La debolezza teorica del dogmatismo ordoliberale tedesco

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Emphasizing the contradictions of Hans-Werner Sinn’s ordoliberal reasoning, the article emphasizes the usefulness of the works of Schumpeter and Minsky to re-evaluate Keynes’s critique of neoclassical economics. This criticism is more relevant than ever for the definition of a social-democratic political-economic approach alternative to the German-inspired neoliberal and to the populist-liberal approaches characterizing the current European and Italian political scene.

In Germania, il dibattito successivo allo scoppio della crisi debitoria nell’Eurozona ha portato alla luce una posizione rigidamente ortodossa, condivisa dalla Bundesbank e dal Ministero delle finanze tedesco, fortemente critica verso la Cancelleria e le istituzioni europee. L’illustrazione probabilmente più completa di questa posizione si trova in alcune pubblicazioni del più prestigioso tra gli economisti conservatori tedeschi, l’ex presidente dell’Ifo Institut for Economic Research di Monaco di Baviera, Hans-Werner Sinn.[1]

All’inizio del nuovo millennio, Sinn era tra coloro che si aspettavano una spinta alla crescita europea e alla convergenza tra le economie dei paesi aderenti alla moneta unica per effetto di una più efficiente allocazione dei capitali nell’Eurozona. Secondo Sinn, gli squilibri di parte corrente e i crescenti differenziali di inflazione osservati nell’area dell’euro durante gli anni precedenti lo scoppio della crisi andavano quindi interpretati come inevitabili manifestazioni temporanee di un processo di convergenza virtuoso tra le economie reali dei paesi ‘periferici’ e ‘centrali’ dell’Eurozona.[2]

La crisi ha però spinto Sinn a riconsiderare le sue previsioni ottimistiche. L’economista tedesco parte dalla constatazione che la crisi nell’Eurozona deve essere considerata come una crisi da indebitamento estero, la cui origine è di natura principalmente privata (famiglie e imprese finanziarie) piuttosto che pubblica. Pertanto, l’aumento dei deficit e dei debiti pubblici in rapporto al Pil osservato in Europa dopo il 2008 rappresenta una conseguenza e non la causa della crisi.

Sinn osserva che, indipendentemente dall’origine dei debiti esteri, i risparmi dei paesi ‘centrali’ dell’Eurozona intermediati dalle grandi banche e assicurazioni nord europee, in particolare da quelle tedesche, hanno drogato artificialmente la crescita delle economie dei paesi ‘periferici’, favorendo non solo eccessi di spesa pubblica in Grecia e in Portogallo, ma, soprattutto, la formazione di bolle immobiliari in Spagna e in Irlanda. Questa crescita drogata è all’origine dei crescenti differenziali di inflazione che hanno minato la competitività dei paesi ‘periferici’ dell’Unione.

Sinn prosegue la sua analisi rigettando le accuse di neomercantilismo dirette alla Germania, affermando che, negli anni successivi all’introduzione della moneta unica, l’emorragia di risparmi verso le ‘periferie’ europee ha provocato una caduta degli investimenti cui è seguita una lunga stagnazione dell’economia tedesca. A causa della caduta dei redditi, l’attivo della bilancia commerciale tedesca derivava quindi soprattutto da un deficit di importazioni. Pertanto, la Germania non poteva essere considerata come la vera beneficiaria dell’introduzione dell’euro.

Sinn sottolinea che l’inefficiente allocazione dei capitali seguita all’introduzione della moneta unica non rappresenta un fallimento del mercato, bensì un fallimento della politica, rivelatasi incapace di predisporre un quadro normativo che prevenisse  possibili violazioni della clausola di no bailout contenuta nell’art. 125 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). La credibilità della clausola di ‘non salvataggio’ è stata indebolita dalla mancanza di regole per affrontare i casi di insolvenza degli stati membri, dalla eccessiva permissività del Patto di stabilità e crescita e dalle gravi carenze della regolamentazione del sistema finanziario. Negli anni precedenti lo scoppio della crisi, queste lacune hanno costituito un irresistibile incentivo alla speculazione e alla trasformazione delle attività di una ordinata economia di mercato nelle attività di un vero e proprio casinò.[3]

A giudizio di Sinn, dopo lo scoppio della crisi, la distorsione dei meccanismi di funzionamento del mercato dei capitali europeo è stata ulteriormente alimentata, in primo luogo, dai prestiti e dagli interventi della Bce sui mercati secondari dei titoli pubblici. Emettendo una quantità di moneta eccessiva rispetto alle esigenze dell’economia reale dei paesi ‘periferici’ dell’Unione, la Bce si è così sostituita al mercato dei capitali nel giudizio sul grado di solvibilità dei paesi debitori. La distorsione permanente dei meccanismi di funzionamento del mercato dei capitali europeo è inoltre stata favorita dall’attuazione di programmi di salvataggio intergovernativi e dalla istituzione di fondi comuni emergenziali e del Meccanismo europeo di stabilità (MES).

