L’Economia della Previdenza Sociale in un modello di circuito monetario

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Paper Codice JEL: B50; E12; I30.

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Dinanzi alle problematiche di sostenibilità dei tradizionali sistemi previdenziali, la maggior parte dei policy makers propone l’espansione dei sistemi a capitalizzazione pre-finanziati e la progressiva privatizzazione del sistema pensionistico. Dal punto di vista della teoria economica, però, le analisi che si celano dietro soluzioni simili si fondano su poco realistiche ipotesi neoclassiche ed, inoltre, tendono anche a trascurare i feedback che esistono tra i meccanismi di distribuzione dei sistemi previdenziali e l’economia nel suo complesso. In questo paper, seguendo invece la tradizione italiana della teoria del Circuito Monetario, proponiamo un’estensione del modello pensato da Augusto Graziani al fine di includervi anche i sistemi pensionistici ed i loro effetti reali e finanziari. Il framework teorico proposto evidenzia infatti il ruolo dei meccanismi distributivi previdenziali per il mondo della finanza e svela anche i rischi macroeconomici finanziari che i fondi pensione gestiti dalle grandi società finanziarie possono avere nei Paesi finanziariamente più deboli come l’Italia. Il modello, inoltre, dimostra che ciò di cui più necessitano i sistemi pensionistici è semplicemente una lungimirante politica economica in grado di incrementare crescita e produttività, combinata con una politica di distribuzione del reddito pro-labour.

Introduzione

In Italia e nel mondo occidentale, il dibattito politico sui sistemi pensionistici si concentra in genere sulle questioni inerenti l’invecchiamento della popolazione e gli effetti che crisi economiche e finanziarie hanno sulle entrate contributive. Di conseguenza, il focus del dibattito ruota spesso intorno a possibili problemi di sostenibilità di lungo termine del tradizionale sistema previdenziale a ripartizione finanziato dallo Stato. Dinanzi a queste problematiche, i nostri decisori politici propongono, in genere, soluzioni come l’incremento dell’età pensionabile, il ridimensionamento di fatto degli importi degli assegni pensionistici e, molto spesso, di puntare sempre di più sui fondi pensione gestiti dalle grandi società finanziarie. Anche la pandemia da CoVID-19 ha ovviamente indebolito le entrate contributive del sistema di previdenza pubblica ma, allo stesso tempo, l’andamento dei mercati finanziari e dell’economia reale hanno svelato anche alcuni limiti del sistema pensionistico a capitalizzazione privato che le tesi mainstream di ispirazione neoclassica tendono normalmente a trascurare (cf. Viscione 2020). Infatti, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, gli economisti eterodossi dimostrano che la maggior parte delle analisi che ispirano le proposte mainstream si basano su ipotesi neoclassiche poco realistiche riguardo l’efficienza dei mercati finanziari in cui i risparmi dei lavoratori andrebbero investiti (Cesaratto 2002). Inoltre, queste analisi si basano in genere anche sull’assunto che le politiche del lavoro neoliberiste che stiamo adottando ormai da decenni (come quelle che conducono alla compressione dei salari e all’indebolimento dei sindacati) siano imprescindibilmente destinate a proseguire nel tempo e ad avere, quindi, sempre lo stesso effetto sui bilanci dei sistemi pensionistici (Wolfson 2006, p. 320). Un’altra obiezione alle suddette analisi riguarda il fatto che, come vedremo anche successivamente, spesso finiscono per confondere le problematiche meramente finanziarie della sostenibilità di un sistema previdenziale con l’economia reale che si cela dietro il bilancio di ogni sistema pensionistico (Bell and Wray 2000). Infine, vi sono diversi feedback tra i meccanismi distributivi dei sistemi previdenziali e l’economia nel suo complesso che vengono spesso trascurati nelle analisi mainstream e che, al contrario, meritano grande attenzione (Palley 1998).

Tenendo anche conto di tutte queste criticità, il nostro paper offre un’analisi diversa, con uno schema concettuale macroeconomico concepito in base alla tradizione italiana della Teoria del Circuito Monetario (TCM) o Teoria Monetaria della Produzione (cf. Graziani 2003) in cui viene introdotto il sistema previdenziale. La scelta del modello della TCM di Augusto Graziani è dovuta principalmente alla profonda comprensione che il suo paradigma teorico possiede riguardo il concetto di non-neutralità della moneta ed al realistico schema di distribuzione del reddito cui fa riferimento, ossia quello di tipo kaleckiano-keynesiano (Graziani 2003, pp. 96-105). La nostra proposta consiste, dunque, in un’estensione del modello standard di Circuito Monetario di Graziani al fine di offrire un punto di vista alternativo nell’ambito delle analisi sulla previdenza sociale che tenga propriamente conto sia delle variabili finanziarie e sia di quelle reali coinvolte. Oltre ad aprire alla possibilità di ulteriore ricerca scientifica su un simile filone di ricerca, il nostro modello si dimostra, infatti, in grado di mostrare anche i rischi macroeconomici finanziari che i fondi pensione gestiti da grandi società finanziarie portano con sé e che, generalmente, la letteratura economica mainstream tende invece a trascurare.

Il paper è organizzato nel modo seguente. La sezione 1 definisce il concetto di previdenza sociale ed offre una breve rassegna della letteratura teorica eterodossa sul tema. La sezione 2 descrive, sinteticamente, la Teoria monetaria della produzione ed il modello base del Circuito Monetario di Graziani. La sezione 3 introduce il sistema pensionistico in questo modello base. Nella sezione 4 proponiamo un modello teorico più completo, aperto anche agli scambi con l’estero, e comprensivo di fondi pensione privati (FPP). Infine, la sezione 5 contiene un’analisi macroeconomica dei sistemi pensionistici all’interno del modello TCM ad economia aperta che abbiamo proposto, in modo da giungere anche alle conclusioni del paper  evidenziando sia indicazioni di policy e sia l’opportunità di ulteriore ricerca scientifica sul tema.

1 Teoria economica e sistemi pensionistici: il dibattito fino ad oggi

Un sistema previdenziale può essere definito come un piano assicurativo intergenerazionale: “la generazione in attività lavorativa concorda nel prendersi cura dei pensionati, dei superstiti e delle persone con disabilità” (Wray 2004). In particolare, un puro programma pensionistico “pay-as-you-go” (PAYG) raccoglie contributi previdenziali dai lavoratori per redistribuirli ai pensionati, il tutto nello stesso periodo temporale, come nella maggior parte dei sistemi a ripartizione statali tradizionali. È chiaro, dunque, che fenomeni come il calo demografico, la longevità crescente e le crisi economiche sono in grado di mettere sotto pressione i tradizionali sistemi pubblici a ripartizione rientranti nello schema PAYG. È per questo che, molto spesso, i decisori politici guardano anche ad altri regimi pensionistici. Usiamo, in proposito, le definizioni di Palley (1998, pp. 7-8), secondo il quale è possibile definire in particolare nove schemi di previdenza sociale, risultanti dalla combinazione del loro grado di pre-finanziamento (pieno, parziale o nessuno) e del loro grado di privatizzazione (forte, debole, nessuno). Un forte grado di privatizzazione, ad esempio, indica un sistema in cui i contribuenti privati controllano direttamente i propri contributi mentre, al contrario, un grado debole di privatizzazione indica un sistema previdenziale che ha la semplice possibilità di investire in equities. Riguardo il grado di pre-finanziamento, invece, è possibile avere schemi pensionistici che vanno da “nessuno” a “pieno” ed, infatti, un tradizionale sistema PAYG come quello descritto in precedenza rappresenta il classico esempio di “nessun” pre-finanziamento. Vale l’esatto contrario per i cosiddetti sistemi fully-funded (FF), dove il grado di pre-finanziamento è pieno. Questi ultimi, infatti, vengono definiti in letteratura come “schemi pensionistici – generalmente, ma non necessariamente, privati – che accumulano le riserve investite in asset privati rappresentanti lo stock di capitale privato” (Cesaratto 2006, p. 35). Per ragioni analitiche, nel nostro paper faremo dunque riferimento a queste definizioni.

