Introduzione
Il presidente Mattarella, nel suo primo discorso di fine anno, tra i vari argomenti trattati, ha affrontato anche quello dell’evasione fiscale: «Un elemento che ostacola le prospettive di crescita è rappresentato dall’evasione fiscale […] gli evasori danneggiano la comunità nazionale e danneggiano i cittadini onesti. Le tasse e le imposte sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero»[1]. Il problema, naturalmente, non è nuovo, tuttavia l’essere messo così in evidenza in un’occasione del genere, ne sottolinea la portata e l’attualità.
L’intento delle righe che seguono è quello di fissare alcuni paletti che servano per capire meglio di cosa stiamo parlando: quantificare l’ammontare del fenomeno, quanta parte dell’evasione è, ad oggi, recuperata, capire quali possono essere le ragioni alla base di questo malcostume italiano (ma non solo). Indicazioni, queste, che aiutino a capire se le diverse proposte avanzate sull’argomento nell’arena politica siano, o meno, realizzabili e potenzialmente efficaci.
I numeri dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale e contributiva
Uno dei principali problemi dell’Italia è rappresentato dall’economia sommersa[2], il cui valore, tra il 2000 e il 2008, è oscillato tra 255 e 275 miliardi di euro annui, 16/20% in termini di Pil (Istat, 2010).
Nel confronto internazionale, il nostro Paese è tutt’altro che virtuoso. Schneider, Buehn e Montenegro (2010), nel tentativo di stimare il peso di questa grandezza, evidenziano come l’Italia, nel periodo 1999-2007, tra venticinque paesi appartenenti all’Ocse, si posizioni al ventitreesimo posto per percentuale dell’economia sommersa rispetto al Pil (valore medio del periodo pari al 27%, con punta del 27,8% nel 1999). Peggio di lei soltanto Grecia (27,5% il rapporto medio per l’intero periodo) e Messico (30%). I più virtuosi, Svizzera e Stati Uniti, ai vertici della classifica, registrano valori percentuali attorno all’8,5%[3]. Decisamente distanti i principali partner europei: Il Regno Unito ha un’economia sommersa pari al 12,5% del Pil; la Francia pari al 15%; la Germania pari al 16%.
Più recentemente Schneider, Raczkowski e Mróz (2015) hanno proposto uno studio simile riguardante, questa volta, i paesi membri dell’Unione europea. Il periodo di riferimento è il 2003-2014. In base a queste stime, l’Italia, che nel 2003 ha un’economia sommersa pari al 26,8% del Pil, arriva al 20,8% nel 2014. La performance è positiva rispetto alla maggioranza dei paesi dell’Unione (in particolare quelli dell’est), ma resta molto indietro al di sotto di quella dei principali paesi. Con riferimento al solo 2014, l’economia sommersa del Regno Unito rispetto al Pil è del 9,6%, in Francia del 10,8%, in Germania del 13,3%.
Murphy (2012) prova a quantificare non soltanto il sommerso, ma anche l’ammontare, ad esso legato, del gettito evaso. Tra i paesi membri dell’Unione nel 2009 l’economia sommersa italiana ammonterebbe a 418,2 miliardi, per un mancato gettito di 180,2 miliardi[4]. In entrambi i casi, si tratta dei valori più alti che si registrano in Europa quell’anno.
Una misura approssimativa della consistenza dell’evasione fiscale in senso stretto (vale a dire, escludendo la componente dei contributi) può essere fatta guardando il tax gap. A tal proposito, il Mef (2014) dichiara che, dal 2001 in poi, sono più di 90 i miliardi di imposte che annualmente non vengono incassati dal fisco. Restringendo l’analisi al periodo più recente (2007-2012), su circa 91 miliardi di euro di tax gap medio annuo, 40 sono di mancata Iva, 44 di mancate imposte sui redditi (Irpef e Ires), 7 di Irap. Non tutto questo mancato gettito è imputabile ad evasione fiscale, ma si può supporre che la fetta sia comunque ampia[5].
