Regolare o no l’home sharing?

Prime evidenze empiriche dall’indagine Inapp-Plus 2018 sugli Host italiani

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1. Introduzione

Per raccogliere informazioni sulle caratteristiche delle interazioni economiche on line e sugli internauti italiani, nell’edizione 2018 dell’indagine INAPP-PLUS (Participation, Labour, Unemployment, Survey)[1] sono state inserite, per la prima volta, delle specifiche domande[2]. Nell’indagine, sulla base delle classificazioni utilizzate in letteratura, sono state considerate tre specifiche attività economiche: la vendita on line di beni consumo (e-commerce); la prestazione di opere e servizi tramite piattaforme che intermediano lavoro (labour platform) e, infine, la condivisione lucrativa di beni immobili (home sharing).  

Una tra le questioni che pone la crescita di queste attività economiche è il loro grado di maturità professionale e la conseguente regolazione: semplificando, in uno stadio di mera condivisione non professionale di beni e servizi, quando si tratti cioè di un rapporto tra “pari”, peer to peer (p2p), potrebbe non essere indispensabile sottoporre queste attività alle tipiche regole di tutela del contraente debole (consumatore/lavoratore) che, in genere, si applicano quando il rapporto è invece business to consumer (b2c), impresa e cliente, oppure datore di lavoro e lavoratore subordinato. Quello appena sintetizzato è l’approccio seguito dalle istituzioni europee. Nella Agenda europea per l’economia collaborativa la Commissione sottolineava che lo sviluppo di questa economia, rendendo incerte alcune tradizionali categorie (appunto consumatore/prestatore di servizi; lavoratore subordinato/autonomo, ecc.), finisce, appunto, per rendere altrettanto incerti diritti e obblighi di coloro che vi partecipano e ne beneficiano[3].

Anche la Corte di Giustizia europea ha esaminato l’attività delle piattaforme, decidendo sulle prospettive regolative sviluppate a livello nazionale nei confronti di due fra quelle più note, Uber e Airbnb[4]. In entrambi i casi la Corte si è pronunciata sulla natura dei servizi svolti da questi operatori economici, per verificare se si tratti di un “servizio della società dell’informazione”, come pretendono le stesse piattaforme, oppure di un “servizio globale”, rispettivamente qualificato da un sottostante e principale servizio di trasporto urbano, o di intermediazione immobiliare. In altre parole, la questione affrontata è stata essenzialmente “chi fornisce cosa a chi” (Beretta, 2019), per verificare se Airbnb e Uber piuttosto che creare un marketplace e cioè collegare elettronicamente domanda e offerta di beni e servizi, intervengano anche fornendo ed organizzando gli stessi beni e servizi. Tale preliminare qualificazione ha primario rilievo pratico, in quanto i servizi della società dell’informazione beneficiano di un generale regime di libertà di circolazione, sicché gli Stati membri non possono imporre restrizioni (ad es. autorizzazioni) all’esercizio di queste attività.

Da questo punto di vista, la verifica relativa alle attività delle due piattaforme ha dato esiti diversi ed è stata, principalmente, condotta utilizzando il principio dell’influenza decisiva, volto cioè a verificare la latitudine del controllo esercitato dalla piattaforma su aspetti economicamente rilevanti del servizio scambiato sulla stessa. Nel caso di Uber il Giudice europeo ha verificato l’esistenza di questa influenza decisiva sulla attività di trasporto urbano esercitata, nel mondo reale, dagli autisti iscritti alla piattaforma, escludendo quindi la qualificazione di servizio della società dell’informazione; nel caso di Airbnb, invece, questa influenza decisiva è stata esclusa, riconoscendo rilievo principale al servizio della società dell’informazione on line dimessa in contatto tra domanda ed offerta. Centrale cioè nelle decisioni è stato rilevare che: Uber “fissa (…) il prezzo massimo della corsa” (para. 39, Asociación Profesional Elite Taxi), mentre Airbnb “non determina né direttamente né indirettamente i prezzi delle locazioni richiesti” (para. 68, Airbnb Ireland). In questo ultima decisione, tuttavia, suscita dubbi lo scarso peso attribuito dalla Corte al ruolo esercitato da Airbnb di “market maker” indubbiamente svolto da questa piattaforma nel settore degli affitti a breve termine (Smorto, 2019), profilo che invece ha pesato per escludere il ruolo di mero servizio della società dell’informazione nei casi Uber.   

