Le statistiche del mercato del lavoro ci stanno segnalando un fenomeno socio-economico del tutto nuovo: il numero dei disoccupati aumenta molto più dei posti di lavoro persi.
Per spiegare la cosa occorre occorre muoversi con cautela. Infatti, le statistiche del mercato del lavoro hanno infatti spesso tratto in inganno anche gli addetti ai lavori, portandoli a interpretare in modo errato fenomeni macroscopici. Il motivo è presto detto: le statistiche e gli indicatori sul mercato del lavoro non misurano soltanto i flussi da occupati a disoccupati (e viceversa), ma anche quelli da forza-lavoro (che non è altro che la somma di occupati e disoccupati) a “inattivi”. Chi sono gli “inattivi”? Sono quelle persone che non lavorano ma – siccome non cercano neanche lavoro – non vengono classificate tra i disoccupati. Due in particolare sono i fenomeni che si rischia di non capire se non si fa attenzione a questa duplice dinamica di flussi.
Il primo, nei periodi di crisi, è quello del cosiddetto “scoraggiamento”: mentre calano gli occupati (e il tasso di occupazione), il tasso di disoccupazione aumenta molto meno di quanto ci si aspetterebbe. Ciò accade perché una parte dei disoccupati smette addirittura di cercare lavoro e quindi esce dal conteggio del tasso di disoccupazione. È successo ad esempio nel 2009 e nel 2010 – subito dopo lo shock recessivo del 2007-2008 – quando, a fronte della perdita di oltre 560mila posti di lavoro, i disoccupati sono aumentati “solo” di 390mila unità. In quei due anni infatti oltre 170mila persone che non lavoravano sono state talmente scoraggiate dalla crisi che hanno smesso di cercare lavoro, diventando appunto “inattivi”.
In altri tempi – meno “neri” di quelli attuali – si è avuto il processo opposto: occupazione in crescita, ma tasso di disoccupazione che stentava a diminuire. È normale infatti che, proprio nei periodi di crescita, una parte degli “inattivi” si rimetta a cercare lavoro stimolata dalla ripresa dell’occupazione. Di conseguenza, si rallenta la discesa del tasso di disoccupazione, che agli ignari continua a segnalare una situazione di crisi. È successo ad esempio tra il 1995 e il 1998 (tab. 1): il tasso di disoccupazione sostanzialmente stabile (11,2-11,3%), ma occupazione in aumento di quasi 300 mila unità. Com’è stato possibile? Tutto si spiega ricordando che in quegli anni ben 350mila ex-inattivi si sono rimessi a cercare lavoro.
Insomma, se c’è la crisi abbiamo lo scoraggiamento (disoccupati che diventano “inattivi”); se le cose vanno meglio abbiamo il fenomeno opposto (“inattivi” che diventano disoccupati).
Veniamo a quanto sta accadendo oggi. Non c’è dubbio che siamo in crisi: sono anni infatti che ci barcameniamo tra recessione e stagnazione, e le previsioni non segnalano un miglioramento della situazione. Però le statistiche del mercato del lavoro non evidenziano un fenomeno di “scoraggiamento”. Anzi, al contrario, misurano il fenomeno opposto: tra il 2011 e il 2014 – mentre si perdevano quasi 250mila posti di lavoro – oltre 900mila persone sono (ri)entrate nella forza-lavoro. Risultato: quasi 1,2 milioni di disoccupati in più. E la spiegazione non è demografica: in questi quattro anni il tasso di attività (il rapporto tra forza-lavoro e popolazione con più di 15 anni di età) è aumentato dal 48,1% al 49,1%. In anni di crisi!
Qualche spin-doctor del Governo potrebbe sostenere che sono gli effetti dell’ottimismo che ha cominciato a diffondersi nel sistema grazie all’entusiasmo di Renzi. Io più modestamente suggerisco una spiegazione meno euforica: l’effetto combinato e prolungato di licenziamenti, lavori precari e bassi salari sta portando tante persone a mettersi alla ricerca di un lavoro per cercare di integrare le magre risorse famigliari. E chi sono queste persone? Sono quasi tutte donne: il tasso di attività degli uomini in questi anni è infatti rimasto praticamente stabile (è aumentato solo di 0,2 punti %), mentre quello femminile è aumentato di ben 2,4 punti % (in soli quattro anni!). A mio modo di vedere, questo strano fenomeno di “incoraggiamento” in piena recessione non è l’effetto di aspettative rosee sul futuro, ma è il frutto della pura e dura forza della disperazione generata da ormai troppi anni di crisi.
*Università di Sassari