Valutazione delle Università e distribuzione delle risorse scarse

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University reforms of recent years have aimed at increasing efficiency by reducing funding and adopting competition between universities. This study shows instead that the system of allocating resources penalizes Southern universities above all because it does not take into account their difficult socio-economic context. It would therefore be necessary to adopt indicators that do not penalize universities merely because they operate in less advanced socio-economic settings.

1. I tagli dei fondi per le Università e il sistema premiale

Le riforme universitarie degli ultimi anni sono state piegate alle esigenze delle cosiddette politiche di “risanamento” della finanza pubblica, e per questa ragione si sono accompagnate a una progressiva riduzione dei fondi per il sistema universitario nel suo insieme. Contemporaneamente, con le ultime riforme sono stati introdotti dei meccanismi premiali finalizzati a innescare processi concorrenziali tra gli Atenei per l’attribuzione delle risorse. Il risultato è che nel periodo 2008-2014 il Fondo di Finanziamento Ordinario per le Università (FFO) si è ridotto complessivamente di circa il 14%, ma mentre le Università settentrionali hanno perso il 7% quelle meridionali hanno dovuto rinunciare addirittura al 19% delle risorse[1].

Nessuno critica l’idea che la distribuzione delle risorse possa essere funzionale a una strategia che punti ad accrescere l’efficienza del sistema universitario. Vi sono però diffuse perplessità sulla capacità del sistema attuale, con i meccanismi premiali che incorpora, di valutare effettivamente il merito degli Atenei. Ciò, unitamente al taglio delle risorse, sta dando luogo a processi di divergenza e polarizzazione all’interno del sistema universitario, con l’effetto che alcune università (prevalentemente del Nord) hanno ancora le risorse sufficienti per portare avanti la ricerca scientifica mentre altre università (prevalentemente del Sud) vengono spinte a dedicarsi sempre più al solo insegnamento di base. Il rischio è che si possa giungere anche alla chiusura di alcuni Atenei con gravi effetti sul piano del diritto allo studio e per la cancellazione degli impatti socio-economici positivi che la presenza delle Università esercita nei territori, in particolare nelle aree meno prospere del Paese.

Per evitare queste dinamiche sarebbe stato opportuno, considerato l’ampio sotto-finanziamento del sistema universitario italiano rispetto agli standard dei paesi avanzati, che i meccanismi redistributivi premiali si fossero accompagnati all’immissione di finanziamenti aggiuntivi e non certo al taglio delle risorse cui abbiamo assistito[2].

Le ultime novità in materia di finanziamenti all’Università sono due. In primo luogo, nel 2014 si è avviato il graduale superamento del meccanismo di ripartizione delle risorse sulla base della spesa storica degli Atenei, introducendo il principio del costo standard, che dovrebbe entrare pienamente a regime nel 2018. In sostanza, si calcola il costo unitario di formazione per studente e lo si moltiplica per il numero dei soli studenti in corso di ciascun Ateneo. Il costo standard di ogni Ateneo viene successivamente espresso in percentuale del totale del costo standard di tutti gli Atenei; questa percentuale viene infine applicata all’ammontare di finanziamento disponibile (per il 2014: al 20% della quota base del FFO). Dunque, il costo standard si configura come un criterio per la ripartizione di un totale predefinito: se aumentano gli studenti in corso in un Ateneo, a parità di stanziamento totale le altre Università ricevono meno risorse.

In secondo luogo, è cresciuta rapidamente la cosiddetta “quota premiale” che è ormai giunta a ripartire il 20% dell’FFO, il che significa nel 2015 quasi 1,4 miliardi di euro.

Per quanto riguarda il costo standard, l’aspetto più controverso è che la norma considera solo gli “studenti iscritti entro la durata normale del corso di studi”, e non anche i fuori corso. Tuttavia, le statistiche ufficiali mostrano che il fenomeno del ritardo negli studi non è uniformemente distribuito nel Paese ma è particolarmente diffuso al Sud. In qualche misura, tali ritardi possono anche dipendere da carenze organizzative delle Università, ma appare chiaro che essi siano largamente influenzati dal funzionamento del mercato locale del lavoro e quindi da fattori di contesto socio-economico locali. Va da sé che, tanto per fare solo un esempio, che dove c’è grande disoccupazione gli studenti non hanno alcuna fretta di lasciare l’Università.

Un effetto ancora più dirompente è legato al fondo premiale. La ripartizione dell’FFO 2015 è rimasta ancorata agli esiti dell’esercizio di Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) 2004-2010 condotto dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), che è stato oggetto di numerosissime e diffuse valutazioni critiche. Gli indicatori approntati dall’ANVUR concernevano la qualità della ricerca (peso 0.5), la capacità di attrarre risorse finanziarie (peso 0.1), le politiche di reclutamento (peso 0.1), il grado di internazionalizzazione (peso 0.1), l’attività di alta formazione (peso 0.1), le risorse proprie (peso 0.05) nonché il miglioramento registrato rispetto all’esercizio di valutazione VTR 2001-2003 (peso 0.05).

