Produttività, cambiamento strutturale e riforme sbagliate

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The objective of this essay is to show that de-industrialisation and labour market reforms (i.e labour flexibility) can have a detrimental impact on labour productivity. To same extent, structural change towards the service sector in unavoidable among advanced economies. However, some countries can guide the change towards service sectors which can have higher productivity gains and better jobs. Industrial policies can influence these changes.

Negli ultimi quattro decenni, molte economie avanzate hanno subito cambiamenti significativi nelle loro strutture produttive e nelle loro strategie industriali. Mentre il periodo di espansione dopo la seconda guerra mondiale – qualificato da alcuni studiosi come “l’età dell’oro del capitalismo” – vide l’industria manifatturiera giocare un ruolo predominante, negli ultimi quaranta anni si è messo in moto un processo di profonda mutazione. Assistiamo, infatti, ad un costante calo della quota dei lavoratori impiegati nella industria manifatturiera e ad una decisa transizione verso il settore dei servizi.

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Figura 1: Quota di occupazione nella manifattura sul totale dell’occupazione 1970-2012. Fonte: EU KLEMS e OCSE

Questo cambiamento strutturale è stato spesso raccontato come una naturale transizione verso una società post-industriale, dedita ad attività creative e ad alto contenuto di capitale umano. Tuttavia, sotto questa superficie di ottimismo, la letteratura economica aveva individuato da molto tempo dei potenziali problemi insiti in queste traiettorie di de-industrializzazione. Già Baumol e Kaldor negli anni 60, infatti, notavano come il trasferire risorse dalla manifattura ai servizi potesse costituire una minaccia per la dinamica della produttività del lavoro, soprattutto quando questa transizione avviene verso specifiche industrie di servizi non orientate all’innovazione ed al progresso tecnico, con un basso livello di specializzazione della forza lavoro. Esempi classici in tal senso sono rappresentati dal turismo, il settore alimentare, l’accoglienza (hotel e ristoranti), i servizi alla persona, la logistica a basso contenuto tecnologico. Molte industrie di servizi hanno un potenziale limitato di guadagni di produttività e sono definite da processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Inoltre, come messo in luce da Wölfl (2005), potrebbero essere gravate da una serie di fattori che strutturalmente limitano l’innovazione: una più piccola dimensione media delle imprese (con le collegate difficoltà di finanziarsi sul mercato) può portare a minori investimenti, specialmente in assets ad alto rischio ma ad alto contenuto tecnologico. Altre spese generalmente sotto-finanziate sono quelle in Ricerca e Sviluppo e nella formazione della forza lavoro. Complessivamente, questo può condurre molte imprese del settore dei servici ad utilizzare tecnologie e conoscenze “non-firm specific”.

Ci sono ovviamente alcune industrie, appartenenti alla macro-categoria dei servizi, che hanno un’elevata produttività del lavoro e livelli di investimento sostanziosi. È questo il caso, ad esempio, dei settori finanziario ed immobiliare. Questi ultimi, tuttavia, oltre ad avere un limitato impatto in termini di occupazione totale, sono attraversati da forti spinte speculative, possono dar vita a fenomeni perversi nella distribuzione del reddito e trascinano poca innovazione tecnologica. In particolare, molti studi recenti dimostrano che la finanziarizzazione dell’economia, che ha avuto luogo energicamente nella maggior parte delle economie avanzate negli ultimi due/tre decenni, sembra aver avuto un impatto negativo sulla produttività del lavoro, perché i grandi manager delle società finanziarie sono più interessati a massimizzare i dividendi degli azionisti e le loro compensazioni finanziarie piuttosto che avviare strategie di investimento in capitale fisico, orientate verso attività produttive. Strategie a breve termine, quindi, possono prevalere su una visione di lungo periodo che privilegi processi di espansione degli investimenti, miglioramenti dell’innovazione e guadagni di produttività del lavoro.

In ogni caso, l’industria dei servizi è molto eterogenea e complessa. È ragionevole aspettarsi che alcuni suoi sub-settori (come ICT, servizi ingegneristici e di architettura, servizi alle imprese, etc.) contribuiscano in maniera positiva alla crescita della produttività. Altri possono più facilmente ristagnare, come il settore alberghiero, l’industria alimentare, i ristoranti, ecc. Allo stesso tempo, questi sotto-settori assorbono relativamente più occupazione, che incidentalmente è anche retribuita in maniera relativamente minore. Questi stessi sotto-settori hanno anche in media una percentuale relativamente molto alta di contratti a termine. Salari più bassi (e lavori non stabili) implicano consumi inferiori e una diminuzione della domanda aggregata, che a sua volta influisce negativamente sulla dinamica del PIL. Di conseguenza, gli investimenti e le strategie industriali dovrebbero svolgere un ruolo molto importante nella definizione della specializzazione di un’economia, e dovrebbero avere come obiettivo guadagni di produttività ed una equa re-distribuzione del prodotto sociale.

