Stima Manovra Economica Con diverse tecniche di stima dei moltiplicatori degli stimoli fiscali mostriamo che la manovra economica del governo per il 2019 ha un impatto molto modesto sulla crescita perché trascura gli investimenti, non presenta un disegno di politica industriale e non muta le condizioni del lavoro. Al contrario, una diversa composizione della manovra, anche a saldi invariati ma con risorse dimezzate sulle misure-simbolo e corrispondenti maggiori investimenti, avrebbe raddoppiato l’impatto positivo sulla crescita. Inoltre, portando il deficit al 2,4% e spostando le risorse aggiuntive sugli investimenti, tutte le stime mostrano che l’impatto espansivo sarebbe addirittura triplicato.
La necessità di una manovra espansiva
Nella seconda metà del 2018, le medesime tensioni internazionali che hanno determinato un rallentamento della crescita in Germania e Francia hanno spinto l’Italia nella recessione, complici i gravi deficit di competitività dell’apparato produttivo e infrastrutturale del Paese, il cronico sottofinanziamento degli investimenti pubblici e privati nonché la crescente precarizzazione del lavoro che contribuisce al ristagno dei consumi. In questo scenario, monta la preoccupazione che la manovra economica del governo possa avere un profilo espansivo insufficiente. Per cominciare, la manovra economica non ha impresso un cambiamento di direzione significativo alla politica delle finanze pubbliche rispetto agli anni dell’austerità. A riguardo, il governo sembra avere scontato un deficit di capacità politica in Europa e in particolare nel confronto con la Commissione Europea. Infatti, anziché proporre una manovra incentrata sul rilancio degli investimenti pubblici e sulle politiche industriali, che avrebbe potuto riscuotere consensi in altri Paesi e registrato minori resistenze presso la Commissione Europea, il governo ha presentato una manovra caratterizzata da un deficit incrementato al 2,4% del pil e finalizzato a un aumento della spesa corrente e dei trasferimenti. Successivamente, per evitare la procedura sanzionatoria, il governo ha dovuto ridurre il deficit al 2,04% del pil, riportando i valori della finanza pubblica pressoché in linea con quelli registrati nel 2018. Inoltre, gli investimenti rimangono fermi al palo, non vi è una chiara proposta di politica industriale in grado di rilanciare la competitività del Paese, e gli sforzi maggiori si incentrano su misure che pur andando incontro ad alcune istanze dei ceti meno abbienti e del lavoratori prossimi alla pensione, non mutano le condizioni di forte precarietà del lavoro e non allargano la base occupazionale.
Una analisi tecnica è utile a mostrare che la manovra economica per il 2019 ha un impatto espansivo molto contenuto e che viceversa, anche a saldi invariati, sarebbe stato possibile concepire forme di intervento più incisive per aggredire i nodi della competitività e rilanciare la crescita. Se invece si fosse fatto ricorso a una manovra che avesse ampliato il deficit al 2,4% del pil, concentrando interamente le risorse in più rispetto alla attuale manovra sugli investimenti, l’effetto espansivo sarebbe stato addirittura triplicato.
La manovra economica per il 2019
Dal punto di vista delle risorse in campo, le misure discrezionali introdotte dal governo per il 2019 possono essere sintetizzate nella Tabella 1.
Tabella 1 – Le misure discrezionali della manovra 2019
Fonte: UPB, con il segno positivo maggiori entrate e minori spese, con il segno negativo minori entrate e maggiori spese
Complessivamente, le misure discrezionali della manovra determineranno un extradeficit di circa 11 miliardi e 700 milioni di euro, ossia lo 0,65% del pil. Stando alle stime del governo, il deficit dovrebbe attestarsi a fine 2019 al 2,04% del pil e la crescita dovrebbe raggiungere l’1%, di cui uno 0,6% dovuto alla crescita tendenziale e uno 0,4% come effetto di quelle misure.