Sinn rimprovera la Cancelleria tedesca e le autorità europee di avere avvantaggiato sfacciatamente non soltanto i debitori dei paesi ‘periferici’ dell’Eurozona, ma anche i loro creditori esteri. I salvataggi delle banche e dei governi dei paesi ‘periferici’ hanno infatti permesso di minimizzare le perdite di bilancio dei loro creditori. In omaggio al principio che, in una economia di mercato, tutti gli attori economici devono essere chiamati a rispondere in proprio per le conseguenze delle loro scelte, gli interessi della lobby finanziaria internazionale, compresi quelli delle grandi banche e assicurazioni tedesche, non avrebbero dovuto prevalere su quelli dei contribuenti.[4] Di conseguenza, secondo Sinn, le autorità europee non sarebbero dovute intervenire per impedire il fallimento delle banche e delle assicurazioni dei paesi ‘centrali’ dell’Eurozona.

Sinn conclude che, attualmente, sia i paesi creditori che i paesi debitori sono intrappolati nell’euro. I primi, perché condannati a continui trasferimenti di reddito a sostegno dei fondi pubblici di salvataggio. I secondi, invece, perché impossibilitati a sopportare il peso delle politiche di austerità e di riforma dello stato sociale e del mercato del lavoro necessarie affinché essi possano ‘tornare a vivere entro i limiti dei propri mezzi’ dopo l’orgia speculativa degli anni successivi all’introduzione della moneta unica.

Per uscire dalla trappola dell’euro, Sinn propone di affrontare il problema dell’eccessivo indebitamento dei paesi ‘periferici’ dell’Eurozona attraverso l’organizzazione di una conferenza internazionale che, sull’esempio di quelle convocate negli anni ’20, ‘30 e ’50 del secolo scorso per risolvere le questioni legate ai debiti di guerra e ai pagamenti di riparazione disposti dal Trattato di Versailles, conduca alla remissione di parte dei debiti pubblici, dei debiti bancari e dei debiti maturati in seno al sistema di pagamenti intraeuropeo Target2. Inoltre, Sinn ritiene che l’esperienza del Mezzogiorno italiano e dei Länder orientali tedeschi sconsigli la trasformazione dell’Eurozona in una Unione dei trasferimenti fiscali (Transferunion). L’unica scelta che permetterebbe ai paesi ‘periferici’ dell’Unione di riguadagnare la loro competitività, senza che la loro tenuta sociale venga messa a rischio dalle politiche di austerità e di riforma strutturale è quindi quella di una uscita dall’area dell’euro. A tal fine, Sinn suggerisce una modifica dei trattati europei, ovvero l’istituzione di un euro flessibile che preveda una opzione di uscita dall’Eurozona. Grazie allo spazio di manovra garantito dalla svalutazione della ricostituita moneta nazionale, in questo modo, i paesi eccessivamente indebitati si troverebbero nelle condizioni di poter adottare le politiche di aggiustamento richieste per un eventuale rientro nell’Unione monetaria.[5]

L’interpretazione di Sinn sulle cause e sui possibili rimedi della crisi debitoria nell’Eurozona colpisce per il mancato riferimento a specifici interessi nazionali tedeschi e per la sua adesione dogmatica a un quadro analitico pre-keynesiano fondato sulla validità della legge di Say, in cui la crescita e la convergenza economica tra paesi europei caratterizzati da un diverso grado di sviluppo si basa sulla centralità del risparmio e del mercato dei capitali e sulla flessibilità del mercato del lavoro.

