Grande Recessione e teoria macroeconomica: una crisi inutile?

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Political and social notes

La crisi finanziaria del 2007-08 e la successiva Grande Recessione hanno indotto molti economisti a riconoscere che il modello teorico elaborato a partire dagli anni Settanta del secolo scorso aveva un limite fondamentale che consisteva nel trascurare il sistema finanziario e il fenomeno delle crisi. In altri termini, il modello sosteneva che non si sarebbero potute verificare crisi analoghe alla Grande Depressione degli anni Trenta e alla Stagflazione degli anni Settanta del secolo scorso.

Questa è la regione per la quale gli economisti non sono stati in grado di prevedere l’arrivo della crisi poiché, come ha sottolineato Turner: “Non puoi vedere arrivare una crisi se hai teorie e modelli che ipotizzano che le crisi non sono possibili” (A. Turner, Between Debt and the Devil, Princeton University Press, 2016). Le crisi che si verificarono nel secolo scorso spinsero gli economisti a sostituire la teoria dominante con una teoria alternativa. La Grande Depressione determinò l’abbandono della teoria neoclassica e l’affermazione della teoria keynesiana. La Stagflazione, invece, spinse gli economisti a sostituire la teoria keynesiana con una nuova versione della teoria neoclassica che sottolineava l’assoluta efficienza delle forze del mercato. A differenza di quanto successo nel secolo scorso, la crisi contemporanea non sta spingendo gli economisti a sostituire il modello dominante, noto tra gli addetti ai lavori come il New Keynesian Dynamic Stochastic General (DSGE) Model, con una teoria alternativa.

Secondo alcune recenti indagini, circa il 75% degli economisti sostiene che il fatto che il modello dominante trascurasse il sistema finanziario non costituisce una ragione sufficiente per sostituirlo con un modello alternativo. Sarebbe infatti sufficiente aggiungere il sistema finanziario alla versione del modello già esistente. Sotto la spinta di questa larga maggioranza di economisti, negli ultimi dieci anni è stata elaborata una nuova versione del modello dominante che considera esplicitamente il sistema finanziario. Il risultato di questi lavori comincia ad apparire nei manuali di macroeconomia; un esempio importante è costituito dall’ultima versione del manuale più diffuso in Italia, scritto da Blanchard, Amighini e Giavazzi, Macroeconomia. Una prospettiva europea, Il Mulino (2017).

L’obiettivo di questo scritto consiste nel mostrare la debolezza di questa operazione che mira a tenere in piedi il modello dominante grazie alla specificazione del sistema finanziario. Infatti questo tentativo di consolidamento si basa sulla premessa infondata secondo cui la scelta di elaborare un modello macroeconomico che trascura il sistema finanziario è dovuta alla necessità di semplificare il modello. In realtà questa scelta si basa su di una ben precisa teoria macroeconomica che sostiene il principio di neutralità della finanza. Questa teoria sostiene che il sistema finanziario non ha alcuna influenza sui livelli di reddito e di occupazione e quindi non può essere all’origine delle fluttuazioni economiche e delle crisi. In altri termini, la scelta di elaborare modelli che trascuravano il sistema finanziario non era dovuta alla necessità di semplificare il modello, ma si fondava su una teoria che sosteneva l’irrilevanza del sistema finanziario. Ciò implica che per poter spiegare l’origine della crisi contemporanea è necessario sostituire il modello dominante con una teoria alternativa che riconosca le ragioni della non neutralità della finanza.

Non è questa la strada seguita dalla maggioranza degli economisti e da Blanchard, Amighini e Giavazzi. Infatti, la teoria della finanza che essi hanno aggiunto al modello mainstream ribadisce sostanzialmente il principio di neutralità della finanza; la nuova versione del modello dominante rimane quindi sostanzialmente identica a quella precedente ed altrettanto incapace di spiegare l’origine della crisi. Per giustificare questa conclusione ricordiamo le caratteristiche della teoria mainstream della finanza.

