasi 13.000 milioni nel 2007. Paiono sufficienti questi dati per destituire di fondamenta la tesi liberista secondo la quale l’intera economia sommersa costituisce causa di concorrenza sleale nei confronti dell’economia regolare e, dunque, comprime i profitti delle imprese che rispettano la normativa vigente. Ciò può portare a ritenere il sommerso – o almeno una sua porzione significativa – come semmai funzionale alla riproduzione capitalistica, per diverse ragioni. In primo luogo, soprattutto tramite esternalizzazioni, le imprese formalmente regolari riescono ad approvvigionarsi a più bassi prezzi di prodotti intermedi; il che consente loro di ridurre i costi di produzione, acquisendo quote di mercato a danno delle potenziali concorrenti, e soprattutto, delle imprese concorrenti formalmente e sostanzialmente regolari. In secondo luogo, data l’inesistenza di vincoli di orario di lavoro nell’economia sommersa, le imprese che operano in quel contesto riescono a ottenere ritmi di produzione superiori alle imprese che fronteggiano tali vincoli e, dunque, possono produrre in tempi più brevi e consentire alle imprese formalmente regolari di vendere prima delle proprie concorrenti, acquisendo – anche per questa via – quote di mercato e profitti. Si può anche notare che il crescente ricorso all’economia sommersa è strettamente connesso all’intensificazione dei processi concorrenziali, quantomeno nel senso che l’aumento dell’intensità competitiva – in larga misura derivante dall’accelerazione dei movimenti internazionali di capitale – stimola la crescente necessità di farvi fronte mediante l’acquisizione di profitti di breve periodo. Vi è di più. Per quanto specificamente attiene al sommerso da seconda busta paga, in un’economia nella quale è significativamente elevata la trasmissione di informazioni, e nella quale dunque gli effetti di emulazione giocano un ruolo non secondario, l’aumento delle disuguaglianze – caratteristica delle economie OCSE almeno dell’ultimo trentennio – connesso all’ostentazione dei consumi, tende a generare un aumento dei consumi desiderati da parte dei ceti meno abbienti, il cui soddisfacimento si rende possibile per il fatto che le imprese irregolari hanno costantemente necessità di forza-lavoro da sottopagare.
L’Italia e, ancor più il Mezzogiorno, sperimentano una crescita delle dimensioni dell’economia sommersa maggiore rispetto alla media OCSE. Se è osservabile che il sommerso ha natura pro-ciclica, la variabilità delle sue dimensioni rispetto al PIL si spiega essenzialmente alla luce dei diversi modelli di sviluppo, nel senso che le economie che competono mediante strategie di compressione dei costi di produzione – ed è il caso dell’Italia – sono quelle nelle quali è vitale disporre di un bacino di manodopera da utilizzare in modo irregolare. E tali strategie sono strettamente associate alle piccole dimensioni aziendali. Può essere sufficiente ricordare, a riguardo, che, stando all’ultimo rapporto SVIMEZ, il 95% delle imprese meridionali occupa meno di 9 dipendenti. Letta in questa prospettiva, la tesi che vede nel sommerso meridionale un segno di ‘vivacità imprenditoriale’ – così che si ritiene che non debba essere contrastato – getta luce sul fatto che il sottosalario pagato ai lavoratori irregolari è comunque una componente della domanda interna e, per questa via, contribuisce alla realizzazione monetaria dei profitti, quantomeno di entità maggiore rispetto al caso in cui il sommerso venga significativamente ridimensionato. Si tratta di una tesi che, se ben maschera le ragioni strutturali che rendono il sommerso funzionale alla riproduzione del sistema, presenta seri vizi logici e che, messa alla prova dei fatti (vedi i contratti di riallineamento), si è rivelata fallimentare. Innanzitutto, non si capirebbe per quale ragione le imprese irregolari, in un futuro che non è dato prevedere, intraprendano più o meno spontaneamente un processo di regolarizzazione, dal momento che il mercato non dispone di meccanismi endogeni tali da rendere conveniente l’emersione spontanea. In secondo luogo, questa tesi regge sulla proposizione implicita – per nulla neutrale sul piano etico-politico – secondo la quale è preferibile tollerare l’ingiustizia oggi per avere (forse) maggiore crescita economica domani, piuttosto che sanzionare ciò che oggi è illecito.
Non è un fatto nuovo che, nei periodi di recessione, le imprese cerchino di recuperare i propri margini di profitto avvalendosi di ogni possibile strategia, anche violando le più elementari regole formali e morali. E’ semmai un fatto abbastanza nuovo, e allarmante, che il nostro Governo non solo le lasci fare, ma crei i presupposti normativi perché l’irresponsabilità sociale d’impresa diventi la norma.

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