I moltiplicatori degli stimoli fiscali e la manovra
Gli economisti misurano l’impatto dei diversi stimoli fiscali (aumento della spesa, riduzione delle imposte) sul pil facendo ricorso al concetto di moltiplicatore, che teoricamente può essere maggiore o minore di uno, o addirittura negativo. Un moltiplicatore maggiore di uno riflette una politica fiscale espansiva molto efficace che determina una crescita del pil maggiore del valore dello stimolo messo in campo dal governo. Chi scrive ritiene – in linea con la tradizione di ricerca postkeynesiana – che il valore del moltiplicatore della spesa pubblica sia elevato, soprattutto in periodi di crisi e rallentamento dell’economia.
Per controllare le stime del governo e valutare gli effetti della manovra e anche quelli di possibili formulazioni alternative di essa, cominciamo con il fare ricorso a un contributo scientifico molto noto, apparso nel 2015 nei prestigiosi Oxford Economic Papers a firma di Sebastian Gechert, del Macroeconomic Policy Institute di Dusseldorf (Gechert 2015). Si tratta di un’analisi basata sulla sintesi dei risultati di ben 104 studi scientifici presenti in letteratura (meta-regression analysis) che perviene a una stima degli effetti sul pil delle diverse categorie di spesa pubblica e tasse. In sostanza, lo studio definisce gli impatti sulla crescita dei diversi stimoli fiscali, i moltiplicatori, consentendo di comprendere quali misure sono più efficaci nel sostenere la crescita. Le osservazioni raccolte da Gechert sono addirittura 1069, e gli studi da cui i dati sono attinti sono caratterizzati da tecniche e approcci scientifico-dottrinari molto diversi. Certo, tra gli studi utilizzati da Gechert abbondano i cosiddetti modelli stocastici di equilibrio economico generale, dal sapore fortemente neoliberista, i quali, sulla base di assunti fortemente discutibili (noti in letteratura come l’”equivalenza di Barro-Ricardo” e l’”effetto spiazzamento”) giungono sistematicamente alla conclusione che la politica fiscale avrebbe un’efficacia molto limitata nell’influenzare la crescita economica. Tuttavia, lo studio di Gechert conferma alcune conclusioni significative, come ad esempio il fatto che i moltiplicatori della spesa pubblica sono maggiori rispetto a quelli delle tasse (dunque che un aumento della spesa pubblica finanziato da un pari aumento delle tasse determina una crescita del pil) e che i moltiplicatori più alti sono associati agli investimenti pubblici.
Per i nostri fini prendiamo come riferimento i valori base dei moltiplicatori ottenuti da Gechert, riferiti alla letteratura più vasta esaminata, quella dei cosiddetti modelli empirici VAR[1], che l’autore riporta distinguendo tra spesa pubblica per investimenti (INVEST), pressione fiscale (TAX), trasferimenti al settore privato (TRANS), spese militari (MILIT), spesa per consumi (CONS) e occupazione nel settore pubblico (EMPLOY).
Per applicare i moltiplicatori stimati da Gechert al caso della manovra 2019, prendiamo in considerazione gli accorpamenti delle diverse misure discrezionali elencate nell’”Aggiornamento del Quadro Macroeconomico e di Finanza Pubblica” pubblicato a dicembre (tabella II 1-8, pag. 14 e ss.).
Tabella 2 – I moltiplicatori degli stimoli fiscali della manovra 2019
Applicando i moltiplicatori alle diverse misure previste nella manovra economica per il 2019 e i relativi pesi sul pil osservati nella Tabella 1, il contributo della manovra alla crescita del Pil risulta essere pari a un timido +0,29% (dunque non lo 0,4% stimato dal governo). Il nostro esercizio conferma dunque un ben modesto effetto espansivo dell’attuale composizione della manovra, avvicinandosi peraltro molto al valore di +0,3% stimato dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio nel suo “Rapporto sulla politica di bilancio 2019”. A riguardo è opportuno considerare che i moltiplicatori citati nell’ultima colonna non sono quelli cumulativi, non si riferiscono cioè all’effetto degli stimoli nel lungo periodo, ma solo all’impatto registrato dopo un anno dalla loro attivazione. Ciò comporta che la stima degli impatti a fine 2019 potrebbe in realtà essere inferiore, considerato che le misure vengono implementate in corso di anno[2].