1. La teoria mainstream della finanza

La teoria mainstream della finanza deriva dalla teoria neoclassica della moneta e della finanza che spiega il concetto di credito partendo dalle decisioni di risparmio e di investimento e sottolineando che, generalmente, chi risparmia non è lo stesso soggetto che investe (dissociazione tra decisioni di risparmio e di investimento). Da qui, la teoria neoclassica trae due implicazioni: i) sottolinea lo stretto legame tra decisioni di risparmio e offerta di credito e tra decisioni di investimento e domanda di credito; ii) separa nettamente il processo di creazione della moneta dal processo di creazione del credito. In questo modo, la teoria neoclassica sottolinea che l’impiego della moneta non cambia la natura del credito. In altri termini, il fenomeno del credito che ha per oggetto la moneta è equivalente a quello che ha per oggetto un bene reale. Questa conclusione deriva dal principio di neutralità della moneta che porta la teoria neoclassica a sostenere che concetti come reddito, consumi, risparmi, investimenti, credito, tasso di interesse, profitti, salari, possano essere definiti in termini di beni, indipendentemente dalla moneta.

E questa è la ragione per la quale la teoria mainstream arriva a spiegare i fenomeni economici considerando un sistema economico in cui si produce un unico bene che può essere consumato o risparmiato e in questo caso, investito (si veda Blanchard, Amighini e Giavazzi 2017, p. 82). Gli economisti classici consideravano una economia grano in cui il grano costituiva l’unico bene prodotto.

La teoria neoclassica della moneta e della finanza ci permette di spiegare le ragioni per le quali il modello mainstream trascurava completamente il sistema finanziario. Secondo questa teoria, infatti, il mercato del credito costituisce l’immagine speculare delle decisioni di risparmio e di investimento descritte specificando il mercato dei beni; pertanto, è sufficiente specificare il mercato dei beni trascurando il mercato del credito. Nel mondo descritto dalla teoria neoclassica il sistema finanziario è irrilevante e non può quindi essere un fattore di instabilità e generare delle crisi.

I lavori prodotti in questi ultimi dieci anni dagli economisti mainstream con l’obiettivo di completare il modello dominante, non mettono in discussione la teoria neoclassica della moneta e della finanza, quindi anch’essi non sono in grado di spiegare l’origine della crisi contemporanea. Questa conclusione trova conferma nell’ultima versione del manuale scritto da Blanchard, Amighini e Giavazzi i quali, per spiegare la crisi contemporanea, devono usare concetti che sono estranei alla teoria neoclassica della moneta e della finanza. In questo modo essi confermano che questa crisi rende necessaria l’elaborazione di un modello teorico alternativo che sia coerente con i concetti necessari a spiegare quanto è avvenuto in questi ultimi anni.

2. L’origine della crisi secondo Blanchard, Amighini e Giavazzi

Per spiegare l’origine della crisi contemporanea Blanchard, Amighini e Giavazzi (BAG) utilizzano tre concetti: i) rischio di insolvenza; ii) speculazione e bolle speculative; iii) moneta bancaria.

BAG spiegano il significato del rischio di insolvenza partendo dal concetto di leva finanziaria, che corrisponde al rapporto tra l’attivo di una banca e il suo capitale netto. Una banca diventa insolvente quando subisce una riduzione del valore del suo attivo superiore al valore del capitale netto. Essi sostengono che all’origine della crisi finanziaria si deve collocare il crollo del valore dei mutui ipotecari dovuto alla flessione improvvisa del prezzo delle abitazioni negli Stati Uniti.

I concetti di speculazione e bolla speculativa vengo utilizzati da BAG per spiegare il forte aumento del prezzo delle case negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2006 e l’improvviso crollo iniziato nel 2007. Infine, BAG sottolineano che il sistema bancario americano ha reagito al forte aumento del valore della leva finanziaria dovuto alla svalutazione dell’attivo, irrigidendo i criteri di erogazione del credito e provocando una forte stretta creditizia. Dopo il fallimento di Lehman Brothers: “l’intero sistema finanziario si paralizzò. Le banche smisero di prestarsi fondi l’una con l’altra, e smisero anche di prestarli a chiunque altro. Rapidamente, quella che era stata una crisi finanziaria si trasformò in una crisi economica” (Blanchard, Amighini e Giavazzi 2017, p. 170). Essi riconoscono quindi, che in un sistema economico in cui si impiega una moneta bancaria, le banche possono controllare l’offerta di credito indipendentemente rispetto alle decisioni di risparmio.