Oggigiorno, la maggior parte delle proposte di decisori politici ed analisti riguardano l’innalzamento dell’età legale del pensionamento e l’incremento del grado di privatizzazione e del grado di pre-finanziamento dei sistemi pensionistici (cf. OECD 2019; Amaglobeli et al. 2019; World Economic Forum 2017; Barlslund et al. 2014; Mercer, 2019). Gli economisti mainstream, infatti, sostengono che privatizzare avrebbe l’effetto di rimuovere l’effetto distorsivo del prelievo contributivo sui redditi da lavoro, incrementando di conseguenza l’offerta di lavoro e, dunque, l’occupazione (Feldstein 1974; Hausman 1985). Da un punto di vista teorico, infatti, essi fanno chiaramente riferimento ad una concezione neoclassica di mercato del lavoro, secondo la quale la disoccupazione sarebbe volontaria e dovuta ad un inadeguato salario d’equilibrio (rinviamo alle note al testo per richiami più approfonditi)[1]. Si tratta di una visione fortemente criticata da Keynes (1936), che ha infatti introdotto il noto principio della domanda effettiva: il livello dell’occupazione non è determinato in ultima istanza dall’incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma dal livello della domanda aggregata[2]. Secondo Palley (1998 pp. 19-21), la loro tesi, in realtà, è persino contraddittoria perché presuppone che le famiglie non considerino i contributi previdenziali come fonte di ricchezza propria (e futura) e che, dunque, l’offerta di lavoro si riduca con l’introduzione o l’incremento dei prelievi contributivi. La contraddizione sta proprio nel fatto che, invece, le stesse tesi mainstream ipotizzano che i contributi per la previdenza spiazzino il risparmio privato, il che presuppone, al contrario, che quei contributi siano considerati come vere e proprie fonti di ricchezza. Inoltre, la privatizzazione porta con sé anche diversi rischi di mercato perché i contribuenti si trovano inevitabilmente di fronte all’incertezza dei meccanismi tipici dei mercati finanziari (Palley 1998, pp. 12-16; Weller 2006). Tra questi, ad esempio, il problema del “buy high – sell low”, ossia il forte rischio (data la grande entità delle contribuzioni previdenziali) di spingere verso l’alto i prezzi quando si agisce da compratori e di spingerli verso il basso quando si agisce da venditori; in secondo luogo, dato che i prezzi sui mercati finanziari oscillano molto sia su base pluriennale che giornaliera, i lavoratori possono ritrovarsi a fronteggiare una volatilità nei rendimenti decisamente troppo alta rispetto alle proprie esigenze; anche il rischio di moral hazard è più elevato quando il grado di privatizzazione è alto dal momento che alcuni agenti possono compiere scelte di investimento poco avvedute perché contano invece sulle pensioni sociali garantite comunque dallo Stato; infine, non è da sottovalutare il fatto che i costi amministrativi di schemi pensionistici fortemente privatizzati sono ovviamente più alti e, di conseguenza, anche regressivi, proprio perché si tratta di costi fissi che colpiscono tanto i redditi più alti che i redditi più bassi.

Per quanto riguarda gli schemi pensionistici pre-funding, la teoria economica mainstream sostiene che lo stock di capitale sarebbe inferiore rispetto a quello che si avrebbe con un sistema a capitalizzazione dal momento che i contributi sociali raccolti dai sistemi tradizionali finanziano solo direttamente gli assegni dei pensionati (Feldstein 1974, p. 923). Infatti, la tesi generale sostenuta dagli economisti ortodossi è che il tasso di interesse associato a regimi pensionistici con un elevato grado di pre-funding sia maggiore rispetto al tasso di rendimento “biologico” associato agli schemi di previdenza pay-as-you-go (cf. Aaron 1966; Samuelson 1958)[3]. Questa tesi ha ovviamente incontrato molte critiche da parte degli economisti eterodossi perché i due sistemi non possono essere semplicemente confrontati con un simile artefizio comparativo, a maggior ragione se non si include nella discussione il problema dei costi di transizione tra i due sistemi e le conseguenti implicazioni macroeconomiche (Michl e Foley 2004; Cesaratto 2002; Lerner 1959). D’altronde, come sostengono anche alcuni tra gli stessi economisti mainstream, tra cui Barr e Diamond (2006, p. 22), neanche il fatto che i rendimenti sui mercati finanziari siano normalmente più alti del tasso di crescita dei salari implica necessariamente che i sistemi ad alto grado di pre-funding siano più redditizi dei pay-as-you-go.

Come dimostrano molte delle loro argomentazioni, alla base della ratio mainstream vi è spesso anche un’altra ragione di natura teorica: la convinzione che risparmi aggiuntivi si tramutino sempre in investimenti. In realtà, come spiega Cesaratto (2006, p. 34), anche volendo assumere per un attimo che questa tesi sia sempre vera, bisognerebbe comunque riconoscere che in schemi pensionistici simili la propensione marginale al risparmio dei lavoratori potrebbe non crescere affatto proprio perché i lavoratori devono accantonare somme maggiori del proprio reddito per destinarle ai fondi pensione; inoltre, questi maggiori risparmi correrebbero comunque il rischio di essere compensati dai minori risparmi del bilancio dello Stato che deve continuare ad assicurare il pagamento delle pensioni correnti. Ad ogni modo, si parla ancora una volta di una tesi poco realistica figlia dell’invadente eredità della tradizione neoclassica: il nesso causale tra risparmi e investimenti. Per gli economisti mainstream, infatti, i risparmi S si tramuterebbero sempre in investimenti I grazie al meccanismo di aggiustamento del tasso di interesse (quando S > I, il tasso si riduce, stimolando gli investimenti, e viceversa quando S < I). Difatti, gli schemi pensionistici a capitalizzazione si basano su pietre miliari del pensiero mainstream come la teoria del ciclo vitale di Modigliani ed il modello di crescita di Solow. Coerentemente con la prima, gli individui agirebbero assecondando il proprio desiderio di mantenere approssimativamente lo stesso livello di consumi lungo tutta la loro vita (cf. Modigliani e Brumberg 1954; Modigliani 1966); coerentemente con il secondo, tali schemi pensionistici si basano essenzialmente sulla tesi secondo la quale,ceteris paribus, quando si riduce la forza lavoro (ad esempio con tassi di natalità costantemente in riduzione), le dotazioni pro-capite di capitale e di reddito sarebbero destinati ad aumentare (Elmendorf e Sheiner 2000, p. 60)[4]. Come ha però dimostrato Keynes, al contrario, l’uguaglianza tra risparmi e investimenti è solo un’identità contabile e, dunque, il livello di I è indipendente dal livello di S[5].Inoltre, applicando il principio keynesiano della domanda effettiva, si può giungere alla conclusione praticamente opposta secondo cui un incremento nella propensione al risparmio condurrebbe, ceteris paribus, ad una riduzione dei consumi, della produzione e dell’occupazione. In altre parole, anche ammettendo che il pre-funding riuscisse a far aumentare il livello aggregato dei risparmi non si otterrebbe necessariamente un aumento del reddito pro-capite, ma si potrebbe rischiare addirittura una caduta dei redditi e dell’occupazione (Palley 1998, pp. 99-102; Cesaratto 2002, pp. 171-173)[6].