Il radicale anti-keynesismo dell’ortodossia accademica e delle autorità di politica monetaria e fiscale tedesche non si spiega soltanto con la convinta accettazione del modello macroeconomico che si è affermato universalmente dopo la controrivoluzione teorica monetarista degli anni ’70. Esso, infatti, è anche figlio di uno specifico paradigma politico-economico che riflette una concezione neoliberale del ruolo dello Stato in economia sviluppata in Germania tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 in base alle lezioni tratte dalla crisi della Repubblica di Weimar e dalla Grande depressione.[6] Questa concezione ha posto le fondamenta dell’economia sociale di mercato, la formula che ha contraddistinto il periodo del miracolo economico tedesco nel secondo dopoguerra e che, negli anni, ha raccolto crescenti consensi anche in molti altri paesi europei, tanto da essere oggi esplicitamente richiamata all’art. 3, terzo comma del Trattato sull’Unione europea (TUE).[7] In estrema sintesi, l’economia sociale di mercato si fonda:

  • sull’idea che, in nessun caso, la politica economica si debba tradurre in interventi di natura discrezionale. Secondo la Scuola ordoliberale fondata negli anni ’30 a Friburgo da Walter Eucken, la politica economica coincide con la politica dell’ordinamento (Ordnungspolitik), ovvero con la codifica giuridica di una serie di principi conformi ai meccanismi di funzionamento delle economie di mercato individuati dalla tradizione neoclassica.[8]
  • sul riconoscimento che i problemi sociali posti dalle forme di liberalismo che si richiamano al laissez-faire ottocentesco richiedano un intervento riequilibratore dello Stato, ma senza che, per questo, la realizzazione di obiettivi di equità sociale metta a repentaglio l’efficiente funzionamento del mercato. Nell’ambito della economia sociale di mercato, l’istituzione di un sistema di sicurezza sociale assume dunque la funzione di utile strumento di pacificazione delle relazioni industriali, ma non certo quella di strumento per l’emancipazione individuale, che resta invece, soprattutto, responsabilità dell‘individuo.[9]

In Europa, il dibattito sulla eccessiva rigidità della risposta di stampo ordoliberale alla crisi debitoria nell’area dell’euro e sulla conseguente opportunità che i paesi ‘periferici’ escano dall’Unione monetaria, o che il processo di integrazione europeo culmini con l’istituzione di una Unione fiscale, tende a concentrarsi sulla maggiore o minore convenienza di reagire alla crisi con politiche macroeconomiche ‘keynesiane’ che forniscano uno stimolo alla domanda aggregata.[10]

Le dinamiche della crisi contemporanea e l’interpretazione ordoliberale delle sue cause avrebbero tuttavia potuto e dovuto stimolare una rivalutazione degli elementi autenticamente rivoluzionari del pensiero di Keynes.

Come abbiamo visto in precedenza, Hans-Werner Sinn attribuisce le origini della crisi a difetti nella regolamentazione giuridica delle dinamiche di mercato, affermando che, in mancanza di tali difetti, le banche non avrebbero avuto incentivi a tenere comportamenti speculativi.

Questa interpretazione è però profondamente contradditoria. Infatti, se si afferma che, in presenza di norme conformi al corretto funzionamento dei meccanismi di mercato identificati dalla tradizione neoclassica, gli attori del sistema finanziario si sarebbero astenuti dalla speculazione, si ammette implicitamente che la speculazione rappresenta un elemento costitutivo delle moderne economie di mercato. Tuttavia, in questo modo, Sinn mette in dubbio i fondamenti stessi della teoria ortodossa della finanza, perché, in base a tale teoria, la speculazione rimane un fenomeno essenzialmente inspiegato. Nel mondo descritto dagli economisti ortodossi, le banche non creano rischi speculando sulla capacità di rimborso dei debitori e sul valore delle attività finanziarie, ma si limitano a facilitare il trasferimento delle risorse risparmiate ai potenziali utilizzatori attraverso la riduzione, se non proprio l’eliminazione, delle asimmetrie informative che caratterizzano i rapporti tra i prenditori e i prestatori di fondi. Inoltre, le bolle speculative vengono considerate come una manifestazione di comportamenti razionali che rappresentano un allontanamento soltanto temporaneo dal valore ‘corretto’ generalmente attribuito dal mercato alle attività finanziarie.