Il problema fondamentale di questa spiegazione è costituito dal fatto che si fonda su tre concetti che non sono coerenti con la teoria neoclassica della moneta e della finanza. La teoria mainstream, escludendo il mercato del credito dall’analisi trascura il rischio di insolvenza. Questa scelta è accettabile se si considera un’economia in cui si produce un unico bene, come nel caso di una economia grano in cui l’oggetto del contratto di credito è costituito dal grano risparmiato che viene offerto agli imprenditori che lo utilizzeranno per produrre altro grano. In questo caso, si può trascurare il fenomeno dell’insolvenza poiché il sistema finanziario è in grado di garantire, grazie alla nascita di soggetti come le banche che si impegnano a valutare le caratteristiche dei debitori, che verranno finanziati solo i progetti in grado di assicurare un rendimento che consentirà di rimborsare il prestito.

In secondo luogo, la teoria mainstream non spiega la presenza di mercati speculativi e il fenomeno della speculazione. Una economia grano è composta soltanto da mercati in cui vale la legge della domanda e dell’offerta, che non vale nei mercati speculativi in cui vengono scambiati beni durevoli come le abitazioni, oppure strumenti finanziari. In questi mercati le decisioni vengono prese in relazione alle aspettative sui prezzi futuri delle varie attività; questo implica che un aumento dei prezzi può generare un aumento della domanda che, a sua volta, farà aumentare i prezzi, provocando una: “deviazione dei prezzi delle attività finanziarie dal loro valore fondamentale” (Blanchard, Amighini e Giavazzi 2017, p. 329).

La presenza di mercati speculativi caratterizza un sistema economico in cui è rilevante il concetto di ricchezza, che corrisponde ai beni durevoli e alle attività finanziarie possedute da un individuo in un dato momento. Di periodo in periodo, la ricchezza di un individuo varia in funzione del suo risparmio. E’ difficile spiegare la relazione tra decisioni di risparmio e ricchezza all’interno di una economia grano. Se il risparmio consiste nella quantità di grano prodotta e non consumata è irrealistico ipotizzare che un individuo accumuli, anno dopo anno, una quantità illimitata di grano.

Infine, la spiegazione di BAG si applica ad un sistema economico nel quale le banche non sono semplici intermediari che prestano le risorse non consumate dai risparmiatori, ma sono in grado di variare l’offerta di credito creando moneta bancaria. In altri termini, si applica ad un sistema economico in cui esiste una stretta relazione tra il processo di creazione della moneta e il processo di offerta di credito e non vale, quindi, la separazione tra moneta e credito definita dalla teoria neoclassica.

L’analisi dell’origine della crisi elaborata da BAG, che si fonda su concetti che sono estranei alla teoria neoclassica della moneta e della finanza, ci induce a concludere che non è possibile spiegare il fenomeno delle crisi mediante un modello teorico che si basa sul principio di neutralità della moneta e della finanza, ma che è necessario utilizzare una teoria che sottolinei la non neutralità della moneta e della finanza. Si mostrerà che un modello teorico in grado di spiegare i concetti di: i) rischio di insolvenza; ii) speculazione; iii) moneta bancaria, può essere elaborato sulla base del pensiero di tre grandi economisti del ‘900: Keynes, Schumpeter e Minsky.

Per spiegare il fenomeno delle crisi, è necessario specificare le ragioni della non neutralità della moneta e della finanza. Queste ragioni si possono trovare nelle teorie elaborate da Keynes, Schumpeter e Minsky.

3. Keynes e le caratteristiche di una economia monetaria

Lavorando alla stesura della Teoria Generale Keynes scriveva che: “boom e depressioni caratterizzano un sistema economico […] in cui la moneta non è neutrale” (Keynes 1933, p. 411). Per spiegare il ruolo fondamentale della moneta, Keynes considera due differenti sistemi economici, che definisce rispettivamente real-exchange economy e monetary economy,e descrive le loro caratteristiche utilizzando due formule introdotte da Marx.