Alcuni economisti cosiddetti neo-Schumpeteriani (che studiano il ruolo dell’innovazione e del capitale umano) hanno mostrato come i paesi mediterranei (Spagna, Portogallo, Grecia e Italia) siano orientati verso un’occupazione poco qualificata nella produzione di servizi a bassa tecnologia. Ciò influenza negativamente la loro dinamica di produttività. Questa argomentazione è purtroppo estremamente plausibile e ben documentata empiricamente. Inoltre, noi sosteniamo che la produttività del lavoro non ristagna solo a causa della specializzazione in settori a bassa tecnologia e di problemi dal lato dell’offerta. Ciò che conta è anche il ruolo della domanda, stimolata da investimenti pubblici in beni capitali sulla frontiera tecnologica ed una distribuzione del reddito equa e che garantisca un adeguato potere d’acquisto ai salari. Nel caso dell’Italia, mentre c’è stato un aumento dei livelli di capitale umano negli ultimi tre decenni (che secondo la vulgata mainstream avrebbe dovuto risolvere molti dei nostri problemi), esso è stato, molto spesso, poco assorbito da un tessuto produttivo poco specializzato ed orientato verso produzioni a basso contenuto di capitale.

Questo processo di de-industrializzazione è stato accompagnato in vari paesi europei e soprattutto in Italia da una serie di riforme del mercato del lavoro tese ad aumentare la flessibilità del lavoro, diminuirne la protezione e aumentare il lavoro temporaneo e precario. Si è avuta pertanto una compressione dei salari e del lavoro che ha contribuito alla riduzione della quota lavoro sul PIL come dimostra la figura in basso.

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Figura 2a: quota salari sul PIL. Fonte: Ameco

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Figura 2b: salari medi lordi in dollari, a parità di potere d’acquisto (prezzi 2015). Fonte: OCSE

Paolo Sylos Labini, un famoso economista italiano scomparso recentemente, ha dimostrato come le strategie di investimento siano anche orientate dai costi del lavoro. Se un paese pratica una politica di compressione dei salari, i capitalisti si orienteranno verso processi produttivi ad alta intensità di lavoro e quindi a bassa produttività. Le riforme del mercato del lavoro in Italia, dal Pacchetto Treu del 1997 al Jobs Act del 2015, orientate verso la flessibilità in entrata ed in uscita, hanno quindi dato un contribuito importante, in tal senso, al rallentamento della produttività del lavoro in Italia.

Oggi l’occupazione nel settore dei servizi nei paesi avanzati, compreso l’Italia è circa il 70%. Si tratta quindi della stragrande maggioranza dei lavoratori, nella maggioranza dei paesi ad economia avanzata. Andando, tuttavia, ad investigare nel dettaglio come il lavoro si ripartisce, emergono interessanti e significative differenze tra paesi appartenenti a diversi modelli di welfare, e più in generale a diverse varietà di capitalismo. Possiamo prendere come riferimento della nostra analisi la Svezia (modello scandinavo), il Regno Unito (modello liberale anglosassone), la Germania (modello ad economia di mercato coordinato) e l’Italia (espressione dei paesi mediterranei).

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Figura 3: Quota sull’occupazione totale, 1993-2010. Fonte: EU KLEMS e OCSE

La deindustrializzazione in Italia è stata declinata in una transizione orientata verso servizi a scarso contenuto tecnologico, come il turismo, il settore agroalimentare, hotel e ristoranti (ma anche servizi agli anziani), come emerge dal pannello (b). Se tuttavia concentriamo la nostra attenzione sul pannello (a), notiamo come Italia e Germania, in termini di occupazione nella manifattura, presentino un andamento molto simile. Il quadro tuttavia cambia se guardiamo alla quota della manifattura nel valore aggiunto totale in questi due paesi.

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Figura 4: Manifattura, 1970-2010, quota sul valore aggiunto totale dell’economia. Fonte: EU KLEMS

Ciò che la figura 4 sembra suggerire è che l’industria manifatturiera italiana soffre anch’essa di problemi di produttività. E quindi, cosa che non ci stupisce, il cambio strutturale ed un processo di de-industrializzazione non determinano da soli l’eventuale rallentamento nella produttività di un paese. Non è questo il luogo per provare a capire e spiegare i differenziali di produttività dei settori industriali di Italia e Germania. Senza ambire a fornire un’analisi sistematica e conclusiva, crediamo che la figura 5 offra una chiave di lettura interessante.

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Figura 5: Manifattura, tasso di crescita della produttività del lavoro ed investimento in beni capitali ICT per ora lavorata. Fonte: EU KLEMS