Le critiche hanno riguardato numerosi aspetti della VQR. Accanto ai temi relativi alla valutazione della qualità dei prodotti scientifici, che continuano a destare le più grandi perplessità nel mondo scientifico italiano, un rilievo particolare dovrebbe essere attribuito al fatto che anche gli indicatori che ripartiscono la quota premiale trascurano l’influenza di fattori di contesto socio-economico che incidono in modo rilevante sulla capacità di raccogliere tasse e contributi studenteschi, sulla possibilità di attivare risorse esterne, sulla mobilità degli studenti, sulla qualità delle infrastrutture materiali a disposizione, sulla stessa internazionalizzazione. In altre parole, il sistema di ripartizione attuale delle risorse penalizza severamente gli Atenei che operano nei contesti meno sviluppati, alimentando un’assegnazione di risorse che non corrisponde alla qualità della ricerca o della didattica degli Atenei quanto piuttosto al “grado di sviluppo” dei contesti in cui essi operano. Di fatto, più che valutare il merito degli Atenei, i meccanismi premiali attuali finiscono eminentemente per misurare la qualità del contesto (Realfonzo 2015). Per questa ragione, la distribuzione attuale delle risorse sta incrementando (e sempre più favorirà, con la progressiva crescita della quota premiale) i processi di divergenza e polarizzazione all’interno del sistema universitario italiano.

 

  1. Il dibattito sulle classifiche degli Atenei

La circostanza che le norme attuali confondano le performance degli Atenei con quelle del contesto socio-economico locale non può stupire, considerato che le più note “classifiche” delle Università italiane vengono stilate annualmente attribuendo alle Università dei risultati che sono immediatamente connessi al “grado di sviluppo” locale, sulla base di indicatori in parte proposti con scarsa coerenza rispetto gli scopi di fondo dell’analisi (De Nicolao 2015).

Sotto questo aspetto può essere utile riflettere sulle classifiche globali redatte annualmente da alcune delle principali testate giornalistiche italiane: La Repubblica (in collaborazione con il Censis) e Il Sole 24 Ore.

In particolare, Censis e La Repubblica nel 2015 si sono avvalsi di una famiglia piuttosto eterogena di parametri, così sintetizzabili: servizi materiali; borse e contributi; strutture didattiche; servizi web; grado di internazionalizzazione[3]. Come può essere chiaramente desunto da questo sommario elenco, l’attenzione dei ricercatori si è focalizzata principalmente sulle strutture e sui servizi, traslando la valutazione dall’istituzione universitaria alle condizioni socio-economiche di contesto (Checchi et all 2008; Pezzella 2010). Ma non solo; anche la metodologia di aggregazione, fondata sulla normalizzazione di indicatori notevolmente diversi fra loro, risente di notevoli criticità. Difatti, in tal caso si parla di normalization trap, in quanto l’importanza di un indicatore è subordinata al valore conseguito dal top performer, col corollario che, ceteris paribus, se quest’ultimo migliora un suo parametro, la sua incidenza relativa decresce. Così, il ranking relativo di due Atenei potrebbe mutare nonostante una cristallizzazione dei loro parametri assoluti (Billaut et all 2009).

Non molto diversamente può dirsi per la graduatoria stilata da Il Sole 24 Ore, che nel 2015 si è servito di due grandi macro indicatori: didattica e ricerca, con peso equivalente. In particolare, per la didattica sono stati precettati i seguenti sotto-indicatori: attrattività; sostenibilità; stage; mobilità internazionale; borse di studio; dispersione; efficacia; soddisfazione e occupazione. Mentre per la ricerca sono stati utilizzati: fondi esterni; qualità della ricerca scientifica; alta formazione[4]. Discutibili appaiono in questo caso l’attrattività, le borse di studio, la dispersione, l’efficacia e l’occupazione, in quanto tutti in grande misura dipendenti dal contesto ambientale di riferimento, così come la voce fondi esterni. Difatti, banalmente, “in un tessuto sociale ricco e produttivo […] è più facile per le Università ricevere finanziamenti da enti pubblici e fondazioni di vario tipo per i servizi agli studenti, migliorandone il rendimento” (Lapegna 2009).

Questo tipo di classificazioni potrebbero favorire fenomeni di azzardo morale da parte degli Atenei, come l’alleggerimento dei carichi di studio al fine di limitare il novero degli studenti fuori corso (Rebora and Turri 2011), e in generale penalizzano gravemente gli Atenei che operano nei contesti con maggiori problemi socio-economico-ambientali (Daniele e Malanima 2007).

Per queste ragioni, di seguito proveremo a costruire nuovi esempi di graduatorie nazionali, ispirati all’utilizzo di un set di indici maggiormente contestualizzati, ponderati e obiettivi. Lo scopo di queste simulazioni è evidenziare quanto la scelta degli indici sia tutt’altro che neutrale e in che direzione bisognerebbe correggere i meccanismi di valutazione attuali. Al tempo stesso, è possibile sottolineare che, nonostante i danni già prodotti dalle recenti riforme e i tagli ai trasferimenti, la qualità degli Atenei che operano nelle aree a minore reddito pro capite riesce ancora oggi ad essere non molto distante da quella dei concorrenti localizzati nelle aree più prospere del Paese.

  1. Indici occupazionali

Un primo indice su cui riflettere è quello relativo al rischio di restare disoccupati dei neolaureati italiani, che può essere costruito per ogni Ateneo e ponderato rispetto al contesto regionale di riferimento. Questo tipo di analisi ci consente di valutare in che misura le performance dei neolaureati dei singoli Atenei siano migliori di quelle medie dei giovani che operano nel medesimo contesto socio-economico.

Nella tabella 1 abbiamo costruito un indicatore teso a esplicitare le problematicità occupazionali dei laureati a un anno dal conseguimento della laurea, dividendo il tasso di disoccupazione regionale giovanile (15-29 anni) per quello di ciascun Ateneo[5], come media del periodo 2012-2014. La logica è la seguente: valori superiori corrispondono a minori probabilità di restare disoccupati dei laureati dell’Ateneo, a un anno dal conseguimento del titolo, rispetto alla media dei giovani della regione in questione.