Recentissime le stime del Centro Studi di Confindustria (2015) sull’evasione, presentate nel rapporto L’evasione fiscale blocca lo sviluppo: l’evasione fiscale complessiva, nel 2015, si aggirerebbe attorno ai 122,2 miliardi di euro, di cui 34,4 miliardi di mancati contributi previdenziali[6].
I risultati dell’attività di accertamento
Per quanto riguarda l’evasione fiscale in senso stretto, grazie all’attività di accertamento, sono 13,1 i miliardi recuperati al fisco nel corso del 2013, in deciso aumento rispetto al passato, di cui 3,1 miliardi di mancata Irpef e 2,5 miliardi di mancata Iva. Questo nonostante una riduzione del numero di accertamenti: nel 2012 i controlli complessivi erano 741 mila, nel 2013 713 mila (-4%).
Buoni anche i risultati conseguiti dall’Inps nel corso del 2014: su 58 mila ispezioni, 47 mila hanno portato al riscontro di irregolarità. 77 mila sono stati i lavoratori irregolari individuati, di cui 29 mila totalmente a nero. Grazie a queste attività, sono stati accertati poco più di un miliardi di euro di contributi evasi. Nel 2013, nonostante un numero maggiore di ispezioni (72 mila) e un maggior numero di lavoratori irregolari individuati (86 mila), il totale dei mancati contributi accertati era stato leggermente più basso (comunque attorno al miliardo di euro).
Alla radice del problema: breve rassegna della letteratura sulle cause dell’evasione fiscale
La letteratura esistente in materia di evasione fiscale è molto variegata, caratterizzandosi per approcci che implicano non soltanto una visione prettamente economico-utilitaristica del problema, ma abbracciando spesso l’ambito della sociologia e della psicologia.
Tra i primi ad affrontare il problema da un punto di vista teorico Allingham e Sandmo (1972), i quali affermano come l’evasore decida di attuare la sua strategia avendo come obiettivo la massimizzazione dell’utilità attesa. Severità delle pene, consistenza delle sanzioni e grado di avversione al rischio dell’individuo sono gli elementi a determinare se e quanto evadere.
Questo orientamento, in linea di massima condiviso da altri autori, tra i quali Yitzhaki (1974), Webley, Adams e Ellfers (2006), mostra tuttavia un grosso limite che già Andreoni, Erard e Feinstein (1998), pur condividendo l’importanza soprattutto della frequenza dei controlli, evidenziano. Se gli individui si comportassero tutti in maniera così estremamente razionale, dato che le probabilità di essere sottoposti a controllo fiscale sono comunque contenute (perlomeno fintantoché l’autorità preposta non decida di aumentare esponenzialmente l’attività di controllo, con conseguente lievitazione dei costi), molto più alta dovrebbe essere la percentuale di evasori.
Molteplici studi, basati su evidenze empiriche, dimostrano, invece, come, tra le concause di livelli elevati di evasione, ci sia anche il livello fin troppo elevato delle aliquote fiscali. Tra i principali sostenitori di questa relazione Clofelter (1983), Crane e Nourzad (1992), Schneider (2005).
Ci sono poi quegli studi che tirano in ballo elementi di natura psicologica e morale nel determinare il livello di tax compliance di un soggetto, o di un’intera comunità. Elementi che verrebbero addirittura indeboliti in uno stato di polizia, al punto che un eccessivo controllo nei confronti dei contribuenti potrebbe produrre effetti perversi. In questo filone si inseriscono Frey e Feld (2002, 2007), i principali sostenitori di quello che viene definito il contratto fiscale psicologico: la compliance fiscale, per la maggior parte della platea dei contribuenti, non sarebbe legata alla paura di essere sanzionati, ne tantomeno a finalità di tipo utilitaristico, diversamente da quanto affermato da autori come Becker, Buchner e Sleeking (1987), o Alm, Jackson e McKee (1992). Questi ultimi, infatti, legano la fedeltà fiscale alla soddisfazione per il livello di servizi ottenuti dallo stato, cosicché l’evasione dipende da un’offerta ritenuta insoddisfacente. Il contribuente di Frey e Feld, invece, vuole contribuire a prescindere al bene comune e lo fa in maniera del tutto disinteressata. Essi riconoscono, però, l’importanza di incentivi positivi e di creare un rapporto collaborativo tra autorità e contribuenti, soprattutto nei contesti con bassa compliance. Incentivi sì, ma facendo attenzione alle ricompense monetarie: queste potrebbero avere effetti controproducenti nei confronti dei contribuenti più onesti. Meglio regali dunque, come entrate gratuite nei musei, o sconti sul trasporto pubblico[7].