Ancor prima di indagare le responsabilità pubbliche che hanno favorito lo sviluppo delle bolle creditizie e immobiliari negli anni precedenti lo scoppio della crisi, è quindi necessario chiedersi, come fece Keynes negli anni della Grande depressione, quali siano le “caratteristiche […] della società economica nella quale realmente viviamo”.[11] Contrariamente agli ordoliberali di Friburgo e dei loro epigoni moderni, Keynes rifuggiva dall’idea che, nelle economie di mercato, le crisi possano essere figlie soltanto di fattori esogeni distorsivi imputabili alle autorità pubbliche. Per Keynes, le crisi sono connaturate al capitalismo. Pertanto, esse richiedono una attenta analisi delle debolezze teoriche dell’impianto analitico elaborato dalla ortodossia ‘classica’.[12]

Negli scritti successivi alla pubblicazione del Trattato sulla moneta, Keynes descrive un mondo contraddistinto dalla contemporanea presenza della ‘intraprendenza’ e della ‘speculazione’ e in cui le crisi economiche possono essere prodotte in modo endogeno tanto dall’una quanto dall’altra, in ragione del ruolo svolto dalla moneta e dalla finanza. Nel mondo di Keynes, la funzione della moneta e della finanza non è quindi confinata alla ottimizzazione delle transazioni correnti e intertemporali tra gli agenti economici. Moneta e finanza rappresentano invece l’elemento fondamentale per la spiegazione della intrinseca instabilità delle economie capitaliste.

Recentemente, Giancarlo Bertocco[13] ha mostrato l’importanza delle opere di Schumpeter e Minsky per spiegare la non neutralità della moneta e della finanza nell’ambito della economia monetaria di produzione descritta da Keynes.[14] Da un lato, infatti, la centralità del processo di creazione di moneta bancaria ai fini del finanziamento delle innovazioni schumpeteriane consente di specificare compiutamente la natura monetaria del ‘principio’ della domanda effettiva, inteso come tratto distintivo di una moderna economia industriale soggetta a una costante evoluzione strutturale, al di là, quindi, delle specifiche relazioni comportamentali che caratterizzano il modello descritto da Keynes nella Teoria generale.[15] Dall’altro, la confutazione della legge di Say permette di evidenziare l’inconsistenza della relazione tra risparmio di risorse reali e investimenti postulata dalla tradizione neoclassica e di sottolineare la rilevanza della relazione tra risparmio, e accumulazione di moneta e di altre attività patrimoniali sottostante il fenomeno della speculazione.

Dopo lo scoppio della crisi, la limitazione della figura di Keynes a economista ‘pratico’, utile soltanto per la valutazione dell’efficacia di politiche monetarie e fiscali espansive, si è tradotta nella riduzione a due sole opzioni politico-economiche. Da un lato, “l’euro-riformismo di facciata che chiede ‘più Europa’, la riforma dei Trattati, maggiore flessibilità e meno rigore, ma che in realtà si accontenta del piccolo cabotaggio e degli zero-virgola, rispettoso di regole ingiuste e controproducenti.”[16] Dall’altro, un liberismo populista che propone politiche fiscali espansive tardo-reaganiane abbinate a suggestioni sovraniste reazionarie à la Orban.

Qualunque progetto di riforma dell’architettura europea, o di uscita dall’area dell’euro che non si limiti ad auspicare la ritrovata sovranità monetaria o fiscale, costi quel che costi, richiede l’elaborazione di una rinnovata prospettiva socialdemocratica, basata su un impianto teorico che non riponga cieca fiducia nel raggiungimento della piena occupazione come semplice conseguenza della eliminazione delle imperfezioni che ostacolano  il funzionamento dei mercati del lavoro e dei capitali.[17]

Il recupero di un approccio teorico fondato sul pensiero di Keynes,  Schumpeter e Minsky consentirebbe di allargare l’offerta politico-economica a una terza opzione in cui:

  • le politiche monetarie e fiscali non siano ridotte a strumento di fine-tuning della domanda aggregata ai fini della stabilizzazione dell’inflazione, ma rientrino in un progetto di stabilizzazione strutturale del sistema economico fondato su una più equa distribuzione dei redditi e delle ricchezze;
  • la filosofia sociale venga ricondotta entro i canoni previsti dall’art. 3, comma secondo della nostra Costituzione;
  • la regolamentazione della finanza e del movimento dei capitali apra alla possibilità di orientare lo sviluppo economico in base alla crescita delle componenti interne (consumi e investimenti) della domanda aggregata;
  • la dinamica delle esportazioni venga favorita dall’espansione della domanda interna anche in altri paesi, piuttosto che da politiche di contenimento dei salari e dei prezzi domestici;
  • in presenza di squilibri strutturali delle partite correnti, come quelli che, attualmente, caratterizzano i rapporti economici tra la Germania e larga parte degli altri paesi membri dell’Unione monetaria,[18] l’onere del riequilibrio non gravi esclusivamente sulle spalle dei paesi debitori;
  • la dinamica dell’evoluzione strutturale dell’economia possa essere guidata da una adeguata politica industriale e dalla edificazione di forme di economia mista caratterizzate dall’attribuzione allo Stato e alle sue articolazioni delle funzioni svolte dall’imprenditore-innovatore schumpeteriano.[19]

* Andrea Kalajzic si è dottorato in Economia della produzione e dello sviluppo presso l’Università degli Studi dell’Insubria nel mese di febbraio del 2018.

andro.kalajzic@fastwebnet.it

Ringrazio Giancarlo Bertocco, Lelio Demichelis e Marta Marson per i loro utilissimi commenti critici a una prima versione di questo articolo.