La sequenza M(merce)→D(denaro)→M(merce) descrive una real-exchange economy che presenta tre caratteristiche: i) la produzione di beni costituisce il nucleo dell’attività economica; il processo economico inizia con la produzione di beni, che si realizza indipendentemente dalla disponibilità di moneta; ii) la moneta è un semplice mezzo di scambio usato per superare i problemi connessi con il baratto; i beni prodotti vengono scambiati con moneta che viene utilizzata per acquistare altri beni; iii) la produzione di beni è condizione necessaria per acquistare altri beni. Una real-exchange economy mantiene quindi la struttura di una economia di baratto anche se si impiega moneta; in altri termini, la moneta è una grandezza neutrale che non modifica la natura degli scambi che si basa sulla cessione di beni contro beni.

Keynes utilizza la sequenza D(denaro)→M(merce)→D’(denaro) per descrivere le caratteristiche di una economia monetaria in cui la moneta non è neutrale. Questa sequenza ci permette di intuire le ragioni della non neutralità della moneta. In primo luogo, essa mostra che in una economia monetaria la disponibilità di moneta è condizione necessaria non solo per acquistare beni ma anche per produrre beni. Pertanto, in una economia monetaria l’impiego della moneta cambia la natura del processo produttivo rispetto ad una real-exchange economy.

In secondo luogo, questa sequenza mostra che in una economia monetaria l’obiettivo dell’attività economica non è produrre e scambiare beni, ma accumulare moneta. La produzione di beni è lo strumento che consente di ottenere una quantità di moneta (D’) superiore a quella necessaria per realizzare la produzione di beni (D). Sembra un’osservazione banale: un imprenditore non è interessato ad accumulare beni prodotti e invenduti, ma ad accumulare moneta grazie alla vendita di ciò che ha prodotto. Ma se si confrontano i due sistemi economici è necessario spiegare perché l’accumulazione di moneta è un obiettivo che riguarda soltanto i soggetti che operano in una economia monetaria e non quelli che operano in una real-exchange economy.

Per spiegare queste due caratteristiche di una economia monetaria è necessario utilizzare la teoria di Schumpeter.

4. Schumpeter e le ragioni della non neutralità della moneta

Schumpeter (Teoria della sviluppo economico, 1912), sottolinea che la caratteristica principale del processo produttivo in quella che abbiamo definito economia monetaria, è costituito dal cambiamento provocato dall’introduzione di innovazioni da parte degli imprenditori. Le innovazioni non consistono soltanto nell’introduzione di strumenti che aumentano la produttività del lavoro necessario a produrre i beni esistenti, ma consistono soprattutto nella produzione di nuovi beni che modificano profondamente il modo di vivere delle persone. Schumpeter sottolinea che in quella che egli definisce una economia capitalista, non vale il principio della sovranità del consumatore poiché i bisogni vengono continuamente condizionati dalle innovazioni introdotte dagli imprenditori.

L’altro elemento fondamentale dell’analisi di Schumpeter consiste nel mostrare che la moneta bancaria è uno strumento essenziale per l’introduzione delle innovazioni; senza moneta bancaria non ci sarebbero innovazioni.  Schumpeter infatti osserva che i soggetti che introducono le innovazioni devono possedere caratteristiche particolari, differenti da quelle necessarie alla produzione dei beni esistenti; essi devono essere in grado di immaginare un mondo nuovo plasmato dalle innovazioni e devono prevedere e condizionare le reazioni dei consumatori di fronte ai nuovi beni. Si tratta quindi di ‘uomini nuovi’ che non gestiscono le imprese esistenti e non controllano i fattori produttivi, che Schumpeter identifica fondamentalmente con la forza lavoro. La moneta bancaria, sottolinea Schumpeter, è lo strumento che consente a questi ‘uomini nuovi’ di ottenere il controllo della forza lavoro necessaria a realizzare le innovazioni; in altri termini, la moneta è lo strumento su cui si fonda un processo produttivo basato sull’introduzione di innovazioni.