In prima istanza, notiamo che i valori registrati sono quasi tutti superiori all’unità. Quindi, in generale un livello di istruzione elevato consente di ridurre il rischio di essere disoccupato rispetto alle fasce della popolazione meno istruite. E in alcuni casi, la probabilità di restare disoccupati per i giovani in generale è addirittura doppia rispetto ai neolaureati della medesima regione, come rilevato ad esempio per l’Ateneo di Bolzano e per il Politecnico di Torino.

Nelle prime 20 posizioni si collocano solo tre Atenei meridionali – il Politecnico di Bari, l’Università di Sassari e quella di Cagliari – e operando una semplice distinzione macroterritoriale, osserviamo che gli Atenei centro-settentrionali fanno segnare un valore medio di 1,29, significativamente superiore a quello dei concorrenti meridionali, che si fermano a 1,13. Si tratta di una graduatoria comunque inedita, considerato che nel gruppo di coda si trovano, tra le altre, anche le Università di Venezia, Siena e Trento.

 

Tabella 1. Rapporto medio fra tasso di disoccupazione regionale giovanile (15-29 anni) e tasso di disoccupazione dei neolaureati nel periodo 2012-2014

Università Disoccupazione Università Disoccupazione
Foro Italico 2,97 Seconda Univ. Na. 1,13
LIUC Cattaneo 2,29 Ferrara 1,12
Bolzano 2,23 Perugia Stran, 1,12
Torino Politecnico 1,90 Macerata 1,11
Modena e Reggio 1,56 Reggio Calabria 1,11
Genova 1,55 Sannio 1,11
Valle d’Aosta 1,54 Siena Stranieri 1,10
Bra Scienze G. 1,52 Messina 1,08
Bari Politecnico 1,50 Camerino 1,06
Torino 1,46 Enna Kore 1,06
Roma BIO M. 1,45 Orientale 1,06
Piemonte Orient. 1,43 Parma 1,06
Roma Tre 1,41 Molise 1,05
Sassari 1,39 Catanzaro 1,04
Tor Vergata 1,39 Teramo 1,04
Insubria 1,35 Bologna 1,03
Roma UNINT 1,35 LUMSA 1,03
Milano S. Raffaele 1,32 Padova 1,02
Casamassima 1,31 Salento 1,02
Cagliari 1,29 L’Aquila 1,00
Udine 1,24 Basilicata 0,997
Catania 1,23 Urbino 0,997
Verona 1,23 Ca’ Foscari 0,99
Federico II 1,21 Foggia 0,97
Parthenope 1,21 Perugia 0,95
Salerno 1,20 Marche Polit. 0,931
Calabria 1,19 Trento 0,89
Bari 1,15 Milano IULM 0,88
La Sapienza 1,15 Siena 0,87
Trieste 1,15 Venezia IUAV 0,82
Firenze 1,14 Chieti e Pescara 0,79
Tuscia 1,14 Cassino e Lazio 0,76

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Almalaurea e Istat

 

Un esercizio più significativo può essere svolto considerando i tassi di occupazione. In questo caso l’obiettivo è costruire un indice di occupabilità dei laureati dei singoli Atenei ponderato rispetto al tasso di occupazione giovanile di contesto. In particolare, dividiamo il tasso di occupazione dei laureati a un anno dal conseguimento del titolo per il tasso di occupazione regionale giovanile (15-29 anni). Questo indice mostra se e in quale misura le probabilità di trovare occupazione dei laureati siano maggiori rispetto a quelle medie di un giovane della regione in cui operano le singole Università (tabella 2). A valori più elevati si associano maggiori probabilità di trovare occupazione dei neolaureati dei diversi Atenei rispetto alla media dei giovani (laureati e non laureati) della regione in questione.

Il primo dato da sottolineare è che ad eccezione di un solo caso (Verona), il tasso di occupazione di Ateneo risulta sistematicamente superiore a quello giovanile regionale. Quindi, risulta ancora una volta confermata la tesi secondo cui “studiare conviene” in termini occupazionali. In particolare, chi ha acquisito un titolo universitario ha una probabilità mediamente doppia di trovare lavoro rispetto ai giovani indipendentemente dal titolo di studio.

Da notare che, nello specifico, gli Atenei meridionali risultano più capaci degli altri di battere i risultati medi del contesto socio-economico in cui operano. Difatti, nelle prime 20 posizioni ritroviamo ben 16 Atenei del Mezzogiorno; secondo assoluto risulta la Parthenope (2,53), seguita da Catania (2,35) e dalla Federico II di Napoli (2,28). Risultati confermati anche dalla classificazione territoriale; gli Atenei meridionali fanno registrare un output medio pari a 2,07, ben superiore (+22,49%) rispetto a quello segnato dalle Università centro-settentrionali, ferme a 1,69. Dal punto di vista regionale, questa classifica è guidata dagli Atenei della Campania (il valore del rapporto è 2,26). Ciò significa che, al netto del critico condizionamento socio-economico regionale, gli Atenei campani svolgono un lavoro di formazione efficace.

 

Tabella 2. Rapporto medio fra tasso di occupazione dei laureati ad un anno dal conseguimento del titolo e tasso di occupazione giovanile (15-29 anni) regionale nel periodo 2012-2014.