La questione rilevante diventa dunque cos’è che rende un sistema pensionistico statale PAYG davvero sostenibile nel tempo. Come evidenziava il famoso matematico Bruno de Finetti (1956), i sistemi PAYG non riguardano tanto un problema attuariale ma piuttosto un problema di policy socio-economica. La ragione sta proprio nella loro stessa natura: essi non sono (e non possono essere comparati a) schemi pensionistici fully-funded, proprio perché si basano su trasferimenti di reddito corrente e, dunque, “soddisfare le aspettative dei contribuenti non dipende solo da fattori demografici, ma in modo molto rilevante anche dalla crescita e dalla distribuzione del prodotto sociale” (Cesaratto 2002, p. 167). Infatti, come sottolineano Bell e Wray (2000), di solito gli analisti percepiscono i problemi della previdenza sociale come problemi meramente finanziari, mentre la realtà è che persino la disponibilità di risorse finanziarie non garantisce la disponibilità di risorse reali sufficienti. Per usare le loro stesse parole, “la vera preoccupazione è se, come conseguenza della riduzione della forza lavoro, la nostra società si troverà ad affrontare problemi ‘reali’ di produzione in futuro. Se sarà così, essi potranno essere risolti solo aumentando, tra il periodo corrente ed il futuro, la capacità produttiva dell’economia” (Bell and Wray 2000, p. 7). In riferimento a ciò, anche Palley (1998) sottolinea l’importanza della distribuzione del reddito. Quando la produttività cresce, infatti, un tradizionale sistema pensionistico finanziato da prelievi contributivi necessita fortemente che i guadagni di produttività vengano distribuiti ai lavoratori, proprio al fine di accrescere i contributi aggregati (Palley 1998, pp. 4-5)[7]. In altre parole, quando si parla di previdenza sociale è necessario tener conto soprattutto di politiche del lavoro e distribuzione del reddito.

2 La struttura tradizionale del Circuito monetario

Data la natura di questo ampio dibattito, siamo certi che un modello economico ispirato alla Teoria del Circuito Monetario – capace infatti di affrontare da un punto di vista non ortodosso sia gli aspetti finanziari e sia gli aspetti reali della previdenza sociale – sia perfettamente in grado di tener propriamente conto di tutti gli aspetti chiave dell’economia dei sistemi pensionistici. Grazie al paradigma teorico della TCM, infatti, è possibile mettere da parte le poco realistiche ipotesi neoclassiche viste in precedenza e, allo stesso tempo, includere correttamente nella nostra analisi le più importanti variabili reali e finanziarie in gioco, oltre ad un più realistico schema di distribuzione del reddito capitale – lavoro.

A differenza dei modelli macroeconomici mainstream, i modelli della TCM rifiutano l’individualismo metodologico della tradizione neoclassica e descrivono il processo economico come “una sequenza circolare di flussi monetari” (Realfonzo 2006, p. 105). La Teoria del Circuito Monetario, infatti, affonda le proprie radici nei lavori in cui John M. Keynes sfida direttamente il pensiero neoclassico come, in particolare, Treatise of Money (1930), General Theory of Employment, Interest, and Money (1936) e A Monetary Theory of Production (1933) (cf. Realfonzo 1998; Forges Davanzati and Realfonzo 2005). Ovviamente, la TCM trova originaria ispirazione in pietre miliari del pensiero economico come Das Kapital di Karl Marx. Diversi studiosi, infatti, individuano proprio nel ciclo del capitale descritto da Marx il punto d’origine della Teoria del Circuito Monetario (cf. Bellofiore 1997; Bellofiore and Realfonzo 2003). Economisti come Augusto Graziani, Marc Lavoie, Alain Parguez e Bernard Schmitt hanno poi ulteriormente sviluppato la teoria ed i modelli del Circuito a partire  soprattutto dalla seconda metà del Novecento.

Gli economisti “circuitisti” divergono tra di loro su alcuni aspetti specifici riguardanti il funzionamento dell’economia, ma tutti seguono in buona sostanza lo stesso approccio teorico riconducibile alla teoria post-keynesiana (Realfonzo 2003). La maggior parte di essi, infatti, sostiene che la creazione di moneta sia endogena e demand-driven, che la distribuzione del reddito dipenda dal potere di mercato relativo degli agenti economici, che il livello della produzione e dell’occupazione dipenda dalle aspettative sulla domanda aggregata e/o dai profitti delle imprese ed, infine, che il ruolo del mercato della moneta sia ben distinto da quello del mercato finanziario (cf. Graziani 1984; 2003; Thirlwall 1993; King 2003). Graziani chiamava “finanza iniziale” la prima e “finanza finale” la seconda. In particolare, la prima consiste nella domanda di credito che esprimono le imprese e, in questo schema teorico così come nella realtà, costituisce “un elemento essenziale, la cui assenza renderebbe impossibile qualunque piano di produzione” (Graziani 2003, p. 69). La finanza finale, al contrario, è data dalla liquidità raccolta dalle imprese nel momento in cui vendono beni o emettono titoli sul mercato finanziario.

Il Circuito monetario standard considera un’economia senza scambi con l’estero e senza settore pubblico in cui operano tre macroagenti: banche, imprese e lavoratori (cf. Graziani 1984). Le fasi del circuito sono sintetizzate nella Figura 1 e vengono brevemente descritte di seguito: (1) le banche garantiscono, totalmente o parzialmente, le richieste di finanziamento delle imprese attraverso la creazione di moneta; (2) le imprese acquistano i fattori produttivi e – considerandole sempre come aggregato – la loro unica spesa coincide con il fondo salari complessivo; (3) il processo di produzione ha inizio; (4) le imprese piazzano i loro prodotti sul mercato e possono fronteggiare due scenari; nel primo, per ipotesi, la classe lavoratrice non risparmia nulla del proprio reddito e, dunque, le imprese rientrano in possesso dell’intero fondo salari; nel secondo scenario, invece, la propensione al risparmio dei lavoratori è  maggiore di zero ed, in particolare, la quota del reddito non impiegata nell’acquisto di beni viene risparmiata acquistando i titoli emessi dalle stesse imprese e/o incrementando le proprie riserve di cassa; ovviamente, in quest’ultimo caso le imprese non sarebbero in grado di rientrare in possesso dell’intero fondo salari impiegato all’inizio del circuito; (5) le imprese restituiscono il prestito ottenuto dalle banche nella fase iniziale, chiudendo il circuito; se la propensione alla liquidità dei lavoratori è maggiore di zero, in un’economia senza scambi con l’estero e senza settore pubblico, le imprese sono ovviamente costrette ad aumentare il proprio livello di indebitamento.

Figure 1. The standard Monetary Circuit model

Fonte: elaborazione dell’autore

É importante notare che, con riferimento alle fasi 4 e 5, la moneta può svolgere anche la funzione di semplice riserva di valore. Dato che l’economia capitalistica è caratterizzata da presenza di incertezza sistemica, il denaro accumulato in forma liquida viene visto, infatti, anche come una difesa contro l’incertezza (cf. Graziani 1994; Fontana 2000; Fontana-Gerrard 2002). Secondo questo filone di pensiero, invero, una crisi economica tipica scoppia proprio quando si diffondono ampiamente aspettative negative sull’andamento dell’economia. È importante notare anche che lo schema tradizionale di Circuito monetario – in cui i flussi monetari non possono provenire né dall’estero né dallo Stato – solleva quello che può sembrare un paradosso: anche assumendo una propensione alla liquidità pari a zero, l’aggregato imprese è in grado di restituire il prestito iniziale alle banche ma non è in grado di pagare interessi. Si tratta di un tema ricorrente negli studi dei circuitisti che conduce al cosiddetto “paradosso dei profitti”, secondo il quale, in un circuito chiuso in cui vengono pagati gli interessi alle banche, l’aggregato imprese non potrebbe conseguire alcun profitto monetario. Diverse spiegazioni e soluzioni sono state prospettate dagli studiosi. Ad esempio, secondo Messori e Zazzaro (2005), i profitti monetari (considerati sempre come aggregato) vengono generati dalla bancarotta delle imprese meno efficienti. Zezza (2004) sostiene che i profitti monetari provengano invece proprio dal settore finanziario, ossia dalla differenza tra gli interessi riscossi dalle banche ed i costi che sostengono per l’acquisto di beni ed il pagamento degli stipendi ai propri dipendenti. Altri economisti sostengono che i profitti vengano realizzati in termini reali, nella forma di beni, e non in termini monetari (cf. Bellofiore e Realfonzo 1997). Nella forma tradizionale del modello base proposto inizialmente da Graziani (1984), invece, egli stesso sostiene che l’aggregato imprese paghi gli interessi in natura o, altrimenti, che resti semplicemente indebitato verso le banche per un importo pari alla loro somma alla fine del processo produttivo.