Maggiore efficacia di una diversa composizione della manovra
Domandiamoci a questo punto se e in che misura una manovra economica maggiormente orientata agli investimenti pubblici e alle politiche industriali avrebbe avuto un impatto maggiore sulla crescita, sostenendo più adeguatamente la nostra economia.
Una prima ipotesi può essere svolta a saldi di finanza pubblica invariati, mantenendo dunque il deficit fermo (dati gli assunti del governo) al 2,04% del pil.
Immaginiamo che il governo avesse ottimizzato le risorse per le sue misure-simbolo, lasciando agli investimenti il ruolo di creare occupazione (e non alla costosa riforma dei centri per l’impiego), concedendo pensionamenti anticipati a seconda del tipo di lavoro svolto e riducendo la platea beneficiaria dell’iniqua flat tax. In particolare, ipotizziamo che il governo avesse dimezzato le risorse a favore di reddito di cittadinanza, “quota 100” e flat tax, riversando l’importo così liberatosi sugli investimenti. In tal modo, gli investimenti nazionali introdotti dalla manovra sarebbero cresciuti raggiungendo lo 0,225% del pil. Ebbene, in questo caso l’impatto espansivo della manovra aumenterebbe, spingendo il pil in alto dello 0,48% (contro lo 0,29 della manovra attuale). Ciò significa che un mutamento della composizione qualitativa della manovra avrebbe assicurato una spinta alla crescita non molto elevata, ma quasi doppia rispetto alla manovra attuale.
L’efficacia di una manovra keynesiana
Come sostenuto ripetutamente su economiaepolitica.it, la principale ricetta per la crescita – soprattutto in condizioni di ristagno economico – è rappresentata da una nuova politica industriale finanziata in deficit, anche oltre i limiti dei Trattati Europei. Per questo, la nostra seconda simulazione non viene condotta a saldi invariati, ma assume un incremento della spesa pubblica per investimenti. Svolgiamo questa ulteriore simulazione prendendo come parametro di riferimento il deficit pubblico del 2,4%, che il governo aveva proposto inizialmente al Paese e a Bruxelles. Supponiamo che l’intera differenza tra il deficit della manovra attuale e quello al 2,4% fosse dedicato agli investimenti. In questo caso, gli investimenti pubblici introdotti dal governo avrebbero superato 11 miliardi di euro, circa 9 miliardi in più di quanto risulta ora in manovra. Secondo la nostra simulazione, in questo caso il contributo della manovra alla crescita del pil sarebbe stato circa il triplo rispetto a quello della manovra attuale, passando dal +0,29% al +0,78%. Si tratta di una spinta molto significativa, che avrebbe portato il pil a crescere a fine 2019 al di sopra dell’1%.
Simulazioni con altre stime del moltiplicatore
Le simulazioni condotte utilizzando i valori dei moltiplicatori ottenuti dall’analisi condotta da Gechert dimostrano come la manovra per il 2019 avrebbe avuto un ben diverso impatto sulla crescita, se orientata agli investimenti e alle politiche industriali.