Università     Occupazione Università Occupazione
Foro Italico 2,73 Roma BIO M. 1,79
Parthenope 2,53 Torino 1,79
Catania 2,35 Udine 1,79
Federico II 2,28 Insubria 1,78
Seconda Univ. 2,27 Modena e Reggio 1,78
Salerno 2,26 Valle d’Aosta 1,77
Catanzaro 2,22 L’Aquila 1,76
Orientale 2,21 Macerata 1,73
Messina 2,16 LIUC Cattaneo 1,73
Calabria 2,14 Salento 1,72
Molise 2,14 Firenze 1,68
Sassari 2,13 LUMSA 1,66
Bari 2,12 Trieste 1,66
Casamassima 2,11 Urbino 1,63
Roma UNINT 2,11 Ferrara 1,61
Reggio Calabria 2,10 Padova 1,58
Tor Vergata 2,07 Milano IULM 1,57
Bari Politecnico 2,04 Ca’ Foscari 1,56
Sannio 2,02 Torino Politecnico 1,56
Roma Tre 1,99 Siena Stran. 1,53
Genova 1,96 Parma 1,52
Teramo 1,95 Bologna 1,51
Bra Scienze G. 1,94 Camerino 1,50
Cagliari 1,93 Cassino e Lazio 1,49
Enna Kore 1,93 Chieti e Pescara 1,49
Foggia 1,91 Perugia 1,49
La Sapienza 1,85 Marche Politecn. 1,48
Tuscia 1,84 Milano S. Raffaele 1,48
Basilicata 1,82 Siena 1,45
Perugia Stranieri 1,82 Venezia IUAV 1,38
Piemonte Orient. 1,82 Trento 1,33
Bolzano 1,81 Verona 0,79

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Almalaurea e Istat

 

  1. Indici reddituali

Il successivo aspetto da esaminare concerne il reddito percepito dai laureati di ciascun Ateneo a un anno dal conseguimento del titolo, per il biennio 2012-2013. Anche in questo caso, l’esercizio va svolto rapportando i risultati conseguiti dai lavoratori laureati con quelli medi degli occupati (laureati e non laureati[6]) delle regioni di riferimento, per comprendere in quale misura le Università preparino figure in grado di essere maggiormente competitive rispetto ai risultati medi del contesto regionale. A questo scopo, facciamo ricorso ai dati relativi allo stipendio medio mensile percepito dai laureati occupati, a un anno dalla laurea. In particolare, costruiamo una sorta di indice di redditività del titolo di studio, ponderando il valore del reddito medio dei laureati di ciascun Ateneo con il reddito pro-capite mensile della regione di afferenza, per il biennio 2012-2013. Non deve destare meraviglia il fatto che l’indicatore appaia sistematicamente minore di uno: stiamo infatti rapportando il reddito dei neolaureati, che hanno appena avviato la loro attività lavorativa, con quello medio regionale senza vincoli di età.

Il risultato dell’esercizio risulta molto favorevole agli Atenei meridionali, dal momento che nelle prime 20 posizioni ci sono addirittura 18 Atenei meridionali, con Casamassima (0,927) e Catanzaro (0,697) in vetta alla graduatoria. Il dato aggregato per macro ripartizione territoriale conferma la tendenza: gli Atenei meridionali fanno registrare un valore medio di 0,61, superiore di ben 0,21 punti (+52,5%) rispetto a quello delle Università settentrionali, ferme a 0,40.

 

Tabella 3. Rapporto fra stipendio medio mensile dei laureati degli Atenei a un anno dalla laurea e reddito pro-capite mensile regionale nel biennio 2012-2013.

Università Reddito medio Università Reddito medio
Casamassima 0,927 Perugia 0,435
Catanzaro 0,697 BIO Medico 0,43
Reggio Calabria 0,674 Trieste 0,422
Enna Kore 0,673 Macerata 0,419
Sassari 0,671 Siena 0,414
Bari Politecnico 0,658 Udine 0,411
Messina 0,638 Valle d’Aosta 0,408
Catania 0,636 Verona 0,408
Foggia 0,636 Roma UNINT 0,399
Seconda Univ. 0,619 Torino 0,399
Calabria 0,616 LIUC Cattaneo 0,392
Sannio 0,603 Modena e Reg. 0,391
Molise 0,598 Firenze 0,385
Bari 0,596 Genova 0,379
Parthenope 0,594 Padova 0,373
Federico II 0,592 Ferrara 0,37
Teramo 0,589 LUMSA 0,37
Cagliari 0,585 Tor Vergata 0,366
Basilicata 0,566 Insubria 0,364
Perugia Stranieri 0,559 Milano S. Raff. 0,358
Salerno 0,557 Parma 0,35
Salento 0,549 Torino 0,347
L’Aquila 0,505 Venezia Foscari 0,345
Torino Politecnico 0,473 Bologna 0,342
Chieti e Pescara 0,471 Trento 0,332
Camerino 0,464 Tuscia 0,332
Piemonte Orie. 0,46 Udine 0,326
Orientale 0,453 La Sapienza 0,323
Marche Politec. 0,449 Cassino e Lazio 0,317
Bolzano 0,445 IULM Milano 0,307
Urbino Carlo Bo 0,44 IUAV Venezia 0,306
BRA 0,438 Foro Italico 0,274

Fonte: Ns. elaborazioni su dati Almalaurea e Istat

 

  1. Durata degli studi e Pil regionale

 Un’altra variabile di rilevante impatto nella valutazione degli Atenei è la durata media degli studi. Al fine di avere un quadro completo, consideriamo sia la durata media dei percorsi triennali sia dei bienni specialistici, sia delle lauree a ciclo unico. I dati Almalaurea, riportati in tabella 4, evidenziano quanto già prima sottolineato: nelle Università meridionali in genere la durata degli studi è tendenzialmente molto più elevata rispetto alle Università centro-settentrionali.