3 Il sistema pensionistico in un modello standard di TCM

In questo paragrafo introduciamo il sistema pensionistico nel modello base di Circuito monetario descritto poc’anzi (rinviando l’ulteriore estensione del modello al settore estero e ai fondi pensione al paragrafo successivo), in modo da poter concentrare meglio l’attenzione sugli assunti di base ed evidenziare alcune prime importanti riflessioni preliminari. Immaginiamo dunque cinque macro-agenti: banche, imprese, lavoratori, pensionati e settore pubblico. Come nella versione base del modello TCM descritto in precedenza, le banche garantiscono il finanziamento richiesto dalle imprese creando moneta e aprendo, di fatto, il circuito per una somma pari a L0 = W, dove W è l’importo complessivo dei salari e che è pari al prodotto tra il salario medio ed il livello dell’occupazione wN. Nella nostra variante del modello, le imprese utilizzano i prestiti bancari sia per pagare salari che tasse e contributi. Per semplicità, ci riferiamo solo ai contributi previdenziali utili a finanziare il sistema pensionistico e che assumiamo essere semplicemente pari al prodotto tra un’aliquota contributiva media t e l’ammontare dei salari. Le imprese, dunque, pagano esattamente twN al settore pubblico e, di conseguenza, i lavoratori guadagnano un reddito netto pari a wN – twN, i.e. wN(1 – t)[8]. Se il bilancio tra entrate contributive ed uscite del sistema previdenziale è perfettamente in equilibrio, l’ammontare delle pensioni RS è esattamente pari a twN. Ipotizziamo che il bilancio generale dello Stato non sia composto d’altro (ignoriamo per semplicità tutte le altre entrate e spese statali) in modo da poterci concentrare facilmente solo sul tema oggetto della nostra analisi. Dato che lavoratori e pensionati possono consumare (C) e/o risparmiare (S) il proprio reddito, otteniamo la seguente identità, descritta nella equazione 1.

wN(1 – t) + RS = C + S                                                      (1)

Si noti che, quando tale sistema pensionistico si trova perfettamente in equilibrio, l’equazione 1 appare come segue: wN = C + S. Quest’ultima formula riflette proprio il fatto che, in uno schema pensionistico PAYG, i contributi diventano automaticamente reddito per i pensionati e – così come anche nel modello TCM tradizionale – se tutti i risparmi venissero impiegati per acquistare i titoli emessi dalle imprese, queste ultime sarebbero in grado di restituire il prestito iniziale concesso dalle banche L0[9].

I profitti aggregati P sono dati dalla differenza tra costi e ricavi delle imprese (equazione 2).

P = Cw + Cr + I – wN – rL – twN                                        (2)

I consumi C (dati dalla somma tra quelli dei lavoratori Cw e quelli dei pensionati Cr) e gli investimenti I rappresentano le entrate dell’aggregato imprese. Al contrario, i contributi aggregati twN e gli interessi pagati sui prestiti (pari al prodotto tra il tasso d’interesse r ed il totale dei prestiti bancari L) rappresentano costi di produzione[10].

Vale la pena sottolineare che pensioni più elevate –  dunque, nel nostro caso, complessivamente eccedenti le entrate contributive (RS > twN) e, quindi, finanziate da spesa pubblica in deficit monetizzata – andrebbero ad aumentare il reddito dei pensionati ed i profitti aggregati, aiutando le imprese a pagare interessi sui prestiti bancari. Si tratta, infatti, esattamente di quello che succede anche negli altri modelli TCM che includono deficit spending da parte dello Stato (Graziani 1984, pp. 33-34). 

 L’offerta aggregata X nei modelli TCM è data dal prodotto tra la produttività ed il livello dell’occupazione (equazione 3).

X = πN                                                                    (3)

La somma dei consumi delle due categorie, lavoratori e pensionati, rappresenta la nostra equazione dei consumi (equazione 4).

C = Cw + Cr = (1-sw)(wN – twN) + (1-sr)RS                                     (4)

dove, in particolare, i consumi dei lavoratori sono pari al prodotto tra la loro propensione al consumo (1-sw)ed il loro reddito disponibile (wN – twN) e, in modo simile, i consumi dei pensionati sono pari al prodotto tra la loro propensione al consumo (1-sr)ed il loro reddito disponibile R[11].

Seguendo la formula di Graziani (1996, pp. 48-49; 2003, pp. 100-101), l’equazione degli investimenti appare invece come segue, nell’equazione 5.

I = bπNp                                                                  (5)

dove b è la frazione di prodotto aggregato che le imprese decidono di tenere per uso proprio (per gli investimenti reali),  ossia la loro propensione ad investire (che, vale la pena precisarlo, all’interno di questo paradigma teorico dipende da fattori come le aspettative sulla domanda aggregata futura e dalla redditività del capitale), π è la produttività media del lavoro e p rappresenta il prezzo di mercato dei prodotti finiti.

L’uguaglianza tra domanda e offerta aggregata è dunque ricavata dalle equazioni 3, 4 e 5 così come segue (equation 6).

          πNp = (1-sw)(wN – twN) + (1-sr)RS + bπNp                                      (6)

Il livello dei prezzi in equilibrio è ricavato dall’uguaglianza tra domanda e offerta e, dunque, determinato a partire dall’equazione precedente e descritto nell’equazione 7.

(7)

Quest’ultima equazione conferma alcune teorie eterodosse tipiche della Teoria del Circuito monetario (cf. Graziani 2003, p. 102). L’equazione 7, infatti, dimostra che la celebre teoria quantitativa della moneta non trova applicazione nel nostro modello, dal momento che lo stock di moneta non appare neanche nell’equazione; inoltre, essa dimostra anche una variazione nel livello dei prezzi si traduce in una proporzionale variazione nello stock di moneta, fintantoché la velocità di circolazione della moneta resta costante. Il livello dei prezzi dipende, dunque, dalla propensione ad investire e dalla propensione a risparmiare (nel nostro modello sia dei lavoratori e sia dei pensionati) e dalla spesa pubblica, che nel nostro modello appare solo sotto forma di pensioni finanziate dalle entrate contributive [12].

Al fine di sviluppare al meglio la nostra analisi, introduciamo ora la quota salari Ω, che rappresenta la quota percentuale del prodotto totale X destinato ai salari (la quota rimanente è, invece, destinata ai profitti). Possiamo quindi riscrivere l’equazione 4 come segue, nella forma dell’equazione 8.

C = (1-sw)(ΩX – tΩX) + (1-sr)tΩX                                      (8)

Prima di estendere il nostro modello anche agli scambi con l’estero ed ai fondi pensione privati, evidenziamo alcune considerazioni preliminari. Innanzitutto, fenomeni come l’invecchiamento della popolazione e le crisi economiche fanno ridurre N ed incrementare la quota di pensionati sulla popolazione. Ceteris paribus, se l’importo medio degli assegni pensionistici resta costante, il sistema pensionistico tradizionale che abbiamo introdotto nel modello va, inevitabilmente, in deficit (RS > twN). Si tratta, come anticipato, del punto di partenza di molti dibattiti odierni sull’adeguatezza dei classici sistemi pensionistici statali. Si tratta, quindi, del pretesto utilizzato in gran parte di questi casi per proporre la riduzione della spesa pubblica destinata alle pensioni e, contestualmente, per estendere il campo d’azione dei fondi pensione gestiti dalle grandi società finanziarie. Assumiamo, come accade in genere nella realtà, che nel lungo periodo sia l’offerta aggregata X e sia la produttività π tendano ad aumentare. In termini modellistici, dunque, abbiamo:  e . Come riscontriamo in genere in letteratura (cf. Palley 1998), assumiamo inoltre che, anche laddove il retiree dependency ratio (ossia il numero di anziani in età extra-lavorativa per lavoratore occupato) dovesse crescere, l’effective economic dependency ratio (il rapporto tra popolazione inattiva ed il numero di lavoratori aumentato dall’effetto cumulativo della crescita della produttività) continuerebbe comunque costantemente a decrescere.