[1] Si vedano in particolare, H.W. Sinn (2014a), The Euro Trap. On Bursting Bubbles, Budgets and Beliefs, Oxford University Press, Oxford e New Yorke; H.W. Sinn (2014b), Gefangen im Euro, Redline Verlag, Müchen.

[2] Questa tesi era ampiamente condivisa anche dal mainstream accademico internazionale (per esempio, O. Blanchard e F. Giavazzi (2002), Current Account Deficits in the Euro Area: The End of the Feldstein Horioka Puzzle?, Brookings Papers on Economic Activity, 33 (2), pp. 147-210) e dalle istituzioni europee (per esempio, Commissione europea (2008), EMU@10. Successes and challenges after ten years of Economic and Monetary Union, European Economy, 2/2008, p. 21).

[3] In un libro dedicato alla crisi finanziaria globale seguita allo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti (H.W. Sinn (2010), Casino Capitalism. How the Financial Crisis Came About and What Needs to Be Done Now, Oxford University Press, Oxford e New York, p. xiii-xv della Prefazione) Sinn riconosce di essere in debito con Keynes per l’uso di questa metafora.

[4] “[…] i salvataggi sono serviti non tanto alle popolazioni, quanto ai creditori stranieri e domestici degli stati dei paesi colpiti dalla crisi. Questi ultimi hanno infatti potuto far valere i loro diritti grazie ai fondi messi a disposizione con i salvataggi. La responsabilità del creditore è il principio fondamentale dell’economia di mercato. Chi decide di prestare i propri soldi deve sopportare i danni nei casi in cui il debitore non sia in grado di rimborsare il prestito. E’ ingiusto che i contribuenti e i pensionati di altri stati si accollino i crediti dei creditori privati perché questi possano tagliare la corda.” (H.W. Sinn (2014b), cit., p. 56)

[5] A questo proposito, Sinn (2014a, cit., pp. 138-139) ricorda che, in Germania, l’ascesa al potere di Hitler e dei nazionalsocialisti è stata favorita dall’impossibilità del governo tedesco dell’epoca di affrancarsi dai vincoli imposti dal Piano Dawes. Il Piano Dawes, infatti, specificava le modalità di esecuzione delle disposizioni del Trattato di Versailles, vietando alla Germania di svalutare la propria moneta per aumentare la competitività delle sue produzioni. In applicazione al Piano Dawes, la legge bancaria tedesca del 1924 aveva quindi fissato un tasso di cambio irrevocabile tra l’oro e il Reichsmark. Mentre durante la Grande depressione i partner commerciali della Germania hanno potuto abbandonare il sistema a cambi fissi legato all’oro, la Germania si è invece vista costretta a difendere la propria competitività attraverso la svalutazione interna promossa dalle durissime politiche di austerità promosse dal Cancelliere Brüning all’inizio degli anni ‘30.

[6] Sulle origini e sulla variegata composizione della galassia neoliberale si confronti S. Audier (2012), Nèo-Libéralisme(s). Une archéologie intellectuelle, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris.