Nelle prime venti posizioni per durata degli studi troviamo ben 14 Università del Mezzogiorno. Come si osserva, le Università che presentano le performance meno lusinghiere sono Reggio Calabria e la Basilicata, con una durata media totale degli studi rispettivamente di 9,53 e 9 anni. Mentre ai vertici, fra i grandi Atenei, troviamo Padova (6,73), Venezia (6,6) e Bolzano (6,17).

 

Tabella 4. Durata media annua degli studi universitari (triennale + magistrale) nel periodo 2012-2014

Università Durata studi Università Durata studi
Reggio Calabria 9,53 Ferrara 7,37
Basilicata 9,0 Siena 7,37
Sannio 8,8 Siena Stranieri 7,3
Bari Politecnico 8,77 Teramo 7,3
Cagliari 8,73 Trieste 7,3
Catania 8,3 Trento 7,23
Salerno 8,3 Udine 7,2
Molise 8,23 Marche Politec. 7,17
Orientale 8,2 Perugia Stranieri 7,17
L’Aquila 8,13 Valle d’Aosta 7,17
Calabria 8,07 Foro Italico 7,13
Parthenope 8,07 Parma 7,13
Cassino e Lazio 8,0 Torino 7,13
Federico II 8,0 Verona 7,1
Roma Tre 7,97 Roma UNINT 7,07
Catanzaro 7,9 Torino Politecn. 7,03
Sassari 7,87 Bologna 7,03
Tuscia 7,87 Insubria 6,9
Camerino 7,83 Piemonte Orie. 6,87
La Sapienza 7,83 Enna Kore 6,83
Firenze 7,8 Modena e Reg. 6,83
Salento 7,77 Venezia Foscari 6,83
Macerata 7,67 LUMSA 6,73
Messina 7,67 Padova 6,73
Perugia 7,6 IULM Milano 6,6
Seconda Univ. 7,6 Venezia 6,6
Tor Vergata 7,6 Casamassima 6,5
Urbino Carlo Bo 7,6 Bolzano 6,17
Foggia 7,57 LIUC Cattaneo 6,1
Bari 7,5 BRA 6,0
Chieti e Pescara 7,5 BIO Medico 5,83
Genova 7,5 Milano S. Raff. 5,5

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Almalaurea

 

Operando una suddivisione nelle tradizionali ripartizioni territoriali, notiamo che gli Atenei settentrionali fanno segnare una media di 7,15 anni, mentre quelli del Mezzogiorno di 8,01. Se ne desume che gli studenti della ripartizione centro-settentrionale si laureano in media 314 giorni prima rispetto ai colleghi meridionali[7].

Come già sottolineato, la durata media dei corsi di studio è rilevante per la distribuzione delle risorse legate al costo standard, che con l’ordinamento attuale considera esclusivamente gli scritti in corso (escludendo i fuoricorso). E ciò, alla luce della Tabella 4, evidentemente penalizza gli Atenei meridionali. Il punto è che il fatto che i percorsi lunghi si concentrino nel Mezzogiorno e quelli brevi nelle aree maggiormente prospere del Paese induce a ritenere che la durata degli studi sia una funzione del grado di sviluppo del contesto socio-economico.

Sulla base di queste considerazioni, proviamo a verificare se la durata media degli studi dipenda o meno dal Pil pro-capite medio della regione di afferenza dell’Ateneo. In altre parole, vogliamo capire se questa variabile possa rappresentare una discriminante rilevante (oppure marginale) nella carriera dei giovani laureati. A tal scopo, mettiamo in relazione tempi di percorrenza medi e reddito medio regionale (declinato mensilmente), avvalendoci del metodo della regressione lineare semplice.

Dal grafico in basso rileviamo che le due variabili sono fortemente e negativamente correlate; al crescere del Pil pro-capite mensile regionale, i tempi di percorrenza dei laureati tendono mediamente a diminuire. In particolare, l’equazione di regressione mostra che ogni incremento di 1.000 euro mensili del Pil pro-capite regionale, determina una contestuale diminuzione di 1,1 anni della durata media degli studi, pari a circa 402 giorni[8].

 

Grafico 1. Relazione statistica fra durata degli studi universitari e Pil pro-capite mensile regionale nel periodo 2012-2013

Nuova immagine

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Almalaurea e Istat

 

 

Si conferma così ampiamente la tesi secondo cui i tempi di percorrenza degli studenti sono fortemente correlati al grado di sviluppo regionale e in particolare alle performance dei mercati locali del lavoro, indipendentemente dalla qualità della didattica e dalla efficienza organizzativa degli Atenei.

Vi sono diverse possibili spiegazioni di questo fenomeno sociale. Ad esempio, sembra corretto immaginare che nelle aree meno sviluppate del Paese tenderanno ad iscriversi all’Università anche studenti poco inclini allo studio, per l’assenza di una alternativa lavorativa. Ancora, nei contesti a minore reddito pro capite, gli studenti potranno essere indotti a svolgere piccoli lavori supplementari per mantenersi agli studi, con l’effetto di dilatare i tempi di laurea; in altri casi ancora, gli studenti non avranno motivo di affrettare gli studi, utilizzando l’Università come il classico “parcheggio”, per ritardare una condizione di disoccupazione endemica.

 

  1. FFO, contribuzione studentesca, Pil pro capite regionale

Per verificare il carattere della distribuzione delle risorse statali tra gli Atenei, prendiamo in considerazione i flussi dell’FFO nel periodo 2001-2013. L’indicatore che in questo caso va utilizzato è il finanziamento medio per studente assegnato dallo Stato ai diversi Atenei.