I valori dei moltiplicatori di Gechert possono però essere considerati molto contenuti (in particolare da studiosi di impostazione postkeynesiana) e non particolarmente adeguati al caso italiano, perché scaturiscono da studi relativi a diversi paesi. Per questa ragione, consideriamo ora i moltiplicatori calcolati dall’Ufficio parlamentare di bilancio (2018) attraverso l’impiego del modello ISTAT MeMo-It applicato al periodo della doppia crisi economica italiana 2008-2014[3]. Il modello MeMo-It si basa su ipotesi teoriche di stampo liberista e non certo postkeynesiano, ma la Nota di lavoro dell’UPB ha preso in considerazione un periodo di forte debolezza della nostra economia e – come ormai riconoscono anche i modelli meno orientati all’intervento pubblico – durante le crisi i moltiplicatori degli stimoli fiscali assumono valori alti. È per questo che i moltiplicatori che usiamo in questo caso sono relativamente elevati e probabilmente più aderenti alla realtà. Raccogliamo in Tabella 3 le diverse misure contenute nella manovra 2019 al fine di utilizzare i moltiplicatori prodotti dall’UPB.
Tabella 3 – Misure discrezionali e moltiplicatori UPB
Prima di procedere può essere curioso evidenziare che le stime condotte dall’UPB sull’impatto della manovra 2019 (stimata pari allo 0,3% del pil) non sono elaborate con questi moltiplicatori. Operando infatti una stima delle misure discrezionali introdotte dal governo con i moltiplicatori della Tabella 3 risulta una spinta del pil verso l’alto dello 0,48%.
Procediamo ora, come in precedenza, con le due simulazioni: la prima a saldi invariati (dimezzando le risorse per reddito di cittadinanza, pensionamenti anticipati e flat tax, per spostarle sugli investimenti pubblici); la seconda con un deficit pubblico al 2,4% del pil e con la differenza tra il 2,4% e il 2,04% destinata in toto alla spesa pubblica per investimenti.
I risultati di questa simulazione sono particolarmente interessanti. Infatti, le elaborazioni effettuate sulla scorta del modello Istat-UPB con i moltiplicatori della crisi fa emergere che una ridefinizione della manovra a saldi invariati avrebbe spinto la crescita di un +0,86%.
Invece, una manovra più spiccatamente keynesiana, consistente nell’ampliamento della spesa in deficit per finanziare investimenti, avrebbe spinto la crescita addirittura di un +1,44%.
Investimenti, politiche industriali, condizioni del lavoro
Le simulazioni prodotte utilizzando i moltiplicatori di Gechert e quelle prodotte utilizzando i moltiplicatori della Nota di lavoro dell’UPB conducono a stime diverse circa l’impatto delle misure discrezionali del governo per il 2019, sull’efficacia di una ridefinizione della manovra più orientata agli investimenti e a saldi invariati, e infine sulle conseguenze espansive di una spinta agli investimenti con deficit al 2,4%. Tuttavia le stime portano alle stesse conclusioni di fondo. Infatti, in primo luogo, una manovra alternativa a saldi invariati, con risorse dimezzate per le misure simbolo del governo e maggiori investimenti pubblici, avrebbe quasi raddoppiato la spinta alla crescita rispetto alla manovra attuale (dallo 0,29% allo 0,49% nel primo caso e dallo 0,48% allo 0,86% nel secondo). In secondo luogo, una manovra alternativa con deficit a 2,4% avrebbe praticamente triplicato quell’impatto (dallo 0,29 allo 0,78 nel primo caso e dallo 0,48 all’1,44 nel secondo).
Le stime effettuate sulla scorta dei risultati della letteratura internazionale e quelle che scaturiscono dalla rielaborazioni del modello Istat, pur diverse per valori assoluti, ci conducono quindi a una conclusione in linea con le tesi a più riprese sostenute da economiaepolitica.it. Per spingere il Paese alla crescita servono investimenti e politiche industriali. D’altronde l’analisi quantitativa sui moltiplicatori non può che trovare conferma nell’esame dei punti di debolezza del nostro apparato produttivo e infrastrutturale, da cui emerge con chiarezza la necessità di politiche industriali che spingano le nostre imprese verso un salto tecnologico-dimensionale e le portino a investire in formazione e lavoro di qualità (si rinvia a riguardo allo studio condotto dalla Consulta economica della FIOM-CGIL).