Peraltro, accanto a questa prospettiva seguita dalla Corte europea, volta a verificare il ruolo e la qualificazione delle attività svolte dalle piattaforme, ci pare debba essere considerate in sé le caratteristiche di chi utilizza le stesse piattaforme a fini lucrativi (venditori; lavoratori e locatori);   spostato così il piano di indagine, infatti, rimane che quando l’attività trasla dal mondo virtuale a quello reale, riaffiorano quelle esigenze di tutela del contraente debole che hanno giustificato, e continuano a giustificare, limiti costituzionali allo svolgimento di attività economiche (art. 41 Cost). Da questo punto di vista, del resto la già citata comunicazione della Commissione europea fornisce delle prime indicazioni essenziali. Tre fattori dovrebbero essere considerati per verificare se il fornitore di servizi o prestazioni è un professionista (con conseguente applicazione della normativa di tutela dei consumatori): la frequenza dei servizi, l’esistenza di una finalità di lucro e il fatturato.  

A questo fine l’indagine Inapp fornisce, innanzi tutto, una fotografia generale su chi ha svolto una delle tre attività economiche sopra ricordate (e-commerce; lavoratore tramite labour platform; home sharing). Secondo l’indagine, si tratta di quasi il 6% della popolazione in età 18-74 anni e cioè circa 2 milioni e settecentomila individui. I più numerosi sono quelli che svolgono e-commerce: dell’universo degli Internauti che frequentano la Rete a scopo di lucro, il 77% svolge attività di vendita, il 15% loca immobili e l’8% ha utilizzato una piattaforma per trovare e svolgere una attività lavorativa. La prevalenza dell’attività di vendita si spiega innanzi tutto in termini temporali: infatti, lo scambio di beni on line (acquisto/vendita) costituisce la tecnologia che, in ordine di tempo, si è per prima affermata, almeno su larga scala. A titolo esemplificativo può essere ricordato che Ebay è stato fondato nel 1995, Airbnb nel 2008 e Uber nel 2009. Nel complesso, infine, vale ribadire che si tratta di soggetti già occupati, nonché più istruiti e più giovani rispetto al resto della popolazione italiana[5].    

2. L’home sharing

Dopo aver concentrato l’attenzione sui lavoratori delle piattaforme[6], pare interessante ora analizzare nel dettaglio i dati relativi a quanti nel 2018 hanno dichiarato di aver guadagnato denaro tramite piattaforme di home sharing. D’altro canto, nel nostro paese a forte vocazione turistica, la regolazione di questo fenomeno continua a suscitare forte dibattito. Un primo tentativo, solo in parte andato a buon fine, si è concretizzato con l’introduzione nel 2017 di uno speciale regime fiscale per i cd. affitti brevi (di durata non superiore a 30 giorni) non imprenditoriali. Mentre il nuovo regime è pienamente in vigore per i proprietari degli immobili (applicazione di una cedolare secca al 21%), di fatto, l’altra parte principale della normativa, che prevedeva una serie di obblighi in capo proprio alle piattaforme di intermediazione immobiliare[7] è sospesa[8]. È poi di questi giorni il tentativo, anch’esso fallito, di introdurre forme di controllo dell’accesso al mercato dell’intermediazione immobiliare non professionale[9].     