Le differenze risultano essere macroscopiche, dal momento che gli Atenei più fortunati possono vantare quote per studente superiori di circa 3000 euro rispetto alle quote distribuite agli Atenei meno fortunati. Basti pensare, a puro titolo di esempio, che l’Ateneo di Siena ha ricevuto in media 5.878,73 euro per studente, quasi il triplo della Parthenope, che si è fermata a soli 2.038,79 euro.

 

Tabella 5. Rapporto medio fra FFO e iscritti totali nel periodo 2001-2013, nelle Università italiane.

Università FFO/Iscritti Università FFO/Iscritti
Siena 5.878,73 Palermo 4.053,74
Pavia        5.564,70 Tor Vergata 4.045,85
Genova 5.202,72 Federico II 4.008,44
Messina 5.151,51 Verona 3.990,36
Trieste 5.062,56 Cagliari 3.949,78
Sassari 5.041,48 Torino 3.809,26
Modena e Reggio 4.989,74 Ca’ Foscari 3.721,58
Milano Politecn. 4.849,49 L’Aquila 3.719,67
Venezia IUAV 4.849,12 Bari 3.570,74
Perugia 4.787,74 Bari Politecn. 3.483,44
Brescia 4.555,45 Milano Bicocca 3.479,68
Padova 4.553,42 Roma Tre 3.334,97
Parma 4.537,06 Salento 3.310,88
Seconda Univers. 4.440,02 Foggia 3.258,91
Piemonte 4.432,05 Catania 3.231,86
Milano 4.405,17 Macerata 3.155,34
Ferrara 4.381,45 Catanzaro 3.138,42
Camerino 4.369,78 Molise 2.987,48
La Sapienza 4.292,89 Teramo 2.964,25
Udine 4.277,44 Sannio 2.945,05
Marche Politecn. 4.276,85 Calabria 2.931,25
Insubria 4.272,3 Salerno 2.851,71
Basilicata 4.260,59 Orientale 2.841,03
Firenze 4210,54 Cassino e Lazio 2.798,43
Torino Politecn. 4.193,72 Reggio Calabria 2.707,91
Bologna 4.166,63 Chieti e Pescara 2.610,02
Pisa 4.163,16 Bergamo 2.317,49
Tuscia 4.083,12 Parthenope 2.038,79

Fonte: Ns. elaborazioni su dati Miur – Ufficio di Statistica (Università e Ricerca).

 

L’analisi evidenzia una forte disparità fra Atenei centro-settentrionali e Atenei meridionali in termini di finanziamento statale medio. I primi possono infatti contare in media su quasi 700 euro pro-capite addizionali di FFO rispetto ai secondi[9].

A questo punto prendiamo in considerazione la contribuzione studentesca. Anche le differenze nella raccolta di tasse e contributi di matrice studentesca tra gli Atenei italiani sono molto marcate. Basti pensare che il Politecnico di Milano nel periodo 2001-2013 ha potuto raccogliere in media tasse e contributi da ciascuno studente per 1600,63 euro contro i soli 411,92 euro di cui si è dovuto accontentare il Politecnico di Bari; un rapporto addirittura di 4 a 1 in sfavore dell’Ateneo meridionale. A livello aggregato, invece, gli Atenei centro-settentrionali hanno raccolto in media 1143,65 euro per studente; mentre quelli meridionali si sono attestati su una quota media nettamente più bassa, equivalente a 620,84 euro.

Così, poniamo in relazione le due variabili analizzate – contribuzione studentesca e FFO – al fine di ricavare una relazione statistica. Il grafico seguente chiarisce la direzione della raccolta tasse e contributi e ne quantifica l’intensità media, in rapporto alla quota degli FFO. La retta di regressione lineare mostra che ogni incremento di 1 euro degli FFO pro-capite si associa ad una crescita media di 0,20 euro della contribuzione studentesca pro-capite (la retta è positivamente inclinata)[10].

 

Grafico 2. Relazione statistica fra FFO pro-capite e contribuzione studentesca pro-capite nel periodo 2001-2013

Nuova immagine

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Miur

 

Ne consegue che rispetto ai concorrenti meridionali, gli Atenei centro-settentrionali non solo riescono ad attirare più risorse finanziarie dagli organi di governo centrale ma possono anche contare su una “raccolta tasse e contributi” decisamente superiore. Ciò consente loro di offrire migliori servizi agli studenti, di erogare un numero ben maggiore di borse di studio, nonché di avere a disposizione infrastrutture, laboratori e biblioteche migliori e meglio gestite. Risulta chiaro che un sistema di ripartizione delle risorse siffatto tenda a penalizzare severamente gli Atenei che operano nelle regioni meno sviluppate del Paese, dando luogo a un pernicioso circolo vizioso.

A completamento dell’analisi sulle entrate di matrice studentesca, correliamo il flusso medio pro-capite delle tasse pagate dagli studenti a livello regionale[11] con il Pil pro-capite territoriale, per il periodo 2001-2013. Lo scopo dell’esercizio risiede nel verificare in quale misura la capacità di raccogliere “tasse e contributi” sia correlata a una particolare qualità organizzativa degli Atenei o piuttosto dipenda dalle disparità reddituali a livello territoriale.

A tal scopo, mettiamo in correlazione il Pil pro-capite annuale regionale con la contribuzione studentesca pro-capite, calcolata sulla media degli Atenei di ciascuna regione.

