La BCE a Napoli: ciò che il Sud vuole sapere

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Political and social notes

capodimonteLa virtù della lungimiranza risiede nella capacità di declinare ciò che è, apparentemente, opposto: il concreto con l’intangibile, la sofisticatezza intellettuale con il sociale, il fixing dei tassi di interesse della Banca Centrale Europea con la povertà delle regioni meridionali. Questa connessione è quanto riusciva a Keynes quando, sfuggendo insoddisfatto, nella primavera del 1919, dal tavolo dei vincitori della Grande Guerra riuniti a Parigi, si recava a Berlino dal banchiere Melchior e poteva constatare di persona come le sanzioni imposte alla Germania si concretizzassero in drammi sociali e umani in una nazione deprivata e affamata. E questa empatia ridiventava, per Keynes, argomento inascoltato di critica all’iniquità del diktat ai vinti. Un preambolo apparentemente lontano, il nostro, ma che ci aiuta, di sicuro, a capire quale avrebbe dovuto essere il senso della riunione degli organismi direttivi della Banca Centrale Europea che si è tenuto il due di ottobre a Napoli: si sono “visitati” i lembi estremi dell’impero senza che essi abbiano costituito momento di riflessione per l’impostazione e le misure di politica economica che sono state varate.

La banca di emissione dell’Eurozona, diciamocelo, non gode di grande popolarità e la sua venuta a Napoli non ha acceso entusiasmo o nuove speranze sulle sorti progressive della nostra regione o del Mezzogiorno. A  dirla tutta non era prevedibile alcuna seria compenetrazione con i danni sociali dell’austerità comunitaria. La sua strategia, o per meglio dire quella del suo presidente Draghi che in due anni l’ha mutata profondamente, è ragionevolmente delineata e scevra da ripensamenti solidaristici. Si tratta di una visione, a differenza di quella di chi lo ha preceduto, assai poco votata alla gestione della congiuntura, ma finalizzata a modellare i tratti salienti dell’economia dell’area dell’euro. Il perno della solidità è costituito, secondo Draghi, dalla robustezza del sistema finanziario, in antitesi ai nessi di causalità sostenuti dalla Merkel. Mentre per la Cancelliera solo una stabile unione politica di stati può creare un universo di banche coese e stabili, per Draghi, all’opposto, l’omogeneizzazione finanziaria è un prerequisito fondante per l’unione politica. E solo muovendo da ciò si comprende come la sua BCE si sta muovendo in Europa. Varando un approccio poco votato alla gestione di breve periodo della congiuntura, Draghi, secondo un modello “strutturalista”, preferisce una forward guidance secondo la quale è inderogabile che l’Europa si caratterizzi per un severo controllo dei conti pubblici nazionali, una profonda riforma del mercato del lavoro e della concorrenza, una maggiore competitività internazionale di un euro meno forte rispetto al dollaro. E, al di sopra, per un solido e concentrato universo di banche controllato dall’istituto di emissione di Francoforte, una volta che abolisca i poteri di vigilanza delle singole banche centrali nazionali.

Si tratta di una visione nella quale l’eliminazione della recessione e del dramma della disoccupazione è il post di politiche fiscali neutrali, di banche forti e di politiche monetarie espansive. Un modello socialmente conflittuale, da un lato, e, dall’altro, criticato dalla Bundesbank tedesca e da teorici meno “intelligenti” dell’austerità, che enfatizzano esclusivamente le virtù taumaturgiche della finanza pubblica “sana”. Al suo modello Draghi sta finalizzando tutti gli strumenti a disposizione, quelli consueti di politica monetaria e quelli, più discutibili, di moral suasion: non si critica, ad esempio dell’Italia, solo disavanzo e debito, ma s’interviene anche sulla composizione qualitativa dei tagli, che, francamente, non è un modello rispettoso delle sovranità nazionali. Più ci si incammina su questo sentiero, ripete il cinico banchiere, più i tassi di interesse tenderanno a zero, più le banche saranno fornite di liquidità, più le imprese non saranno razionate sul mercato del credito, con misure come le Targeted Long Term Refinancing Operations o l’acquisto di Asset Backed Securities emesse dal sistema bancario. In sintesi, il patto sociale, nemmeno tanto implicito, è il costo dell’austerità oggi con il beneficio di una crescita “fisiologica” domani.

E ritorniamo all’incontro napoletano dei banchieri centrali della BCE. La trasferta in periferia è stata di fatto finalizzata alla mera declinazione di questa visione che, oramai, trova seguaci nel nostro primo ministro e nel Presidente della Repubblica. Napoli è stata, per i banchieri centrali, solo il fasto della reggia di Capodimonte e non, come fu per Keynes ai tempi di Melchior, un tentativo di entrare in contatto con la dimensione sociale della città. Napoli, con le sue pacifiche dimostrazioni pubbliche, ha espresso dissenso e netto rifiuto all’idea che il futuro delle collettività emarginate dell’area dell’euro possa dipendere da immaginifiche taumaturgie di banchieri avveduti e di stati minimali.

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