Il tema della qualità dell’occupazione non è certo estraneo al ragionamento che stiamo sviluppando. Come è ben noto, infatti, le imprese italiane puntano sempre più sui contratti di lavoro a termine, molto meno costosi di quelli a tempo indeterminato, e ciò sta sensibillmente peggiorando la qualità occupazionale nel nostro Paese. Si tratta di un freno ulteriore alla crescita italiana. Infatti, non solo questo mutamento della qualità del lavoro impatta negativamente sulla produttività, ma più lavoro a termine e meno lavoro a tempo indeterminato significano ristagno salariale e più precarietà: due fattori che contribuiscono ad abbattere la domanda di beni di consumo, contribuendo al ristagno dell’attività produttiva di beni e servizi. Per accentuare il suo carattere espansivo, allo stato attuale troppo timido, la manovra del governo dovrebbe battere un colpo anche sul versante dei diritti dei lavoratori.
*Riccardo Realfonzo è ordinario di Economia politica all’Università del Sannio, coordinatore della Consulta economica della FIOM-CGIL e direttore di economiaepolitica.it.
**Angelantonio Viscione è assegnista di ricerca all’Università del Sannio.
Riferimenti bibliografici
De Nardis S. e Pappalardo C. (2018), “Fiscal Multipliers in Abnormal Times: the Case of a Model of the Italian Economy”, Ufficio Parlamentare di Bilancio, Nota n. 1, dicembre.
Gechert S. (2015), “What fiscal policy is most effective? A meta-regression analysis” Oxford Economic Papers, 67(3), pp. 553–580.
Ministero dell’economia e delle finanze (2018), Aggiornamento del Quadro Macroeconomico e di Finanza Pubblica, dicembre.
Ufficio parlamentare di bilancio (2019), Rapporto sulla politica di bilancio 2019, gennaio.
[1] I modelli VAR consistono in un sistema di equazioni che mette in relazione i valori correnti ed i valori passati delle variabili economiche di interesse. Per quanto anche questi modell incorporino in queste equazioni alcune ipotesi teoriche nel determinare le relazioni tra le variabili, si tratta comunque di modelli empirici meno influenzati dalle discutibili teorie d’ispirazione neoclassica che contraddistinguono i modelli stocastici di equilibrio economico generale.
[2] I moltiplicatori cumulativi riportati nell’ultima colonna della tabella 4 di Gechert sono in genere di poco superiori ai valori base che abbiamo utilizzato ma riflettono le stesse differenze tra le diverse tipologie di spesa. Il moltiplicatore cumulato della spesa pubblica (generica) è 0,9510, quello degli investimenti pubblici è 1,5399, quello della spesa per l’occupazione nel settore pubblico è 1,2872, quello dei trasferimenti è 0,5372 e, infine, quello delle tasse è 0,6603.
[3] Alcune misure discrezionali interessano contemporaneamente più di una categoria individuata dall’UPB e dunque, in questi casi, abbiamo suddiviso le risorse assegnate a queste misure in parti uguali tra le categorie interessate. Ci riferiamo in particolare alle voci: Politiche invariate, altre spese (coperture), altre spese (interventi), altre entrate (coperture), altre entrate (interventi) e alle altre voci che compaiono più di una volta nella tabella 2, cioè Altre misure di pace fiscale, Rideterminazione acconto imposta assicurazioni, Trattamento fiscale svalutazione crediti, Abrogazione crediti di imposta e agevolazioni fiscali e Dismissioni immobiliari. Per quanto riguarda la voce Dismissioni immobiliari, abbiamo assunto che l’acquisto di beni immobili ceduti dallo Stato, incidendo sui bilanci di famiglie e imprese, influenzi la propensione al consumo delle famiglie e il reddito delle imprese. Per queste ragioni, abbiamo associato a questa misura i moltiplicatori delle imposte sul consumo e delle imposte sul reddito delle imprese.