D’altro canto, anche per l’home sharing,la presenza di grandi piattaforme globali pone un tema di visibilità ed emersione della quantificazione finanziaria dei processi in atto. Inoltre, risulta urgente anche una analisi delle modalità di utilizzo dei dati sottostanti alle interazioni sviluppate in questo ambito, che forniscono un enorme asset imprenditoriale (Yousif, 2015). Se ci soffermiamo sul caso di Airbnb e osserviamo, ad esempio, le caratteristiche del tipo di condivisione che realizza, sembra emergere un contesto molto distante dal primordiale concetto di economia collaborativa (sharing economy)[10]. Utilizzando, infatti, i dati e gli indicatori di Inside Airbnb[11], si evidenzia, nel confronto con altri paesi, il maggior radicamento di attività di tipo professionale. A tal fine, Inside Airbnb estrae dalla stessa piattaforma di intermediazione immobiliare alcuni dati sulla cui base sono definiti alcuni indicatori, per verificare se l’attività di condivisione degli spazi abitativi sia qualificabile come relazione cooperativa oppure attività imprenditoriale. La banca dati ad esempio verifica se in un determinato contesto territoriale, gli host (gli utenti che immettono gli annunci di condivisione degli spazi abitativi), tendono ad offrire intere unità abitative, piuttosto che singole stanze o spazi condivisi; non risiedendo in tali unità; immettono annunci relativi a più unità abitative; sono presenti con annunci per lunghi periodi dell’anno. In tali casi, apparentemente, si determinano nel complesso condizioni di esercizio professionale dell’attività equivalenti a quella di ricezione alberghiera[12], che, ove non regolamentata, è capace di incidere sulla vita sociale ed economica del territorio interessato. In questo caso l’esercizio abusivo dell’attività professionale riduce gli alloggi residenziali disponibili per la popolazione residente, aumentandone il costo e producendo un flusso finanziario nascosto e non quantificabile con certezza. Per l’Italia, i dati di Inside Airbnb sembrerebbero evidenziare una sorta rete di locazione turistica sotterranea.  Un’alta percentuale di host che utilizzano la piattaforma, affitta interi appartamenti 76%, con la semplice condivisione di un comune spazio abitativo riferibile solo allo 0,49%. Le unità abitative vengono poi offerte sulla piattaforma per la maggior parte dell’anno (il 62% degli host è presente con annunci disponibili per oltre sei mesi). Inoltre, il 65% degli annunci postati sono pubblicati da utenti che gestiscono dai 2 ai 6 alloggi, e quasi sempre da utenti non residenti negli spazi postati sulla piattaforma. A trainare questo andamento sono in particolare alcune grandi città turistiche come Firenze, Roma, Venezia. Si veda il caso esemplare di Firenze. Qui il 77% degli annunci è riferibile a intere unità abitative, spesso con host non residenti; il 64% di utenti mette a disposizione più unità immobiliari. In altri contesti europei, all’opposto, con regolamentazioni compatibili con l’ordinamento europeo[13], il mercato ha avuto uno sviluppo del tutto diverso,[14] apparentemente riorientando il mercato ad un esercizio non professionale dell’home sharing. Si veda la figura di seguito riportata di confronto tra il mercato italiano, non regolamentato e quello tedesco, regolamentato.

Fig. 1- Benchmarking regolamentazione home sharing

Fonte: Inside Airbnb

I dati di Inapp-Plus possono arricchire le informazioni sull’home sharing, anche grazie alla comparazione con le altre tipologie di internauti intervistati.     

Innanzi tutto, i dati sembrano suggerire che tendenzialmente i lavoratori e venditori on line sono più numerosi fra i giovani, mentre il dato si capovolge quando si tratta di host. In altre parole, posto che, come detto all’inizio, gli internauti sono nel complesso più giovani, il divario digitale generazionale pesa meno, quando si considera una interazione economica che impiega un capitale iniziale, nel caso dell’home sharing, uno o più unità abitative. In questo caso, la classica distribuzione reddito-capitale per classi di età (Piketty, 2014) riemerge, al di là della tecnologia. In altre parole, questa distribuzione anagrafica smentisce la ricostruzione dell’home sharing come manifestazione di economia collaborativa diffusa tra giovani e giovanissimi, piuttosto – secondo i nostri dati – essa è esercitata dalla popolazione più adulta (49-64 anni). Questa evidenza può essere letta insieme ai dati Inside Airbnb che fotografano un mercato tendenzialmente professionale, apparentemente affollato da una fascia adulta di popolazione che mette in locazione intere unità abitative, spesso più di una, e per lunghi periodi nell’anno.       