Schumpeter ci consente di mettere in evidenza due altre importanti caratteristiche del processo produttivo di una economia monetaria. In primo luogo, egli mostra che il processo produttivo si basa sulle decisioni di gruppi sociali eterogenei: imprenditori, lavoratori e banchieri. E’ difficile spiegare la differenza tra imprenditori e lavoratori in una real-exchange economy o in una economia grano. In una economia monetaria, invece, come sottolinea Schumpeter, gli imprenditori sono i soggetti che introducono innovazioni assumendo lavoratori, grazie al credito ottenuto dalle banche.

In secondo luogo, l’analisi di Schumpeter sottolinea che le decisioni di produzione vengono prese in condizioni di incertezza.  L’incertezza costituisce un elemento fondamentale della teoria di Keynes. Com’è noto Keynes sostiene che una decisione è presa in condizioni di incertezza quando i suoi risultati futuri non possono essere rappresentati mediante una distribuzione di probabilità. La decisione di puntare 100 euro sul rosso della roulette non è incerta poiché i risultati di questa decisione possono essere definiti in termini probabilistici. Sono incerti invece i risultati dell’introduzione di una innovazione che possono essere rappresentati mediante la sequenza D→M→D’.

Supponiamo, ad esempio, che l’innovazione consista nella costruzione della ferrovia. In questo caso il simbolo D indica la quantità di denaro necessaria a pagare i lavoratori che costruiranno la ferrovia; il simbolo M, invece, indica i binari, i vagoni e le locomotive che verranno realizzati. Infine, il simbolo D’ indica i ricavi monetari che saranno ottenuti dalla vendita dei biglietti ferroviari. L’incertezza non riguarda la prima parte della sequenza D→M, che definisce la relazione tra  la quantità di denaro necessaria a pagare i lavoratori e la ferrovia che verrà costruita; si tratta infatti di una relazione tra lavoro e beni prodotti analoga a quella che caratterizza una real-exchange economy, una relazione che può essere considerata certa poiché è definita dalla tecnologia esistente. L’incertezza riguarda invece la seconda parte della relazione M→D’; infatti, l’obiettivo dell’imprenditore-innovatore non è costruire la ferrovia, ma realizzare un profitto monetario pari a D’-D. Questo è un risultato incerto perché dipende dalla reazione dei consumatori nei confronti del nuovo bene costituito dalla ferrovia.

5. Keynes, Schumpeter e i mercati speculativi

Quanto visto sinora ci permette di osservare che in una economia monetaria sono presenti due elementi utilizzati da Blanchard, Amighini e Giavazzi (Macroeconomia, Una prospettiva europea, Il Mulino 2017) per spiegare l’origine della crisi: i) la moneta bancaria; ii) il rischio di insolvenza; infatti, gli imprenditori-innovatori possono fallire, se le innovazioni non hanno successo e il loro fallimento si ripercuoterà sulle banche.

Infine, l’analisi di Keynes e Schumpeter ci permette di sottolineare che una economia monetaria è caratterizzata anche dalla presenza dei mercati speculativi. Come si è visto, Keynes spiega che la presenza di mercati speculativi caratterizza una economia in cui è rilevante il processo di accumulazione di ricchezza basato sulle decisioni di risparmio. Abbiamo osservato che è difficile ipotizzare la presenza di questo processo all’interno di una economia grano o di una real-exchange economy. La relazione tra decisioni di risparmio e ricchezza diventa rilevante in un sistema economico popolato da individui che hanno bisogni infiniti, cioè in un sistema economico basato sul principio di insaziabilità dei bisogni. Se i bisogni sono insaziabili, le risorse sono scarse e quindi si spiega la presenza di individui disposti ad accumulare un ammontare illimitato di ricchezza.

