Inflazione da profitti e politica monetaria

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Con un’affermazione che è rimasta famosa nella letteratura economica, Milton Friedman una volta disse che l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario. Egli ammise che altri fattori possono avere conseguenze inflazionistiche nel breve periodo, ma affermò che devono necessariamente verificarsi aumenti della quantità di danaro in circolazione perché possa aversi una tendenza sostenuta all’aumento generalizzato dei prezzi.

Con un’affermazione che è rimasta famosa nella letteratura economica, Milton Friedman una volta disse che l’“inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario”. Egli ammise che altri fattori possono avere conseguenze inflazionistiche nel breve periodo, ma affermò che devono necessariamente verificarsi aumenti della quantità di danaro in circolazione perché possa aversi una tendenza sostenuta all’aumento generalizzato dei prezzi.

Riportando l’affermazione di Friedman ai nostri giorni, è lecito domandarsi se sia corretto parlare di “inflazione da profitti”, come è oggi diventato luogo comune alla luce degli aumenti senza precedenti dei profitti (aziendali) osservati in molti paesi nel periodo 2020-23, ed è altrettanto lecito domandarsi che ruolo può svolgere la politica monetaria per incidere su un’inflazione che abbia tale origine, considerate oltretutte le conseguenze che gli alti tassi d’interesse decisi dalle banche centrali dei maggiori paesi rischiano di avere sui livelli di attività economica e l’impiego di risorse.  

Si osservi che nel caso dei profitti, come argomenta Marc Lavoie, non basta accertare che ne sia cresciuta la quota sul PIL per concludere che è l’avidità delle imprese a causare l’inflazione di questi anni (greedflation). È vero, infatti, che, per effetto dei mark-up praticati dalle imprese sui costi di produzione, i rincari degli input produttivi (es., energia) si scaricano automaticamente sui prezzi finali in misura più che proporzionale rispetto ai rincari stessi, seppure a parità di mark-up (calcolati come percentuale dei costi totali di produzione). In altri termini, i profitti d’impresa crescono con i prezzi anche se le imprese non alterano i mark-up, dunque non d’ “inflazione da profitti” si può parlare in questo caso.

D’altra parte, è proprio sulla base delle considerazioni di Lavoie che la recente indagine di Servaas Storm corrobora, con rigore, la tesi dell’inflazione da profitti in paesi come Stati Uniti e Olanda, dove si sono registrati forti aumenti dei mark-up aziendali in alcuni settori produttivi (mentre lo stesso Storm rileva l’insufficienza delle ricerche di fonte MES, BCE e OCSE che cercano di comprovare le medesima tesi, ma senza tener conto delle considerazioni di Lavoie).  

Tornando a Friedman: risulta corretto parlare d’“inflazione da profitti” purché si accerti una crescita dei mark-up? È allora possibile un’“inflazione NON da moneta”? La questione è tutt’altro che semantica, e serve invece a comprendere con quali strumenti di policy, e con quali obiettivi, sia preferibile intervenire sul problema.

Si osservi che sebbene mark-up costanti (e, a fortiori, in aumento) amplifichino l’aumento del livello dei prezzi, essi da soli non sono sufficienti a sostenere una dinamica dei prezzi in aumento. Al contrario, i mark-up tendono a essere “auto-assorbenti”, giacché, a parità di altre circostanze, la loro applicazione trasferisce potere d’acquisto da soggetti (lavoratori) con propensione alla spesa mediamente più elevata ad altri (imprese e azionisti) con propensione alla spesa mediamente più bassa, riducendo complessivamente la pressione sulla domanda aggregata. Inoltre, sempre seguendo la medesima logica, più si ampliano i mark-up e più il loro impatto sui livelli dei prezzi tende ad affievolire la dinamica di crescita dei prezzi stessi.

Il sostegno al processo inflattivo deve dunque risiedere altrove. Potrebbe risiedere nell’aumento della velocità di circolazione del danaro (sempre a parità di altre circostanze), legato a decisioni di accelerare la spesa che maturano nell’ambito del settore privato e/o di quello pubblico, spesso anche in anticipazione di un’inflazione crescente. Ma neppure questa variabile è auto-sostenibile: se non è assecondata da un’offerta di moneta (transattiva) adeguatamente elastica, la maggior velocità causa un aumento del costo del danaro (sottoforma di più elevati tassi d’interesse reali) che tende a rallentarla; così come a rallentarla tende pure l’aumento dei prezzi provocato dal maggior costo del danaro come input produttivo (sottoforma di più elevati tassi d’interesse nominali), che riduce il valore reale delle scorte monetarie disponibili.

Dunque, la progressione dell’inflazione necessita di un sostegno esogeno che consenta alla velocità di circolazione del danaro di non diminuire e al danaro di non perdere potere d’acquisto. Il che, riprendendo Friedman, richiede che cresca l’offerta di moneta necessaria a finanziare la spesa (pubblica e/o privata) oppure che sussista una riserva di moneta previamente accumulata dal settore privato, il cui decumulo può finanziare maggiori flussi di spesa. È quanto sostiene, per esempio, Ben Broadbent della Banca d’Inghilterra e la tesi appare coerente con gli andamenti comparati di moneta e inflazione osservati in alcune economie avanzate ed emergenti, che mostrano che la crescita dell’inflazione nel periodo successivo al 2020 è stata sistematicamente preceduta da una forte crescita degli stock di moneta (Fig. 1).