Tab.  1 – Segmento economica on line per classe d‘età(Val. %)

  da 18 a 24 da 25 a 29 da 30 a 39 da 40 a 49 da 50 a 64 da 65 a 74 Tot
Venditori e-commerce 22,8 15,6 25,4 21,2 12,4 2,6 100,0
Host 8,0 5,5 20,2 21,5 31,2 13,6 100,0
Lavoratori digitali 18,9 25,6 20,5 24,2 9,2 1,7 100,0

Fonte: elaborazioni su dati INAPP-PLUS 2018

Quest’ultimo aspetto (la prevalenza del dato imprenditoriale al di là della sovrastruttura tecnologica), si evidenzia ancora di più osservando come si distribuiscono i tre segmenti in base alla condizione occupazionale dichiarata (tab. 2) nonché riguardo alle dichiarazioni relative alla essenzialità del reddito ricavato dalla interazione economica on line (essenziale, importante, utile)[15] (tab. 3). Gli host in più del 60% dei casi si dichiarano occupati; in percentuali molto più basse rispetto agli altri internauti si dichiara in cerca di occupazione e bassissima è la percentuale di studenti. Notevole poi, sempre rispetto alle altre tipologie di internauti, è la percentuale di pensionati (11,4%). Questi dati sembrano confermare un identikit degli host adulti, occupati e non in cerca, che svolge un’attività secondaria, richiedente un capitale iniziale.

Tab. 2 – Segmento economica on line per condizione occupazionale (val.%)

occupati in cerca pensionato studente altro inattivo Tot
Venditori e-commerce 59,8 14,6 2,8 13,4 9,4 100,0
Host 62,2 9,1 11,4 5,9 11,4 100,0
Lavoratori digitali 39,3 23,8 1,9 17,1 17,9 100,0

Fonte: elaborazioni su dati INAPP-PLUS 2018

Questa ultima evidenza va letta con il dato relativo al rilievo che gli host attribuiscono, nell’ambito del bilancio familiare, al reddito realizzato tramite l’attività di home sharing (Tab.3). Per gli host tale reddito è essenziale in quasi il 19% dei casi, mentre è importante in quasi il 29%. Nel confronto tra le varie tipologie di internauti, se i lavoratori mostrano di essere i più fragili economicamente e “dipendenti” da questa fonte di reddito al contrario dei venditori, gli host dichiarano nel complesso di svolgere l’home sharing per incrementare proficuamente un reddito lavorativo primario già sufficiente (non si dichiarano in cerca).

Tab. 3 – Segmento economica on line per essenzialità del reddito ricavato (val.%)

essenziale Importante comodo Tot
Venditori e-commerce 6,5 10,3 83,2 100,0
Host 18,4 28,6 53,0 100,0
Lavoratori digitali 28,0 22,8 49,2 100,0

Fonte: elaborazioni su dati INAPP-PLUS 2018

3. Prime brevi conclusioni

I dati Inapp-Plus forniscono un primo identikit degli host italiani. Rispetto agli altri internauti (lavoratori e venditori di e-comnerce), i primi sono tendenzialmente più anziani ed utilizzano l’attività di home sharing come attività secondaria per ricavare un reddito nel complesso comunque reputato rilevante nell’ambito del bilancio familiare.

Questa fotografia contraddice il concetto originario dell’economia collaborativa, ormai utilizzata come puro elemento retorico[16], piuttosto sembra avvalorare altri indicatori noti che, per Italia, mostrano l’emergenza di un mercato tendenzialmente professionale sotterraneo.

