Ambiente, energia e sviluppo. Il lavoro dimenticato

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Political and social notes

Rilanciando nel 2005 la “strategia di Lisbona” (nata con l’obiettivo, divenuto quasi uno slogan, di fare dell’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo), l’UE sottolinea come il perseguimento di una crescita duratura e sostenibile e la creazione di nuovi e migliori posti di lavoro debba essere ispirata da un’opportuna rivisitazione della politica industriale. In questo quadro l’UE fa emergere la necessità di una regolamentazione migliore, del perfezionamento del mercato interno, del rafforzamento della politica per la ricerca, delle politiche per l’occupazione e di quelle sociali. Questi tratti escono poi rafforzati dal vertice del Consiglio Europeo di Bruxelles dell’11-12 dicembre del 2008, nel quale si è andata delineando una più ampia e articolata linea d’intervento sui temi dell’energia, dell’ambiente e della conoscenza, a cui tutti gli Stati sono chiamati a concorrere ed ispirare le azioni volte al superamento della crisi economica internazionale. Pur nell’autonomia degli Stati, le misure per affrontare la crisi devono agire sui processi d’innovazione tecnologica e di rinnovamento del tessuto produttivo sulla spinta della “nuova” domanda che la sfida energetico-ambientale va alimentando. La riduzione del 20% delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2020, con la possibilità di traguardare il 30% nel marzo 2010, dopo la conferenza di Copenhagen, sono diventati, dunque, obiettivi centrali della “nuova” politica industriale dell’Europa[1]. La possibilità e la capacità di innovare il tessuto industriale attivando la produzione di nuovi beni capitali e strumentali orientati alla salvaguardia energetico-ambientale, è giudicata inoltre rilevante non solo nei termini delle urgenze poste dalla crisi, ma anche ai fini di intercettare una posizione competitiva nell’ambito di una nuova divisione internazionale del lavoro. Su una linea “simile” si muove anche la nuova amministrazione statunitense e il richiamo alla “novità Obama” è ormai una citazione obbligata da parte di tutta la stampa.

Se guardiamo all’Italia non tardiamo, tuttavia, ad accorgerci della divergenza che il suo modello di sviluppo produttivo mostra nei confronti di quello europeo. E, soprattutto, a sollevare seri dubbi circa la possibilità che il nostro Paese sia in grado, nel rispetto dell’ambiente e della “sicurezza energetica”, di tutelare l’occupazione e di crearne di migliore in futuro.
Da un’indagine dell’Energy & Strategy Group in Italia, presentata lo scorso 12 marzo, risulta che, nel settore dei beni ambientali e delle fonti energetiche rinnovabili, le imprese nazionali operano prevalentemente nel campo dell’installazione, che copre tra il 7% e il 17% del giro d’affari totale, essendo il rimanente da attribuire a chi opera nel campo della ricerca e produzione di pannelli solari, di apparati per l’energia eolica, ecc. E l’import di questi beni raggiunge il 98%, mentre il rimanente 2% è realizzato da imprese estere ubicate in Italia. E’ bene sottolineare come tutto questo avvenga dopo anni in cui il manifatturiero del nostro Paese non ha fatto altro che registrare un indebolimento della competitività sui mercati internazionali perdendo quote di export in termini superiori a quella dei paesi dell’Unione e inanellando progressive riduzioni degli attivi commerciali nei confronti di quegli stessi paesi, mentre, al contrario, i maggiori paesi europei hanno dato vita a una rigenerazione della propria offerta produttiva, spostando questa su beni “ad alta intensità tecnologica” secondo un opportuno allineamento con la direzione dei grandi “cambiamenti strutturali” in atto.

La questione non è marginale se si pensa che la dinamica degli scambi internazionali dei beni energetico-ambientali, ancor prima degli impegni europei del dicembre 2008, aveva raggiunto valori in aumento del 25 % all’anno tra il 1995 e il 2005. E che, ad esempio, la Germania ha raggiunto in pochi anni nelle esportazioni di beni ambientali valori pari a 56 mld di euro l’anno, ormai prossimi alla meccanica elettrica. Ma risultati commerciali fortemente positivi sono riscontrabili anche per quanto riguarda paesi come la Danimarca o la Spagna.

I danni del mancato processo di riconversione tecnologica del sistema economico italiano sono (tristemente) noti da tempo: l’impossibilità di competere sull’alta tecnologia e, contemporaneamente, la difficoltà di competere sul costo del lavoro per la presenza delle “economie emergenti”, ha sollecitato crescenti richieste di forme di flessibilità lavorativa creando un circuito (perverso) di “precarizzazione” e di disincentivo a correggere il tiro della specializzazione produttiva.

Questo risultato è la conseguenza di una politica da sempre incentrata sulle agevolazioni e sugli incentivi, ma incapace o rinunciataria rispetto alla necessità di aggredire lo spiazzamento tecnologico presente nel nostro sistema produttivo. Uno dei tanti omaggi alla concezione liberista del mercato; tanto estremista in Italia da sfiorare l’autolesionismo. Inoltre, a questi risultati si è pervenuti nonostante la ricerca pubblica disponesse delle conoscenze per affrontare le soluzioni tecnologiche necessarie. Ma essendo il sistema industriale del tutto inadeguato, le competenze pubbliche sono rimaste “pubbliche”. L’effetto degli incentivi alla “domanda ambientale ed energetica” è stato quello di avere finanziato, di fatto, la ricerca e lo sviluppo dei paesi concorrenti, penalizzato le strutture pubbliche di ricerca, creando ulteriori deficit commerciali nella nostra bilancia commerciale. E aggravando non solo le debolezze preesistenti del nostro sistema produttivo, ma riducendo anche, in prospettiva, le possibilità di creare “lavoro buono”, nel senso di lavoro ad elevata intensità di conoscenza. Il caso delle tecnologie delle fonti energetiche rinnovabili è certamente quello più clamoroso, ma esistono precedenti analoghi ad esempio in materia di tecnologie informatiche, di tecnologie laser, elettromedicali, ecc., che avrebbero dovuto mettere in guardia qualunque autorità responsabile.

Mentre altrove si riesce a coniugare l’alta qualità del lavoro con la riconversione dei processi produttivi verso la “green economy”, da noi la politica economica dei Governi sembra dunque creare un trade-off fra tutela dell’ambiente e tutela dell’occupazione. Una politica industriale miope e l’assenza di un progetto di trasformazione della specializzazione produttiva hanno portato a marginalizzare l’Italia nel consesso internazionale. Ancora una volta il nostro paese resta estraneo alla “strategia di Lisbona”.

 

*Sergio Ferrari è economista, vice direttore Enea.

 

[1] La Commissione europea presenterà al Consiglio Ue nel marzo 2010 un’analisi dettagliata dei risultati della Conferenza di Copenaghen, in particolare per quanto riguarda il passaggio da una riduzione dal 20% al 30%. Il Consiglio UE procederà, su questa base, ad una valutazione della situazione, compresi gli effetti sulla competitività dell’industria europea e degli altri settori economici.

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