Fig.1 Crescita della Moneta e Inflazione
(Anno su anno)

Fonte: Claudio Borio et al. (2023)

In questo quadro, la moneta, ancorché non sia il fattore scatenante dell’inflazione, ne costituisce la premessa, ovvero la condizione necessaria per renderla possibile. Questa osservazione è importante per ragionare su come intervenire sul problema, con quali strumenti, e su quali variabili.

Nel caso dell’“inflazione da profitti”, intervenire sul potere di determinazione dei prezzi delle imprese con misure strutturali (es., politiche della concorrenza) o scoraggiare le imprese dall’utilizzare tale potere per accumulare profitti oltremisura (es., tassazione degli extra-profitti) è cosa sacrosanta sul piano dell’equità distributiva e della corretta allocazione delle risorse, soprattutto quando profitti eccessivi originano da crisi che gravano in particolar modo sui segmenti più deboli della società. Così come sacrosanto è il ricorso alla politica dei redditi per prevenire o arrestare l’insorgere di meccanismi di rincorsa prezzi-salari-prezzi, laddove questi abbiano a manifestarsi.

Tali misure possono contenere e persino ridurre l’inflazione, agendo sulla distribuzione del reddito e influenzando il processo che ciascun agente economico mette in atto nel tentativo di scaricare su altri il costo degli shock di offerta, limitatamente al potere che ha di determinare il prezzo del proprio output. Nondimeno, queste misure non incidono sulle condizioni monetarie che sostengono la domanda aggregata e la spinta sulla dinamica dei prezzi che ne consegue. Dunque, qualora a esse non si ricorra, l’inflazione perdura e peggiora se (e sino a che) la massa monetaria di cui l’economia può dotarsi fornisce “benzina” sufficiente al processo di formazione dei prezzi.

Per contrastare questa condizione sono utilizzabili le leve macroeconomiche classiche: la politica fiscale e quella monetaria. La prima – articolabile e selettiva, lenta nella gestazione, ma di rapida efficacia – opera sul fronte della domanda aggregata togliendo “benzina” dal fuoco dell’inflazione. Essa può quindi essere usata per ridurre la capacità di spesa complessiva dell’economia, attraverso provvedimenti mirati su settori, attività e aree specifiche, nonché su precise categorie sociali ed economiche, sempre che il governo che intenda adottarli ottenga il consenso politico per farlo e sia pronto a sfidare il malcontento sociale che ne risulta.

La politica monetaria, invece, agisce rendendo più caro indistintamente per tutti il prezzo della “benzina” che alimenta l’inflazione, e cioè il costo del danaro, comprimendo le componenti della domanda aggregata più sensibili alle variazioni dei tassi d’interesse influenzati dai tassi di policy manovrati dalle banche centrali. Questa politica – di rapida esecuzione, ma ad efficacia ritardata – è assai più grossolana e meno precisa di quella fiscale, in quanto non dà la possibilità di effettuare scelte selettive circa i settori e i gruppi sociali che subiranno i rincari dei tassi. Si teorizza che l’effetto di compressione della domanda è tanto minore quanto più le banche centrali riescano a orientare in senso antinflattivo le aspettative degli agenti economici, inducendoli a calmierare gli aumenti dei prezzi e dei salari persino più rapidamente di quanto non si ottenga per effetto del solo maggior costo del danaro. Tuttavia, l’evidenza disponibile dimostra che questo canale di trasmissione, nella prassi, è molto meno efficace di quanto la teoria suole ritenere. Resta quindi che la politica monetaria restrittiva è fondamentalmente recessiva, con effetti negativi su output e occupazione.

Pertanto, soprattutto a fronte di fattori inflattivi che promanano dal lato dell’offerta, ivi incluso il potere di determinazione dei prezzi da parte delle imprese e/o dei lavoratori, la politica monetaria non costituisce il rimedio più adatto per contenere l’inflazione. In particolare, essa non è adatta per affrontare questioni di natura distributiva, che semmai contribuisce a esasperare per via dei costi sociali elevati che il suo utilizzo genera.

Tuttavia, ove le misure strutturali e quelle fiscali non risultino attuabili – verosimilmente per carenza di volontà politica da parte del governo – la politica monetaria fornisce l’indispensabile strumento che la banca centrale può attivare, in autonomia, come intervento d’ultima istanza, senza il quale il fenomeno rischia di sfuggire di mano. Dunque, non uno strumento “first best”, ma certamente un rimedio di “last resort” cui far ricorso se null’altro interviene o funziona.

E non sorprende che i governi trovino politicamente conveniente scaricare la responsabilità della disinflazione sulle banche centrali, salvo poi criticarle per gli effetti recessivi che ne conseguono, additandole all’opinione pubblica come responsabili delle cattive performance economiche, in tal modo prendendone le distanze agli occhi dei cittadini. Sia quel che sia, ne emerge, in conclusione, che l’indipendenza accordata alle banche centrali per combattere l’inflazione, e che consente loro d’intervenire laddove i governi manchino di farlo pur disponendo di strumenti più adatti, deve esser vista come un “bene pubblico” che proprio nell’interesse pubblico è fondamentale tutelare. Uno strumento impreciso e costoso, di cui può farsi carico chi non deve perseguire a tutti i costi il consenso immediato del pubblico.


N.b.: Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non implicano in alcun modo le Istituzioni con cui egli collabora.

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