Un’economia monetaria in cui il processo di produzione si basa sull’introduzione di innovazioni che espandono all’infinito i bisogni dei consumatori, possiede le caratteristiche che giustificano la presenza di mercati speculativi in cui non vale la legge della domanda e dell’offerta e gli speculatori che basano le loro scelte sulla previsione della ‘psicologia del mercato’ (Keynes, Teoria Generale dell’occupazione, interesse e moneta 1936, cap. 12), possono provocare bolle speculative.

In conclusione, le analisi di Keynes e Schumpeter mettono in evidenza le ragioni della non neutralità della moneta: i) la moneta bancaria influenza le caratteristiche del processo produttivo; ii) l’accumulazione di moneta e di ricchezza costituisce l’obiettivo dell’attività economica. Partendo dalle ragioni della non neutralità della moneta è possibile definire la natura endogena delle crisi.

6. Minsky e la natura endogena delle crisi.

Hyman Minsky è l’economista che, integrando il pensiero di Keynes e Schumpeter, ha elaborato una solida teoria della crisi che evidenzia tre aspetti della natura endogena della crisi. In primo luogo Minsky ha sottolineato che le crisi sono la conseguenza degli stessi meccanismi su cui si basa il processo di sviluppo fondato sulle innovazioni descritto da Schumpeter. Nella sua interpretazione della Teoria Generale, Minsky (John Maynard Keynes, Boringhieri 1975) ha sottolineato che la stessa struttura finanziaria necessaria al processo di sviluppo descritto da Schumpeter rende una economia monetaria fragile e soggetta a crisi.

Possiamo quindi distinguere due tipi di finanza: una finanza ‘buona’, necessaria al processo di sviluppo, e una finanza ‘cattiva’ che può provocare le crisi. Questa classificazione può essere associata ai concetti di intraprendenza e speculazione utilizzati da Keynes. Abbiamo visto che la relazione tra moneta bancaria e innovazioni specificata da Schumpeter costituisce il presupposto necessario per spiegare la relazione tra decisioni di risparmio e ricchezza e quindi la presenza di mercati speculativi. Possiamo quindi osservare che la finanza ‘cattiva’ deriva dalla finanza ‘buona’. Keynes ha sottolineato che la presenza di mercati speculativi non genera automaticamente una crisi, ma le crisi diventano inevitabili quando la speculazione prevale sull’intraprendenza.

Minsky ci aiuta a definire le condizioni che possono provocare la prevalenza della speculazione rispetto all’intraprendenza. Egli sottolinea, infatti, che il raggiungimento di una condizione di stabilità costituita, ad esempio, da piena occupazione e prezzi stabili, può creare le condizioni che provocano una crisi poiché: “la stabilità anche se è il risultato di una politica, è destabilizzante” (Minsky 1975). Egli osserva che l’adozione di politiche keynesiane di sostegno della domanda aggregata non è affatto sufficiente a garantire una stabile condizione di piena occupazione. Per spiegare questa tesi è necessario ricordare che in una economia monetaria le decisioni di investimento hanno le caratteristiche delle innovazioni schumpeteriane e vengono quindi realizzate in condizioni di incertezza. Ciò implica che si possono registrare fasi di euforia in cui imprenditori e banchieri si dimenticano delle crisi passate e assumono un atteggiamento estremamente ottimistico basato sulla convinzione di essere entrati in una ‘nuova era’ in cui le crisi non sono più possibili. Un ruolo importante nel generare la fase di boom che precede la crisi viene svolto da quelli che Keynes definisce speculatori professionali, individui che si specializzano nel prevedere la ‘psicologia del mercato’.

Il terzo elemento che permette di definire la natura endogena delle crisi può essere definito riconoscendo che una economia monetaria non converge verso un inesistente equilibrio ‘naturale’, ma è caratterizzata da un processo di cambiamento che modifica continuamente la struttura del sistema economico. Minsky, seguendo Schumpeter, sottolinea che il processo di trasformazione di una economia monetaria non è il semplice risultato delle innovazioni introdotte da qualche imprenditore geniale, ma è un fenomeno sociale che dipende dall’interazione di gruppi sociali eterogenei: imprenditori, lavoratori, banchieri, possessori di ricchezza, speculatori. Ciò implica che oltre alle innovazioni, c’è un altro fattore che influenza il processo di cambiamento che è costituito dalle istituzioni, cioè dall’insieme di disposizioni formali e informali e di strumenti come la moneta, che definiscono le ‘regole del gioco’ che condizionano le relazioni tra i diversi gruppi sociali. Queste regole, come sottolinea Douglass North (Capire il processo di cambiamento economico, Il Mulino 2005), riflettono le preferenze di quelle forze sociali che sono in grado di far valere la loro visione del mondo.