Ciò posto pare indispensabile una regolazione pubblica del fenomeno. In altri contesti europei è stata disciplinata non l’attività delle piattaforme in sé, piuttosto quella degli host, stabilendo delle soglie alla loro attività, per il raggiungimento di obiettivi sociali, quali la garanzia di edilizia residenziale a costi contenuti e la protezione dello sviluppo urbano. In questo modo, nelle intenzioni dichiarate dai promotori di queste normative, si cerca anche di riorientare verso spazi relazionali più vicini al concetto originario dell’economia della condivisione, uno scambio e condivisione di spazi abitativi per accrescere i livelli di affettività e socialità nella società contemporanea, la redistribuzione delle risorse e il risparmio di denaro. Sempre secondo questa impostazione, infatti, l’assenza di regole implica il superamento della logica originaria della economia collaborativa, ma una eterogenesi dei fini verso il dispiegarsi di attività di tipo imprenditoriale.

Peraltro, queste soluzioni rischiano di essere, per così dire, ad alto tasso di evasione, visto la folla globale di host e ospiti coinvolti e la brevità ed occasionalità delle locazioni. Ciò posto, riconosciuto il ruolo delle piattaforme nello sviluppo di questo mercato (market maker), la regolazione dovrebbe coinvolgere le stesse piattaforme. Innanzi tutto, queste in quanto creatori e gestori di quei mercati, dovrebbero agire come “intermediatori di regolazione” (Bush, 2018), apprestando soluzioni tecnologiche (tecnoregolazione)[17] per rendere immediatamente prescrittive, ad es., le stesse soglie legali che definiscono la non professionalità della ‘attività di home sharing.       

* INAPP – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche

**ricercatore, INAPP – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche

Bibliografia

Beretta C. (2019), Airbnb Is Not Uber: VAT Reflections on the Airbnb Ireland Case (C-390/18), https://bit.ly/2UzQNTc

Busch C. (2018), The Sharing Economy at the CJEU: Does Airbnb pass the ‘Uber test’? Some observations on the pending case C-390/18 – Airbnb Irelandhttps://bit.ly/2S6kTMb

De Minicis et alii (2020), Gli internauti e i lavoratori online: prime evidenze da Inapp‐Plus 2018, in corso di pubblicazione

De Minicis et alii (2019), Disciplina e tutela del lavoro nelle digital labour platforms. Un modello di tecnoregolazione, Economia & Lavoro, 3, 2019 (in corso di pubblicazione)

De Minicis M. (2018), Precari e capitale, socializzazione e contingenza della forza lavoro, Economia & lavoro, n.1, pp.121‐130

Federalberghi (2018), Turismo e shadow economy, https://bit.ly/2H8WD5H

Frenken K., Schor J., (2014), Putting the sharing economy into perspective, a research agenda for sustainable consumption governance, elgaronline.com

Piketty T. (2014), Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano

Smorto G. (2019), Armi spuntate delle autorità locali contro le piattaforme, https://bit.ly/2S7coAM

Yousif M. (2015), The Rise of Data Capital, IEEE Cloud Computing, 2,   


[1] I dati del presente lavoro sono tratti dal modulo Gig Economy dell’ultima wave relativa al 2018 – e disponibile a partire dai primi mesi del 2019 – dell’indagine PLUS. L’indagine nata nel 2005 e presente nel Piano Statistico Nazionale dal 2006, è giunta ormai alla sua VIII edizione.

[2] È stato rispettivamente chiesto: “Pensando a come può guadagnare denaro… Nell’ultimo anno, ha guadagnato denaro vendendo qualcosa online?“;“Nell’ultimo anno, ha guadagnato denaro accettando lavori attraverso questa tipologia di sito o app mobile, ad esempio portando con la macchina qualcuno da un luogo all’altro, consegnando pasti a domicilio, pulendo la casa di qualcuno o realizzando compiti (Hit) lavorative online?“; “Nell’ultimo anno ha mai guadagnato denaro tramite l’affitto di una casa o di un appartamento mediante l’utilizzo di un sito on-line di home-sharing (condivisione casa), come ad esempio Airbnb o VRBO?“

 [3] COM (2016) 356 final. 