 

Grafico 3. Relazione statistica fra contribuzione studentesca regionale pro-capite e Pil regionale pro-capite, periodo 2001-2013.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati Istat, Svimez e Miur.

 

Il grafico 3 è eloquente: gli Atenei appartenenti alle regioni ad elevato Pil pro capite si posizionano tutte in alto a destra: a elevati livelli di Pil pro capite si associa una elevata raccolta di tasse e contributi. Contemporaneamente, gli Atenei che operano nelle regioni più povere si collocano tutti in basso a sinistra: bassi livelli di Pil pro capite sono correlati a un ridotto livello della raccolta di tasse e contributi.

L’analisi di regressione mostra che ogni incremento di 1.000 euro del Pil pro-capite, determina un contestuale aumento di 46,17 euro della raccolta tasse presso la popolazione studentesca[12]. In altre parole, il livello di reddito regionale è una discriminante fondamentale nella capacità di raccolta da parte degli Atenei. Difatti, gli Atenei meridionali raccolgono in media 621,44 euro per studente a fronte di un Pil pro-capite medio di 17.529,05 euro; mentre quelli centro-settentrionali possono contare su una contribuzione media di ben 1.113,72 euro, su un Pil pro-capite equivalente a 27.719,44 euro. Una forbice di quasi 500 euro a favore di quest’ultimi, con differenze che raggiungono anche gli 800 euro pro-capite, come accade nel confronto tra Atenei lombardi ed Atenei calabresi.

Vi è anche da notare che gli Atenei centro-settentrionali riescono a ottenere una più elevata contribuzione studentesca in proporzione al reddito della regione di riferimento. Dunque, essi sfruttano al meglio il contesto di diffuso benessere relativo in cui operano, attingendo il massimo delle risorse disponibili. Lo si evince rapportando la contribuzione studentesca pro capite media al Pil annuale regionale medio, per il periodo 2001-2013. Ad eccezione di Lazio e Marche, le regioni centro-settentrionali si piazzano tutte nella prima parte della graduatoria. Inoltre, operando una semplice ripartizione macro territoriale, quest’ultime fanno registrare un valore di 0,0402, superiore del 12,92% rispetto a quello segnato dalle regioni del Mezzogiorno (0,0356).

 

Tabella 6. Rapporto medio fra contribuzione studentesca pro capite regionale e Pil pro-capite regionale nel periodo 2001-2013

Ripartizione Contribuzione/Pil Ripartizione Contribuzione/Pil
Veneto 0,0469 Molise 0,0356
Toscana 0,0438 Basilicata 0,0355
Friuli V.G. 0,0431 Abruzzo 0,0352
Sicilia 0,0430 Marche 0,0350
Umbria 0,0425 Calabria 0,0335
Lombardia 00412 Puglia 0,0324
Liguria 0,0407 Sardegna 0,0299
Piemonte 0,0406 Lazio 0,0281
Emilia R. 0,0399 Centro-Nord 0,0402
Campania 0,0397 Mezzogiorno 0,0356

Fonte: Ns. elaborazioni su dati Istat, Svimez e Miur

 

  1. Considerazioni conclusive

Tutte le considerazioni e gli esercizi svolti confermano la necessità di rivedere i criteri di valutazione e distribuzione delle risorse tra gli Atenei italiani. Difatti, l’utilizzo di indici ponderati con il contesto socio-economico di riferimento chiarisce che gli attuali sistemi di ripartizione delle risorse non rispecchiano effettivamente le qualità della ricerca e dell’offerta formativa degli Atenei, ma piuttosto riflettono le condizioni di contesto. In molti casi, infatti, le Università meridionali – che escono sistematicamente penalizzate dai criteri attuali – mostrano di essere ancora concorrenziali rispetto alle altre istituzioni universitarie del Paese. Con l’attuale sistema di finanziamento degli Atenei, le Università centro-settentrionali godono di un duplice vantaggio competitivo, dovuto non solo al fatto che catturano una elevata quota di FFO ma anche a una maggiore capacità di raccogliere tasse e contributi studenteschi. Una condizione che permette loro di offrire servizi e strutture migliori, nonché una più ampia copertura del diritto allo studio, e che approfondisce le divergenze strutturali fra le due ripartizioni macro-territoriali del Paese. Infatti, come chiarito ampiamente dalla letteratura prevalente, Università e territorio si influenzano vicendevolmente e lavorano in stretta simbiosi alla generazione di esternalità positive per l’intera area di riferimento, migliorandone il capitale umano e produttivo (Blackwell at all 2002; Bagnasco 2004; Goldstein and Drucker 2006; Cassone 2009).

Un’ampia rivalutazione dei parametri adottati, una maggiore attenzione per gli Atenei che operano in contesti socio-economici meno avanzati e maggiori risorse per il sistema universitario nel suo insieme sarebbero interventi indispensabili per favorire una più equilibrata distribuzione della conoscenza e delle condizioni di sviluppo del Paese.

* Professore Ordinario Università degli Studi del Sannio

** Dottorando in Politica economica Università degli Studi del Molise

 

Bibliografia

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Viesti G. (2015), “Elementi per una analisi territoriale del sistema universitario italiano”, Fondazione RES.

 

[1] La riduzione delle risorse per le Università è in larga parte dovuta al Decreto Legge numero 112 del giugno 2008, opera dell’allora ministro Tremonti, che prevedeva tagli – fra il 2009 e il 2013 – pari a oltre 1,4 miliardi di euro: tagli che in parte sono stati applicati e in parte sono stati mitigati o rinviati con provvedimenti una tantum. Tale tendenza si è solo temporaneamente interrotta con lo stanziamento FFO 2014, pari a poco più di 7 miliardi di euro, per poi riprendere con il 2015.