L’efficacia di sistemi fiscali che affianchino all’uso del bastone quello della carota, è evidenziata da lavori come quello di Torgler (2003), riferito al contesto della Costa Rica, o alle indagini sperimentali condotte da Bazart e Pickhard (2009). Più scettici al riguardo Nosenzo et al. (2013), sebbene le loro prove sperimentali non riguardino esattamente l’ambito fiscale, bensì quello delle strategie per combattere lo scarso impegno sul posto di lavoro da parte dei dipendenti.
Da un punto di vista più sociologico, autori come McGee (2012) e Chang e Lai (2004) hanno studiato l’esistenza di fattori di varia natura che possono creare un atteggiamento di forte ostilità nei confronti delle tasse, arrivando al punto che, anche la semplice richiesta di una ricevuta, implichi dei veri e propri costi sociali. Da qui la scelta di sopportare il rischio di essere scoperti dall’autorità pur di non essere isolati dalla comunità.
Conclusioni
Il fenomeno, si è visto, in Italia c’è ed è piuttosto consistente. È invero, però, che i numeri mostrano come, con il passare degli anni, i risultati di contrasto all’evasione sono vieppiù positivi. Le nuove disposizioni in materia di tax compliance varate dal governo Renzi sembrano confermare, anche per il futuro, ulteriori successi in questa direzione, sebbene non manchino, talvolta, decisioni che sembrino non essere del tutto coerenti con il percorso intrapreso.
Per esempio, ci si riferisce a quello che concerne i pagamenti elettronici i quali, essendo tracciabili, indubbiamente potrebbero essere uno strumento utile in questo campo. Ad oggi, però, manca ancora la quantificazione delle sanzioni per chi non rispetta l’obbligo, quest’ultimo già previsto, di accettare questo tipo di pagamenti. Come altro esempio, si pensi alla lunga discussione che c’è stata rispetto al tetto sull’utilizzo dei contanti, terminata con un innalzamento dello stesso da mille a 3 mila euro[8], scelta questa che parrebbe incentivare le transazioni senza ricevuta.
Maggior coerenza e coordinamento tra le diverse misure approvate dal governo sarebbero, dunque, auspicabili. Così come potrebbe essere utile estendere l’utilizzo di incentivi positivi alla tax compliance, data la scarsa propensione di una fetta contribuenti italiani (fetta neanche tanto piccola, visti i numeri descritti in precedenza) a partecipare alle spese dello stato.
Anche un minore applicazione dei principi di austerity sarebbe d’aiuto, dal momento che in Italia la spesa improduttiva, vale a dire quella destinata al pagamento degli interessi sul debito pubblico e che, in quanto tale, non produce servizi o benefici immediati, ammonta negli ultimi anni (2010-2014) a circa 70/80 miliardi di euro l’anno, vale a dire poco meno di un decimo del totale delle spese delle amministrazioni pubbliche[9]. Spalmare il pagamento di questi interessi su un arco di tempo più lungo, significa ridurre da subito le spese complessive dello stato e, quindi, permettere al fisco di diventare più leggero, come auspicata dal presidente Mattarella, spingendo così i contribuenti (o una parte di questi) ad essere meno ostili nei confronti del fisco.
*Cultore della materia (Economia delle Istituzioni) presso il Dipartimento di scienze per l’economia e l’impresa dell’Università di Firenze e consulente per il Dipartimento di democrazia economica, economia sociale, fisco, previdenza e riforme istituzionali della Cisl
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[1] Messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Palazzo del Quirinale, 31/12/2015.