4 Un modello TCM con economia aperta e sistemi previdenziali

In questo paragrafo completiamo il nostro modello TCM introducendo settore estero e fondi pensione privati gestiti da grandi società finanziarie (FPP), al fine di analizzare al meglio i metodi di finanziamento e gli effetti macroeconomici dei meccanismi distributivi dei diversi sistemi pensionistici all’interno del paradigma teorico del Circuito monetario.

Figure 2. A Monetary Circuit model with Social Security and Foreign Sector

Fonte: elaborazioni dell’autore

Introdurre il settore estero nel nostro modello vuol dire introdurre anche la Bilancia dei pagamenti con l’estero (BP). Ai fini della nostra analisi, assumiamo per semplicità che vengano scambiati con l’estero solo beni di consumo. Cominciamo, solo per il momento, da una BP in equilibrio in ognuna delle sue sezioni – partite correnti, conto capitale e conto finanziario – e che redditi primari e secondari delle partite correnti siano pari a zero. Con simili assunti di partenza sarà più facile mostrare, in questa prima fase, come si comporta l’economia aperta descritta nel nostro modello. In particolare, all’apertura del circuito, con la concessione del prestito bancario L0 = wN, le imprese pagano i salari ai lavoratori per un importo pari a wN(1-t) ed i contributi allo Stato (destinati, come descritto in precedenza, a tradursi identicamente in assegni pensionistici) per un importo pari a twN ma, in un’economia aperta come questa,  lavoratori e pensionati possono impiegare il proprio reddito anche per acquistare beni o titoli di imprese straniere, al di fuori del “circuito” nazionale. Supponiamo che, in totale, essi spendano una quota α del proprio reddito disponibile nell’economia domestica, ossia per un importo totale pari a α[wN(1-t) + R]. Allo stesso tempo, le imprese vendono beni di consumo e titoli anche a lavoratori e pensionati all’estero. Questa liquidità addizionale che proviene dall’estero può essere ovviamente maggiore, inferiore o uguale ad α[wN(1-t) + R]. Per semplicità, per il momento immaginiamo che sia esattamente uguale, in modo che, ceteris paribus, le imprese si rivelino perfettamente in grado di restituire il prestito ottenuto inizialmente. Chiaramente, queste sono solo ipotesi di partenza. In altre parole, questo quadro di assunti rappresenta il punto di partenza teorico che utilizziamo per il momento per mostrare più facilmente gli effetti netti dell’introduzione dei fondi pensione nella nostra economia.

Introduciamo dunque anche i fondi pensione privati (FPP) – ossia, secondo la classificazione di Palley, l’esatto opposto del sistema pensionistico statale PAYG già presente – all’interno del nostro modello con economia aperta. Ipotizziamo che una quota β del reddito disponibile dei lavoratori venga destinato ai fondi pensione privati. Di conseguenza, l’importo totale dei contributi gestiti dai FPP è pari a β[wN(1 – t)] e, dunque, l’importo totale destinato a consumi e risparmi è pari a (1- β)[wN(1 – t)][13]. I fondi pensione privati, a loro volta, distribuiscono ai pensionati una somma che è pari alla somma dei loro contributi precedenti capitalizzati per il tasso di interesse medio rc. Le pensioni pagate dai FPP sono dunque pari a RPPF = (1+rc) β[wN(1 – t)]t-1 e, di conseguenza, il reddito totale dei pensionati nella nostra economia aperta è dato da RS + RPPF, i.e. twN + (1+rc) β[wN(1 – t)]t-1.

A questo punto, possiamo cominciare a costruire la prima equazione del nostro modello ad economia aperta (equazione 9). Innanzitutto, bisogna modificare l’equazione 1 mostrata in precedenza aggiungendo il reddito delle pensioni distribuite dai FPP, ossia RPPF. Inoltre, dato che dobbiamo ora anche tener conto dei contributi versati ai FPP, dobbiamo sottrarre al reddito disponibile dei lavoratori la quota (β)che viene destinata a questi ultimi, ottenendo (1- β)[wN(1 – t)]. Infine, aggiungiamo il tasso di cambio e e le importazioni Im perché lavoratori e pensionati possono anche consumare beni importati. Quella che segue è dunque la prima equazione del nostro modello ad economia aperta.

(1- β)[wN(1 – t)] + twN + (1+rc) β[wN(1 – t)]t-1= C + S + eIm                     (9)

Anche l’equazione dei profitti è destinata a cambiare nel passaggio da un’economia chiusa ad un’economia aperta, dal momento che dobbiamo ora tener conto anche del fatto che le esportazioni Ex rappresentano entrate per le imprese domestiche. Aggiungiamo, dunque, Ex all’equazione 2 e otteniamo la seconda equazione del nostro modello in economia aperta: l’equazione 10.

P = Cw + Cr + I – wN – rL – twN + Ex                                            (10)

L’equazione dell’offerta aggregata, invece, è data dal prodotto tra produttività e livello dell’occupazione sia in un’economia chiusa che in un’economia aperta, per cui l’equazione 11 può assumere la forma seguente.

X = πN                                                                    (11)

Passando al lato della domanda, riprendiamo l’equazione 8 del nostro modello in economia chiusa al fine di integrarla facilmente con le variabili tipiche di un’economia aperta ed ottenere l’equazione 12. Dal momento che una parte del reddito di lavoratori e pensionati viene spesa per acquistare beni di consumo dall’estero, introduciamo la propensione alle importazione dei lavoratori, imw, e la propensione alle importazioni dei pensionati, imr. Inoltre, dato che una quota (β) del reddito disponibile dei lavoratoriè destinata ai contributi da versare ai fondi pensione, nell’equazione 12 avremo la seguente espressione: (1 – β)(ΩX – tΩX). Infine, teniamo anche conto del reddito da pensioni fornite dai FPP e che abbiamo poc’anzi definito come (1+rc)β[ΩX – tΩX]. Otteniamo quindi l’equazione 12.

C = (1-sw -imw )(1 – β)(ΩX – tΩX) + (1-sr-imr){tΩX+(1+r) β[ΩX – tΩX]}                        (12)

 Conservando le nostre ipotesi di partenza riguardo il tipo di beni scambiati con l’estero, l’equazione degli investimenti può essere sempre rappresentata come frazione del prodotto aggregato che le imprese decidono di destinare agli investimenti reali (equazione 13).

I = bπNp                                                                  (13)

Introduciamo ora la Bilancia dei pagamenti con l’estero e la definiamo come funzione del tasso di cambio nominale e, del livello dei prezzi p (che, a sua volta, è una funzione di diverse variabili come, ad esempio, il costo del lavoro e gli altri costi di produzione),  e di un vettore z di variabili estere ed esogene come il livello prezzi all’estero, i tassi di interesse esteri, la competitività all’estero etc. (equazione 14).

BP = BP(e, p, z)                                                           (14)

Definiamo anche l’equazione delle esportazioni nette. Come spiegato precedentemente, assumiamo momentaneamente, come punto di partenza teorico per i nostri ragionamenti, che importazioni ed esportazioni siano uguali, per cui abbiamo esportazioni nette pari a zero, come indicato nella formulazione che segue (equazione 15).

Ex – eIm = 0                                                             (15)

Introduciamo ora l’equazione dei flussi di capitali (equazione 16). Anche in questo caso assumiamo momentaneamente come punto di partenza teorico uno scenario ipotetico in cui i flussi di capitale verso l’estero KO eguaglino quelli dall’estero KI, come rappresenta l’espressione seguente (equazione 16). 

KO  – K= 0                                                                                 (16)

L’uguaglianza tra domanda e offerta aggregata è data dall’equazione 17, ricavata dalle equazioni 11, 12 e 13.

X = (1-sw-imw)(1- β)(wN – twN) + (1-sr-imr)(RS + RPPF) + bπNp + BP          (17)

Infine, utilizziamo l’uguaglianza della precedente equazione per determinare matematicamente l’equilibrio dei prezzi nell’equazione 18.

(18)

La nostra estensione del modello di Circuito monetario di Augusto Graziani è dunque terminata e possiamo iniziare con la nostra analisi.