[2] Critiche su questo punto arrivano sia dall’ADI e dal CUN che dal sito ROARS, che svolge un eccellente lavoro informativo sul tema.

[3] La Grande Guida Università 2015-2016, La Repubblica-Censis.

[4] La Classifica delle Migliori Università Italiane, a cura di Gianni Trovati, Edizione 2015.

[5] Abbiamo tralasciato il tasso di disoccupazione regionale globale, concentrandoci su quello giovanile, poiché la popolazione dei neolaureati è ricompresa in una forbice di età ristretta, che solitamente non supera i 30 anni.

[6] Si tratta di una scelta obbligata, in quanto l’Istat non fornisce alcun dato reddituale declinato per i soli giovani laureati.

[7] Una differenza non trascurabile (12,03%); difatti applicando la statistica t di Student (tabella 7) alle medie dei due campioni, otteniamo un p-value estremamente basso e pari a 2,70557e-06, che permette di rifiutare in modo netto l’ipotesi nulla. Inoltre, la t risulta equivalente a 5,165; un valore decisamente superiore a quello tabulato (3,29), in corrispondenza di una significatività dello 0,001%. Quindi, le medie campionarie sono statisticamente differenti.

Tabella 7. Output del test t di Student

Ripartizione Media  Deviaz. Stand. Numerosità
Centro-Nord 7,15 0,5990 43
Mezzogiorno 8,01 0,6792 21

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Almalaurea

 

[8] Il potere esplicativo del modello è abbastanza soddisfacente ed equivalente a 0,6155; quindi, esso consente di spiegare circa il 62% della variabilità dei tempi di percorrenza (inoltre, il test t di Student permette di escludere a priori la validità dell’ipotesi nulla. Difatti, il p-value risulta pari a 4,21e-05, un valore molto basso e statisticamente significativo).

 

Tabella 8. Output della regressione lineare semplice

Coefficienti Intercetta Errore Stand. Valore della t Pr(>|t|)
(Intercetta) 9,5504316 0,3808635 25,076 1,88e-15
Durata studi -0,001087 0,0002025 -5,368 4,21e-05

Errore residuale standard: 0,4281 su 18 gradi di libertà. F=28,82.

 

[9] Per verificare le divergenze fra le due macro-ripartizioni territoriali in termini di fondi ricevuti, abbiamo introdotto una variabile dummy (o binaria) che permette di quantificare l’effetto dell’appartenenza a ciascuna ripartizione geografica sulla quota media degli FFO pro-capite. Nella tabella 9 abbiamo sintetizzato i valori di output della regressione svolta, premurandoci di assegnare il valore 1 agli Atenei centro-settentrionali e il valore 0 a quelli meridionali. Anche se il coefficiente di determinazione non è particolarmente elevato (R-Quadro = 0,145), il modello risulta comunque molto significativo in ragione del basso p-value, che risulta equivalente a 0,003749. La retta di regressione ci dice che l’assenza della condizione determina una quota pro-capite media di 3.510 euro; mentre la sua presenza genera un incremento medio di 664,9 euro.

 

Tabella 9. Output delle regressione con dummy.

Coefficienti Intercetta Errore Stand. Valore della t Pr(>|t|)
(Intercetta) 3510,0 176,2 19,921 2e-16
Factor(Centro-Nord=1) 664,9 219,8 3,026 0,003749

Errore residuale standard: 788 su 54 gradi di libertà

 

[10] Tabella 10. Output della regressione lineare semplice.

Coefficienti Intercetta Errore Stand. Valore della t Pr(>|t|)
(Intercetta) 136,42258 173,26211 0,787 0,435
FFO pro-capite 0,20268 0,04303 4,711 2,003e-05

Errore residuale standard: 276,4 su 50 gradi di libertà. F=22,19.

 

Il modello non ha un potere esplicativo molto elevato (R-Quadro = 0,3074) tuttavia il test t di Student restituisce un p-value estremamente basso (equivalente a 2,003e-05), che ne certifica la significatività statistica. Al medesimo output si giunge anche considerando la statistica F di Fisher-Snedecor, che restituisce un valore pari a 22,19, decisamente superiore rispetto a quello tabulato (7,08).

[11] A causa delle mancanza di dati esaurienti e completi abbiamo escluso dal computo la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige.

[12] La relazione fra Pil pro-capite e contribuzione media è decisamente positiva e robusta, come testimoniato dall’elevatissimo coefficiente di correlazione (R=+0,91), e dal bassissimo p-value del modello (1,82e-07). L’equazione di regressione mostra che ogni incremento di 1.000 euro del Pil pro-capite, determina un contestuale aumento di 46,17 euro della raccolta tasse presso la popolazione studentesca. Inoltre, l’indice di determinazione risulta pari a 0,8257; quindi, il modello permette di spiegare l’82,57% circa della variabilità dei dati in nostro possesso.

 

Tabella 11. Output della retta di regressione lineare semplice.

Coefficienti Intercetta Errore Stand. Valore della t Pr(>|t|)
(Intercetta) -175,8 126,4 -1,391 0,183
Pil regionale 0,04617 0,005304 8,705 1,82e-07

Errore residuale standard: 123,7 su 16 gradi di libertà. F = 75,79.

 

*Questo lavoro è parte di una ricerca più ampia coordinata da Riccardo Realfonzo e condotta nell’ambito dell’Osservatorio Regionale sul Sistema Universitario Campano (di prossima pubblicazione).

 

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