[7] Non a caso, l’attuale presidente della Bundesbank afferma che “tutto il quadro di Maastricht riflette i principi centrali dell’ordoliberalismo e dell’economia sociale di mercato.” (J. Weidmann (2013), Krisenmanagement und Ordnungspolitik, Walter-Eucken-Vorlesung, Freiburg, 11 febbraio, disponibile online all’indirizzo: https://www.bundesbank.de/Redaktion/DE/Reden/2013/2013_02_11_weidmann.html, p. 3). Per quanto riguarda la penetrazione del pensiero neoliberale tedesco negli ambienti del Partito socialista francese dagli inizi degli anni ’80, si vedano A. Barba e M. Pivetti (2016), La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, Capitolo III, pp. 79-123 e S. Audier (2015), Penser le «Néolibéralisme». Le moment néolibéral, Foucault et la crise du socialisme, Le Bord de l’Eau, Paris. L’influenza del neoliberalismo tedesco in Italia è testimoniata da Luigi Einaudi (È un semplice riempitivo!, in Einaudi L. (1958), Prediche inutili, Giulio Einaudi Editore, Torino) e da Mario Monti (in C. Bastasin C. (2008), Le conseguenze economiche di Bush, intervista a Mario Monti, Il Sole 24 Ore, 22 agosto). Thomas Fazi e Guido Iodice (La battaglia contro l’euro. Come un’élite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo, Fazi Editore, Roma, 2016, p. 189) sottolineano che, nel momento più drammatico della trattativa tra le istituzioni dell’Unione e la Grecia nell’estate del 2015, “è emerso con evidenza come il nuovo Lebensraum tedesco – quel subsistema geoeconomico che include i nuovi satelliti economici e i principali partner commerciali della Germania, tra cui la Polonia, la Finlandia, la Slovacchia, la Slovenia, la Republica Ceca, la Finlandia, l’Olanda ecc. – non rappresentano più solo un blocco economico ma anche, e sempre di più, un blocco politico-cultutrale di matrice radicalmente ordoliberale.”

[8] Si veda, in particolare, Eucken W. (1952), Grundsätze der Wirtschaftspolitik, 7. Auflage, Mohr Siebeck, Tübingen 2004. La Scuola ordoliberale di Friburgo esercita ancora oggi una certa influenza negli ambienti accademici tedeschi. A questo proposito, si confronti Sinn (2010), cit, pp. 161-163.

[9] Si confrontino Röpke W. (1942) [1946], La crisi sociale del nostro tempo, Einaudi, Torino e Müller-Armack A. (1956), Economia sociale di mercato, in F. Forte e F. Felice (2010), a cura di, Il liberalismo delle regole. Genesi ed eredità dell’economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 89-96 .

[10] Per tutti, si veda J. Stiglitz (2017), L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Einaudi, Torino.

[11] J. M. Keynes (1936) [2006], Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, Torino, p. 187.

[12] Keynes, infatti, apre la Prefazione della Teoria generale (cit., p. 171) nel modo seguente: “Questo libro è dedicato soprattutto ai miei colleghi economisti; […] il suo scopo principale è di trattare difficili questioni di teoria, e soltanto in secondo luogo le applicazioni di questa teoria alla pratica. Se infatti l’economia ortodossa è in difetto, l’errore va trovato non nella sovrastruttura, che è stata eretta con gran cura di coerenza logica, ma nella scarsa chiarezza e generalità delle premesse.”

[13] G. Bertocco (2015), La crisi e le responsabilità degli economisti, Francesco Brioschi Editore, Milano; G. Bertocco (2017), Crisis and the Failure of Economic Theory. The Responsibility of Economists for the Great Recession, Edward Elgar, Cheltenham, UK, Northampton, MA, USA.

[14] J. M. Keynes (1933), A Monetary Therory of Production, in ‘Festschrift für Arthur Spiethoff’, AA. VV. (1933), Der Stand und die nächste Zukunft der Konjunkturforschung, mit einem Vorwort von Joseph Schumpeter, Duncker & Humblot, München, pp. 123-125, ristampato in The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. XIII, Cambridge University Press, Cambridge, UK, New York, 2013, pp. 408-411.

[15] Su questo punto, si veda L. Pasinetti (1997), The Principle of Effective Demand, in G. Harcourt e P.A. Riach (1997), a cura di, A ‘Second Edition’ of the General Theory, vol. 1, Routledge, London, pp. 93-104.

[16] L. Marsili e Y. Varoufakis (2017), Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Laterza, Bari-Roma, p. XIV.

[17] Sulla resa delle socialdemocrazie europee alle conclusioni dei modelli di derivazione monetarista si confronti A. Barba e M. Pivetti (2016), La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia.

[18] Sulla natura strutturale dell’avanzo di parte corrente della Germania, si vedano J. Priewe (2018), A Time Bomb for the Euro? Understanding Germany’s Current Account Surplus, Study No. 59, March, Hans-Böckler-Stiftung e F. Scharpf (2018), International Monetary Regimes and the German Model, MPIfG Discussion Paper 18/1.

[19] R. Romano e S. Lucarelli (2017), Squilibrio. Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico, Ediesse, Roma; M. Mazzucato (2014), Lo Stato innovatore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza, Roma-Bari 2014.

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