Appare evidente come, negli ultimi venti anni, la manifattura tedesca abbia sperimentato una dinamica della sua produttività decisamente più vivace rispetto allo stesso settore italiano. Una semplice osservazione dell’evidenza empirica sembra suggerire che l’investimento in assets ad alto contenuto tecnologico, ed in particolare nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, abbia giocato un ruolo non di secondo piano. Il crescente ritardo in efficienza e competitività delle imprese italiane prende il via e si sviluppa nello stesso arco temporale nel quale si può osservare una divaricazione nell’accumulazione di beni capitali ICT[1] tra imprese tedesche ed italiane. A partire dall’inizio del ventunesimo secolo, infatti, l’andamento dell’investimento in questa classe di beni capitali da parte delle unità produttive italiane è totalmente piatto. Le ragioni di questo fenomeno sono profonde e complesse. È tuttavia possibile ipotizzare che il lungo ciclo di privatizzazioni e dismissioni di imprese pubbliche abbia contribuito in maniera rilevante. Antonelli et al. (2014) dimostrano in maniera convincente come, pur tra molte contraddizioni e difficoltà, il sistema italiano di imprese pubbliche sia stato una componente centrale del processo di governance della conoscenza tecnologica, il quale ha permesso una serie di radicali trasformazioni dell’economia italiana. Le privatizzazioni hanno indubbiamente impoverito il sistema di innovazione del nostro paese, riducendo esternalità di conoscenza e spillovers che dal settore pubblico si estendevano alle imprese private. Inoltre sappiamo, grazie alle idee ed ai lavori di Mariana Mazzucato su Lo Stato Innovatore, come la spesa pubblica in Ricerca e Sviluppo abbia un effetto di crowding-in sugli investimenti privati a più alto contenuto tecnologico ed innovativo, poiché non solo contribuisce a risolvere fallimenti di mercato ma crea un nuovo contesto in cui le aspettative degli imprenditori privati sono orientate verso un investimento che modernizzi e trasformi lo stock di capitale esistente. L’Italia ha rinunciato da anni a questo canale di stimolo dell’innovazione e del progresso tecnico. Non sorprendentemente, ne paga oggi le conseguenze.

Per concludere, il cambiamento strutturale che ha interessato l’Italia, così come tutte le maggiori economie avanzate, necessita una governance più forte e una guida coerente, per evitare una transizione verso un’economia caratterizzata da produzioni a basso valore aggiunto, la cui unica via alla competitività sui mercati esterni passa attraverso drammatiche compressioni salariali. L’Italia dovrebbe invece riscoprire le dimenticate virtù della politica industriale, da abbinare ad una riconsiderazione delle politiche del lavoro applicate negli ultimi anni. A questo proposito sono molto rilevanti le indicazioni di policy che vengono da Dosi et al. (2017), Tridico e Pariboni (2017) e Cetrulo et al. (2018) cioè: la flessibilità del lavoro conduce, oltre che a precarietà, a minore innovazione e a crescita instabile. Un mercato del lavoro con maggiori protezioni e con salari crescenti da una parte consente di costruire relazioni stabili tra imprese e lavoratori, e investimenti certi in capitale umano, e dall’altra incentiva gradualmente l’adozione di tecniche produttive tecnologicamente avanzate, capaci di produrre maggiori guadagni di produttività e l’innalzamento della frontiera produttiva. In questa direzione si possono anche immaginare riduzioni selettive di cuneo fiscale, orientate a produrre investimenti ad alto contenuto tecnologico.

*Università Roma Tre

Questo articolo è una sintesi di un lavoro più ampio dal titolo: “Structural change, aggregate demand and the decline of labour productivity: a comparative perspective” di Pasquale Tridico e Riccardo Pariboni, Working Paper 221, 2017, Dipartimento di Economia Università Roma Tre.

Riferimenti bibliografici

Antonelli, C., Barbiellini Amidei, F. e Fassio, C. (2014), ‘The mechanisms of knowledge governance: State ownedenterprises and Italian economic growth, 1950–1994’, Structural Change and Economic Dynamics, 31 (C), 43-63.

Baumol, W.J. e Bowen, W.G. (1965), ‘On the performing arts: The anatomy of their economic problems’, The American Economic Review, 55 (1/2), 495-502.

Dosi G., Pereira, M., Roventini A. e Virgillito, M.E. (2017), ‘When more flexibility yields more fragility: the microfoundations of Keynesian Aggregate Unemployment’, Journal of Economic Dynamics & Control, 81 (C), 162-186.

Cetrulo, A., Guarascio, D. e Cirillo, V. (2018), ‘Troppa flessibilità del lavoro fa male all’innovazione?’ Menabò, 79.

Kaldor, N. (1966), Causes of the Slow Rate of Economic Growth in the United Kingdom, London: Cambridge University Press.

Maroto, A. e Rubalcaba, L. (2008), ‘Services productivity revisited’, The Service Industries Journal, 28 (3), 337-353.

Mazzucato, M. (2014), Lo Stato innovatore, Bari: Laterza.

Sylos Labini, P. (1999), ‘The employment issue: investment, flexibility and the competition of developing countries’, BNL Quarterly Review, 52 (210), 257-280.

Szirmai, A. e Verspagen, B. (2015), ‘Manufacturing and economic growth in developing countries, 1950–2005’, Structural Change and Economic Dynamics, 34 (3), 46-59.

Tridico, P. e Pariboni, R. (2017), ‘Structural change, aggregate demand and the decline of labour productivity: a comparative perspective’, Working Paper 221, Dipartimento di Economia Università Roma Tre.

Wölfl, A. (2005), ‘The Service Economy in OECD Countries’, OECD Science, Technology and Industry Working Papers 2005/03.

[1] Una dinamica simile si osserva anche comparando l’investimento totale dei settori manifatturieri italiano e tedesco.

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