[4] Con riferimento a Uber si tratta della sentenza del 20 dicembre 2017, Asociación Profesional Elite Taxi (C‑434/15) e di quella del 10 aprile 2018 Uber France (C‑320/16). Per Airbnb della sentenza del 19 Dicembre 2019, Airbnb Ireland (C-390/18).

[5] Per maggiori approfondimenti De Minicis et alii (2020).

[6] Si rinvia nuovamente al testo di cui alla nota precedente.

[7] Si tratta di una serie di obblighi fiscali e informativi in relazione ai contratti conclusi tramite la piattaforma:

– trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ai contratti;

– effettuazione della ritenuta sui pagamenti operati in relazione ai contratti e successivo versamento all’Erario;

– nomina di un rappresentante fiscale per i soggetti non residenti e non stabiliti in Italia;

– riscossione dell’imposta di soggiorno.

[8] Il Consiglio di Stato, su ricorso di Airbnb, ha rinviato all’esame della Corte di Giustizia la questione di legittimità della disciplina fiscale introdotta nel 2017, per presunto contrasto con il diritto europeo in materia di libera prestazione dei servizi e di libera concorrenza.

[9] Nel corso della discussione per la conversione del cd. Milleproroghe 2020 (Decreto-legge n. 162/2019) è stato proposto un emendamento volto a porre limiti logistici e temporali all’esercizio libero di questa attività economica, rinviando ai Comuni la messa in opera di questi stessi limiti. Per una ricostruzione giornalistica della vicenda vedi qui https://bit.ly/2GQqdgm.  

[10] La sharing economy nasce come possibilità di condivisione di spazi, beni e servizi finalizzati a realizzare nuove forme di socialità e collaborazione tra gli individui, allontanandosi dalle pure logiche di mercato, all’interno di una logica di scambio e collaborazione anche affettiva e socializzante. Utilizzando le tecnologie digitali per un modello di economia circolare. Così da incentivare stili di vita nuovi che riescano a favorire il risparmio o la redistribuzione del denaro, la socializzazione e la salvaguardia dell’ambiente. In tal senso si veda De Minicis, 2018.

[11] http://insideairbnb.com/get-the-data.html oltre a fornire in termini quantitativi una articolata e precisa mappatura del fenomeno, ha individuato alcuni indicatori, diversi da quelli già evidenziati dalla Commissione, per determinare la natura imprenditoriale o meno di tale attività di condivisione di spazi abitativi.

[12] È probabile che gli host con più annunci siano una realtà imprenditoriale e che non vivano nelle unità offerte in locazione, indebolendo la ratio della legislazione di accesso all’esercizio professionale di queste attività (anche a breve termine) volte a proteggere le aree residenziali e il diritto agli alloggi residenziali.

[13] Nell’Agenda europea più volte citata, secondo la Commissione: “(…) appare generalmente difficile giustificare un divieto di locazione a breve termine degli appartamenti se l’uso per locazione a breve termine degli immobili può, ad esempio, essere limitato a un numero massimo di giorni all’anno”. Inoltre, per esemplificare discipline volte alla verifica dell’esercizio non professionale di attività, vengono espressamente richiamati, i casi di normative locali che consentono le locazioni a breve termine senza previa autorizzazione o registrazione qualora i servizi siano prestati a titolo occasionale (non oltre soglie specifiche).

[14] Per una rassegna di queste normative si veda Federalberghi (2018).

[15] A tutti e tre i segmenti si è chiesto: In relazione al reddito che lei guadagna dalla vendita online (oppure da questa attività lavorativa), quale delle seguenti affermazioni lo descrive meglio?

– È essenziale per soddisfare le mie esigenze fondamentali

– È una componente importante del mio budget, ma non essenziale

– Mi fa comodo averlo, ma potrei vivere tranquillamente senza di esso

– Nessuna risposta

[16] Sul punto si veda Frenken, Schor (2014).

[17] Per maggiori approfondimenti sia consentito rinviare a De Minicis et alii (2019).

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