5 Analisi macroeconomica dei sistemi pensionistici nel modello TCM

Cominciamo con un focus sulla parte reale dell’economia. Ci domandiamo, innanzitutto, cosa accadrebbe nel modello descritto se venissero implementate politiche economiche pro-labour, ossia quelle politiche adottate per migliorare le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice (aumento dei minimi salariali, rafforzamento della contrattazione collettiva e delle organizzazioni sindacali, riduzione delle tasse sul reddito da lavoro e così via). Ceteris paribus, questo genere di politiche ha notoriamente l’effetto di aumentare la quota salari sul prodotto totale dell’economia e, dunque, in un contesto di incremento di lungo periodo della produttività, politiche pro-labor in grado di incrementare la quota salari Ω contribuiscono ad incrementare anche i contributi aggregati tΩX, aiutando il tradizionale sistema previdenziale PAYG ad autofinanziarsi.

Al fine di approfondire il meccanismo distributivo dei sistemi pensionistici, ricordiamo rapidamente la recente letteratura post-keynesiana e post-kaleckiana sugli effettivi distributivi del reddito. Innanzitutto, richiamiamo il celebre modello di Bhaduri and Marglin (1990), che ha ispirato un’ampia letteratura economica impegnata nello stimare gli effetti delle variazioni della quota profitto e della quota salari sul Pil. Coerentemente con questo filone di studi, nel nostro modello un incremento della quota salari ha un impatto positivo sui consumi (perché i lavoratori hanno una propensione al consumo più alta di quella dei percettori di profitto) ma, allo stesso tempo, essa ha anche un impatto negativo sugli investimenti (perché margini di profitto inferiori tendono a ridurre l’incentivo ad investire) e sulla Bilancia dei pagamenti (perché riduce la competitività)[14]. Da un punto di vista analitico, nel nostro modello un incremento della quota salari Ω aumenterebbe i salari aggregati ΩX ed i contributi aggregati tΩX e tutto ciò avrebbe l’effetto di aumentare anche i consumi C (cf. equazione 12). Allo stesso tempo, però, una riduzione della quota profitti ridurrebbe anche l’incentivo ad investire, riducendo dunque b e, conseguentemente, gli investimenti I (cf. equazione 13). Inoltre, anche il tasso di cambio tende a reagire alle variazioni della quota salari; dato che i salari rappresentano anche costi della produzione, i prezzi nel nostro modello tendono ad aumentare, comportando una perdita di competitività e, dunque, un deterioramento della Bilancia dei pagamenti (cf. equazioni 14 e 18). Tenendo conto di tutto ciò, l’impatto di una politica pro-labour sulla domanda aggregata (equazione 17) dipende dall’effetto netto di tutte queste dinamiche e, dunque, in definitiva, dipende dalle caratteristiche strutturali dell’economia in questione: si ha un impatto netto positivo nel caso di economie wage-led ed, al contrario, si ha un effetto netto negativo nel caso di economie profit-led. Le analisi empiriche suggeriscono, ad esempio, che le economie più piccole e più aperte si dimostrano generalmente profit-led e che, invece, la maggior parte dei Paesi del G20 – tra cui l’Italia – si dimostra wage-led[15]. In proposito, come sottolineano anche Lavoie and Stockhammer (2013, p. 31), vale la pena evidenziare che l’economia globale, nel suo complesso, non può che essere ovviamente wage-led. Questo vuol dire che la miglior soluzione possibile per stimolare la crescita economica e, allo stesso tempo, aiutare il sistema pensionistico ad autofinanziarsi è rappresentata da una strategia di crescita wage-led – e dunque pro-labour – coordinata a livello internazionale.

Sintetizzando anche in termini modellistici, è rilevante sottolineare che se il salario medio aumenta, in termini percentuali, allo stesso ritmo dell’incremento della produttività, in un simile scenario avremmo un incremento dei contributi aggregati (tΩX) ed un incremento della domanda aggregata (cf. equazione 17). In altri termini, bisogna tener conto della seguente condizione:

(19)

Guardiamo ora anche al lato finanziario dell’economia. Cominciamo analizzando i fondi pensione privati (FPP) presenti nel modello. Dal momento che – come argomentato già nel primo paragrafo – rifiutiamo la concezione neoclassica del mercato del lavoro, è ovvio che persino se i FPP dovessero rimpiazzare completamento il sistema PAYG, eliminando dunque del tutto il prelievo contributivo statale, non ci sarebbe alcun incremento automatico dell’offerta di lavoro. Nei modelli TCM, infatti, il livello della produzione (e, di conseguenza, il livello dell’occupazione) viene fissato dalle imprese e dipende dalle loro aspettative sull’andamento della domanda aggregata, non dai meccanismi di mercato tra domanda e offerta di lavoro (cf. paragrafo 1). Come anticipato, inoltre, rifiutiamo anche il nesso di causalità risparmi-investimenti della tradizione neoclassica, per cui, anche laddove i FPP dovessero riuscire ad incrementare i risparmi aggregati, tutto ciò non condurrebbe automaticamente a maggiori investimenti ed maggiore occupazione. Al contrario, quando i risparmi aumentano, consumi e domanda aggregata si riducono, riducendo i profitti delle imprese e, dunque, probabilmente anche le loro decisioni sulla produzione futura (cf. paragrafo 1). Rifatte brevemente queste doverose premesse, ipotizziamo – solo per un istante – che i lavoratori non detengano moneta sotto forma di riserve liquide e che i FPP investano tutti i contributi raccolti β[wN(1 – t)] in titoli emessi dalle imprese domestiche. Con questi forti assunti iniziali, le imprese si dimostrano in grado di restituire il prestito bancario ottenuto all’inizio del circuito[16].

Assumiamo ora uno scenario più realistico in cui i FPP investono in titoli domestici solo una quota τ dei contributi raccolti. La parte restante (1 – τ) è dunque impiegata nell’acquisto di asset all’estero. Questo vuol dire che la somma (1 – τ)β[wN(1 – t)], che d’ora in poi chiameremo θ, fuoriesce dal circuito monetario domestico della nostra economia e che, di conseguenza, l’equazione dei flussi di capitali con l’estero (equazione 16) diventa KO – KI > 0. Ceteris paribus, tutto ciò vuol dire che l’aggregato imprese della nostra economia non è più in grado di restituire il prestito bancario e, dunque, che è costretto ad aumentare il proprio livello di indebitamento, a meno che lo Stato non intervenga con una politica di deficit spending per aiutarle[17]. Quest’ultima politica ha l’effetto di stimolare la domanda aggregata e la crescita economica e, conseguentemente, di incrementare i profitti aggregati con liquidità aggiuntiva utile a restituire il prestito bancario[18]. Da un punto di vista squisitamente politico, però, tutto questo palesa chiaramente che in simili situazioni la collettività pagherebbe due volte per sostenere il sistema pensionistico: attraverso il tradizionale sistema PAYG per garantire gli assegni pensionistici, ma anche attraverso il deficit pubblico per garantire al sistema economico la liquidità necessaria quando i fondi pensione investono una gran mole di risparmi dei lavoratori all’estero.

A questo punto, dobbiamo sollevare ulteriori importanti considerazioni riguardo il nostro modello. Ricordiamo che le riflessioni a cui siamo giunti finora sono valide in un contesto in cui valgono ancora le ipotesi del nostro scenario base. In particolare, avevamo dato per assunto, come punto di partenza del nostro circuito, una situazione in cui Ex = eIm ed in cui KO = KI. È giunto ora il momento di fare un passo in più e rilassare questi assunti. Otteniamo dunque uno scenario più realistico in cui diventa importante il rispetto di un’ulteriore condizione economica, affinché venga evitato l’inizio di una crisi finanziaria: i flussi di capitale in uscita non devono essere superiori alla somma tra esportazioni nette e flussi di capitale in entrata. Ipotizzando, ai fini della nostra analisi, che la quota di contributi previdenziali investiti all’estero costituisca l’unica forma di flussi di capitale in uscita (KO = θ), otteniamo dunque la seguente condizione economica:

θ ≤ Ex – eIm + KI                                                    (20)

Soffermiamoci sulle implicazioni di politica economica generale. Cominciamo ipotizzando proprio che la condizione appena enunciata non sia rispettata, ossia: θ > Ex – eIm + KI. Per evitare l’inizio di una crisi finanziaria, il nostro sistema economico necessita di aumentare le proprie esportazioni nette e/o afflussi di capitale oppure – concentrandoci in particolare sul topic di questo paper – avrebbe bisogno semplicemente che θ si riduca almeno fino a raggiungere l’uguaglianza nell’equazione 20. In parole povere, la propensione ad investire all’estero dei fondi pensione e/o la propensione dei lavoratori ad allocare i propri contributi previdenziali presso i FPP devono assolutamente ridursi. Approfondiamo questo concetto in termini di implicazioni concrete per il sistema di previdenza sociale.