Se si riconosce che a causa delle innovazioni e delle istituzioni una economia monetaria o, come la definisce Schumpeter, una economia capitalista, può assumere diverse forme nel tempo, è possibile specificare un terzo elemento che definisce la natura endogena delle crisi: le crisi sono la conseguenza della fragilità di una determinata forma di capitalismo e segnano il passaggio da una forma di capitalismo ad un’altra.

Questa dimensione delle crisi ci permette di descrivere l’evoluzione del capitalismo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tra le fine della Seconda guerra Mondiale e gli anni Settanta del secolo scorso, si è affermato quello che può essere definito un capitalismo regolato frutto di un compromesso tra grandi imprese industriali, sindacati e forze di governo, favorito dalla accettazione di una particolare interpretazione della teoria Keynesiana nota come Sintesi Neoclassica. La crisi degli anni Settanta del secolo scorso costituisce l’espressione della fragilità del capitalismo regolato che provocò due reazioni contrastanti tra gli economisti.

Da un lato, una minoranza, rappresentata da Minsky, considerava quella crisi come l’occasione per recuperare gli elementi innovativi della teoria Keynesiana trascurati dalla Sintesi Neoclassica. Dall’altro, la larga maggioranza degli economisti accettò il punto di vista di Milton Friedman che considerava il fenomeno della Stagflazione come la prova dell’inefficacia o, addirittura, della dannosità delle politiche Keynesiane. Prevalse il punto di vista di Friedman e la Stagflazione costituì l’occasione per abbandonare Keynes.

La critica di Friedman al modello keynesiano dell’epoca, favorì lo sviluppo di una nuova forma di capitalismo definita capitalismo neolibrerista, la cui fragilità è testimoniata dalla crisi contemporanea. Minsky ha definito queste due forme di capitalismo rispettivamente managerial capitalism e managed money capitalism. Egli ritiene che il principale segnale di fragilità del managed money capitalism consista nel profondo cambiamento del comportamento dei banchieri e degli altri operatori finanziari. Minsky sottolinea che nei decenni precedenti la crisi i banchieri non hanno agito come gli ‘efori’ del capitalismo descritti da Schumpeter, ma come gli speculatori professionali descritti da Keynes.

La crisi contemporanea non può quindi essere considerata, come affermano gli economisti mainstream, la conseguenza di uno shock esogeno, ma essa costituisce l’effetto delle scelte delle autorità politiche e degli operatori finanziari che hanno introdotto regole e stimolato comportamenti che hanno favorito la prevalenza della speculazione sull’intraprendenza. Come abbiamo visto all’inizio di questo scritto, i limiti del modello mainstream descritto da Blanchard, Amighini e Giavazzi sono testimoniati dal fatto che, per spiegare l’origine della crisi senza ricorrere all’ipotesi di shock esogeni, questi autori sono costretti ad usare concetti come: i) moneta bancaria; ii) rischio di insolvenza; iii) speculazione, che non sono coerenti con la real-exchange economy descritta dalla teoria mainstream. Al contrario, questi concetti possono essere associati all’economia monetaria descritta utilizzando il pensiero di Keynes, Schumpeter e Minsky.

*Professore associato di Macroeconomia ed Economia monetaria presso il Dipartimento di Economia, Università dell’Insubria, Varese, Italia.

**PhD presso il Dipartimento di Economia, Università dell’Insubria, Varese, Italia.


[1] Questo scritto è una versione ridotta dell’articolo: Bertocco, G. e A. Kalajzić, Great Recession and macroeconomic theory: a useless crisis?, Review of Political Economy, pubblicato on line 03.02.2020.

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