Da un punto di vista politico, ridurre θ vuol dire che i fondi pensione privati devono essere regolati in modo tale da promuovere investimenti produttivi domestici e/o che lo Stato stesso e le organizzazioni sindacali controllino direttamente propri fondi pensione con il duplice scopo strategico di gestire i contributi previdenziali e di stimolare gli investimenti nella propria economia. Questo genere di policy aiuterebbe sia a ridurre la quota di contributi investiti in asset all’estero e sia a stimolare gli investimenti e la crescita economica. Si tratta di un punto politico rilevante per il tema affrontato in questo paper e che l’estensione del modello di Circuito monetario che abbiamo proposto riesce a rappresentare peculiarmente ed in modo estremamente chiaro.  

In termini squisitamente teorici, θ può anche ridursi fino a diventare pari a zero e – guardando sia al lato finanziario e sia al lato reale dell’economia – in questo modo l’equazione 15 ritorna alla formulazione KO – KI = 0, mentre, allo stesso tempo, gli investimenti I (equazione 13) ed il prodotto aggregato della nostra economia X (equazione 11) continuano ad incrementarsi.

Per concludere la nostra analisi, esploriamo infine un modo alternativo di ridurre θ e che coinvolge direttamente sia il lato reale e sia il lato finanziario dell’economia.

La letteratura empirica dimostra che la propensione ad investire in fondi pensione dipende da una vasta gamma di fattori politici ed economici, inclusi i salari (cf. Jappelli et al. 2019; Guiso et al. 2009). In particolare, quanto più è alto il salario corrente medio, tanto maggiore è anche l’importo atteso dell’assegno pensionistico medio futuro e, ceteris paribus, tanto minore è la propensione media ad allocare risparmi presso i FPP. Questo vuol dire che una politica pro-labour adottata per aumentare il salario medio porta con sé anche l’effetto di contribuire a raggiungere quest’ultimo obiettivo.

Questo genere di policy dovrebbe riportare alla mente del lettore proprio la strategia di crescita wage-led che abbiamo promosso precedentemente, quando abbiamo analizzato in particolare il solo lato reale dell’economia. Dal momento che il focus finanziario appena realizzato ci suggerisce che una simile politica aiuterebbe anche a ridurre la propensione media ad investire in fondi pensioni (riducendo, dunque, ceteris paribus, anche la quota di capitali investiti all’estero), possiamo giungere alla conclusione che la politica pro-labour che abbiamo più volte promosso in questo paper rappresenta, sia dal punto di vista finanziario e sia dal punto di vista reale, la migliore politica possibile anche per garantire la sostenibilità dei sistemi pensionistici.

In termini analitici, dato che θ è una funzione di β, e dato che quest’ultima è a sua volta funzione dell’assegno pensionistico medio atteso Ret+1, possiamo concentrarci sul salario corrente medio w, proprio perché  Ret+1  dipende anche da quest’ultimo. Fatte queste premesse, quindi, la quota di capitali investiti all’estero si dimostra anche indirettamente funzione del salario corrente medio. Si tratta, dunque, di un punto molto rilevante anche dal punto di vista politico e che, analiticamente, indichiamo nell’equazione 21:

θ = f(w, v)                                                               (21)

dove v rappresenta un vettore di variabili come fattori politici, fattori economici, condizioni di lavoro etc. che influenzano la propensione ad investire in FPP.

Tenendo conto sia del lato reale e sia del lato finanziario dell’economia, dunque, l’equazione 21 ci dice che la distribuzione del reddito e le correlate politiche pensionistiche rappresentano fattori in grado di influenzare in modo non trascurabile anche l’andamento finanziario di un’economia. In altre parole, la nostra estensione del  modello circuitista dimostra plasticamente che le scelte politiche sui regimi pensionistici diventano determinanti anche per il mondo finanziario. Tutto ciò ci riconduce anche ad un’altra importante conclusione di policy: in un’economia wage-led, una politica pro-labour di lungo periodo rappresenta il modo migliore sia per stimolare la crescita economica e sia per finanziare il sistema di previdenza sociale.

Conclusioni

Il paradigma teorico della Teoria Monetaria della Produzione ci permette di analizzare la macroeconomia della Previdenza Sociale mettendo da parte le fallaci teorie neoclassiche e tenendo propriamente conto sia delle variabili reali e sia di quelle finanziarie. L’obiettivo del paper è anche quello di dimostrare – facendo ricorso alla tradizione italiana del Circuito Monetario – che le analisi sui sistemi pensionistici possono far riferimento a validi e riconosciuti approcci alternativi. L’estensione del modello di Graziani che abbiamo proposto in questo paper, infatti, può fungere da framework concettuale di base per un’analisi alternativa e a 360 gradi sulla Previdenza Sociale ed, inoltre, può anche aprire la strada ad ulteriori sviluppi modellistici ed empirici che avessero l’obiettivo di approfondire ulteriormente tutti gli aspetti delle politiche pensionistiche da un punto di vista eterodosso.

Da un punto di vista della policy, infine, l’estensione del Circuito Monetario proposta in questo paper dimostra che sistemi previdenziali che fanno molto affidamento sui fondi pensione gestiti dalle grandi società finanziarie possono rivelare gravi rischi, dal momento che la loro politica d’investimento può portare i risparmi dei contribuenti fuori dal “circuito” dove essi stessi vivono e lavorano. Si tratta, in fondo, di quello che accade proprio in Italia. Tenendo in conto tutto ciò, crediamo che, in caso di volontà o necessità di gestire la gran mole di risparmi che i lavoratori sarebbero disposti a destinare a fondi pensione, la soluzione migliore sarebbe la gestione collettiva: fondi pensione gestiti direttamente dallo Stato e/o dalle organizzazioni sindacali con lungimiranti e strategici obiettivi socio-economici. Inoltre, la nostra estensione del modello di Graziani dimostra analiticamente i vantaggi finanziari e reali che la crescita dei salari porta con sé sia per il sistema previdenziale e sia per l’economia nel suo complesso, dal momento che politiche pro-labour rappresentano un vero e proprio driver sia per la crescita economica che per la sostenibilità dei tradizionali sistemi pensionistici statali.

Le opinioni espresse non rappresentano necessariamente quelle dell’Istituto di appartenenza.

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[1] Secondo la teoria neoclassica, in un libero mercato del lavoro, la domanda (le imprese) e l’offerta (i lavoratori) si incontrano quando il livello del salario reale è accettabile per entrambi, ossia al suo cosiddetto livello d’equilibrio. Da questo meccanismo scaturisce quindi il livello dell’occupazione che – combinato con altre variabili come il capitale – determina il livello d’equilibrio della produzione. Qualunque distorsione a questo meccanismo di mercato provocherebbe – nella loro visione – un livello di disoccupazione più alto. Sarebbe diverso solo il caso dei contributi volontari perché, secondo quello schema teorico, sarebbe comunque il risultato di una scelta razionale tra consumo e risparmio.

[2] In General Theory of Employment, Interest and Money (1936) John Maynard Keynes spiega che l’equilibrio neoclassico può costituire solo un caso speciale, ma non la normalità nelle nostre economie, perché richiede una situazione in cui la domanda aggregata ha già assorbito l’output prodotto. Su queste basi Keynes rifiuta infatti la Legge degli sbocchi di Say, secondo la quale sarebbe invece l’offerta a generare la domanda.

[3] Samuelson introduce il concetto di tasso di rendimento biologico assimilando figurativamente gli schemi pensionistici pay-as-you-go ad i sistemi a capitalizzazione nel tentativo di renderli coerenti con la logica della massimizzazione dell’utilità che seguirebbero – nella logica mainstream – agenti economici razionali nei propri comportamenti.  Come scrive egli stesso: “in a stationary system everyone goes through the same life-cycle, albeit at different times. Giving over goods now to an older man is figuratively giving over goods to yourself when old” (Samuelson 1958, p. 471). Per una critica complessiva si rinvia a Lerner (1959).

[4] Si rinvia a Cesaratto (2002) per una rassegna dettagliata.

[5] Secondo Keynes, infatti, i risparmi dipendono dalle decisioni delle famiglie, che a loro volta vengono influenzate dal reddito e dalle proprie aspettative, mentre gli investimenti dipendono da fattori completamente diversi, come i tassi d’interesse e le aspettative delle imprese. Per usare le parole dello stesso Keynes: “The absurd, though universal, idea that an act of individual saving is just as good for effective demand as an act of individual consumption, has been fostered by the fallacy, much more specious than the conclusion derived from it, that an increased desire to hold wealth, being much the same thing as an increased desire to hold investments, must, by increasing the demand for investments, provide a stimulus to their production; so that current investment is promoted by individual saving to the same extent as present consumption is diminished” (Keynes 1936, p. 211).

[6] Secondo Steindl (1990, p. 175), inoltre, quando la propensione marginale al consumo decresce, un sistema fully-funded non solo influenza negativamente l’output, ma tende anche a provocare maggiori deficit pubblici che, indirettamente, sono finanziati dagli stessi fondi previdenziali. In altre parole, anche a dispetto del proprio nome, un sistema fully-funded non è realmente pienamente autofinanziato.

[7] Come evidenzia Palley (1998, p. 5), sarebbe anche diverso in un sistema pensionistico finanziato dalla tassazione generale sui redditi. In tal caso, con una tassa sui redditi proporzionale al Pil, i contributi al sistema previdenziale continuerebbero a crescere anche se i salari dovessero stagnare ed i profitti dovessero crescere. Anche in tal caso, quindi, la distribuzione del reddito si conferma una variabile chiave quando parliamo di sostenibilità del sistema pensionistico.

[8] Anche assumendo che i contributi non pesino direttamente sui redditi da lavoro ma, ad esempio, sulle stesse imprese che pagano i salari, non ci sarebbero cambiamenti sostanziali nei nostri ragionamenti perché nella TCM le imprese domandano prestiti bancari al fine di anticipare il fondo salari. Ad esempio, i lavoratori possono guadagnare wN (invece di wN – twN) in uno scenario in cui le imprese domanderebbero un prestito pari a L0 = wN + twN (invece di L0 = wN).

[9] Gli agenti economici risparmiano una quota del loro reddito perché vogliono acquistare i titoli emessi dalle imprese o perché vogliono incrementar le proprie riserve di liquidità. Il primo scenario è ovviamente quello migliore per le imprese. Infatti, se ad esempio tutti i risparmi fossero investiti in questo modo, le imprese sarebbero in grado di restituire il prestito iniziale. Ma – al contrario di quello che accade nella maggior parte dei modelli mainstream – i modelli TCM incorporano la possibilità di una crisi proprio quando gli agenti economici decidono di incrementare le proprie riserve di liquidità, dato che l’incertezza è la situazione tipica e caratteristica delle economie di mercato e, a parità di altre condizioni, le imprese non avrebbero così abbastanza liquidità per restituire il prestito iniziale delle banche (Graziani 2003, p. 31)

[10] Si noti che nel modello TCM tradizionale i profitti sono determinati dalla differenza tra la spesa per investimenti e la spesa per interessi (Graziani 1984, p. 31). Questo risultato segue la logica kaleckiana secondo cui i lavoratori spendono ciò che guadagnano e le imprese guadagnano ciò che spendono (cf. Graziani 2003, p. 104; Kalecki 1933). Dato che, come evidendiato in precedenza,  Cw + Cr = C = wN e dato che abbiamo ipotizzato RS = twN, allora l’equazione 2 si risolve in: P = I – rL; come dimostra quest’ultima formula, anche il nostro modello raggiunge ovviamente la stessa conclusione.

[11] Gli interessi non compaiono nella equazione dei consumi perché si ipotizza – come fa lo stesso Graziani (1984, p. 28) – che il pagamento degli interessi dovuti a chi acquista i titoli emessi dalle imprese siano pagati alla fine di ogni periodo e che gli agenti economici li reinvestano acquistando nuovi titoli nello stesso momento. Di conseguenza, le imprese possono pagare gli interessi acquistando nuovi titoli per lo stesso ammontare, evitando di incrementare il loro bisogno di liquidità.

[12] Vale la pena notare che nella Teoria del Circuito Monetario di Graziani e, coerentemente, anche nel nostro modello, “money prices do not depend either, at least not in any direct way, on how government expenditure is financed. Government expenditure may certainly have inflationary consequences; but such consequences are not produced by the increase in the stock of money, but only indirectly by the increase in aggregate demand” (Graziani 2003, p. 107).

[13] Ricordiamo, infatti, che nel nostro modello ad economia chiusa la parte di reddito destinata a consumi e investimenti era semplicemente pari a wN(1 – t)].

[14] Come sottolineano Bhaduri e Marglin (1990, p. 378), “other things being equal, a lower profit margin/share would weaken the incentive to invest, the contradictory effects of any exogenous variation in the real wage on the level of aggregate demand become apparent. A higher real wage increases consumption but reduces investment, in so far as investment depends on the profit margin”.

[15] Il modello di Bhaduri e Marglin (1990) ha ispirato un’ampia letteratura econometrica. Si veda ad esempio Hein e Vogel (2008), Stockhammer e Stehrer (2011), Onaran e Galanis (2013) e Lavoie e Stockhammer (2013).

[16] Da notare che, per maggiore semplicità, assumiamo anche che la transizione tra regimi non comporti costi mentre, al contrario, Cesaratto (2002) dimostra che questi esistono e sono anche molto elevati. D’altra parte, assumiamo anche che i lavoratori non scelgano di ridurre i propri investimenti finanziari in altri asset quando optano per un fondo pensione, anche perché l’obiettivo di questo paper non è esplorare le scelte di portafoglio degli agenti economici, ma analizzare gli effetti netti delle politiche pensionistiche.

[17] D’altro canto, la quota di risparmi investiti all’estero dovrebbe ritornare in futuro aumentata degli interessi maturati, ma è anche vero che l’economia conosce già nel presente una caduta dell’output perché quei maggiori risparmi significano specularmente una caduta dei consumi e della domanda aggregata nell’immediato. Gli economisti mainstream guardano all’allocazione globale dei capitali come ad uno strumento estremamente efficiente per la crescita e, di conseguenza, i tassi di rendimento dei FPP come molto remunerativi ma – come spiegato in precedenza – non esistono evidenze solide a sostegno della loro tesi. L’unica conseguenza certa di una simile libera allocazione sul mercato dei capitali è dunque la fuoriuscita di liquidità dalle economie finanziariamente più fragili.

[18] Vi è da precisare che, secondo alcuni circuitisti, le banche potrebbero anche non sostenere le richieste e, quindi, le decisioni delle imprese. In questo caso, le imprese non potrebbero tradurre i propri piani di produzione in un processo di produzione reale. Inoltre, anche la stessa struttura finanziaria delle imprese potrebbe influenzare le loro decisioni di produzione. Tutto questo vuol dire che sono possibili comunque tre possibili scenari di crisi finanziaria: (1) ad un certo punto, le banche rifiutano di garantire nuovi prestiti; (2) temendo la bancarotta, ad un certo punto, le imprese stesse si rifiutano di aumentare il proprio livello di indebitamento; (3) lo Stato interviene per salvare le imprese allo scopo di evitare i due scenari precedenti. In tutti questi casi, le implicazioni del nostro modello non mutano in alcun modo.

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