Nuovo modello contrattuale o caduta programmata dei salari reali?

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Political and social notes

La manovra economica appena varata dal Governo, fra le tante altre cose, contiene una misura suscettibile di incidere sui futuri assetti della contrattazione collettiva e, più in generale, sulle modalità di erogazione delle retribuzioni. Con l’art. 5 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185 l’Esecutivo è tornato sui suoi passi quanto alla controversa questione della detassazione dei compensi per lavoro straordinario. La Cgil, che aveva sempre contestato tale agevolazione fiscale, ha visto riconosciute le proprie ragioni. Anche Confindustria, Cisl e Uil, peraltro, hanno motivo di rallegrarsi, dal momento che la stessa disposizione ha confermato, ed anzi rafforzato, il trattamento fiscale di favore per il c.d. salario di ‘produttività’ erogato a livello aziendale: l’imposta sostitutiva con aliquota al 10%, infatti, è destinata adesso ad essere applicata entro il limite (raddoppiato rispetto a quello previgente) di € 6.000 lordi annui percepiti a titolo di retribuzione variabile e con riguardo ad una platea più ampia di beneficiari (i lavoratori del settore privato che abbiano percepito nel 2008 una retribuzione non superiore ad € 35.000).

Ancorché l’intesa definitiva non sia stata ancora raggiunta, la strada per la riforma del modello contrattuale sembra spianata. Vale la pena, dunque, di cominciare ad interrogarsi, tenendo conto di quel che oggi si conosce (ovvero delle Linee guida per la riforma della contrattazione collettiva, già sottoscritte da Confindustria, Cisl e Uil), sugli effetti prevedibili del nuovo modello sulla condizione salariale dei lavoratori.

Il presupposto del ragionamento, naturalmente, va individuato nell’assunto, apparentemente oggetto di larga condivisione, che nel nostro paese esiste, ormai da anni, una drammatica questione salariale, cui sarebbe necessario fare fronte con rimedi incisivi. Ebbene, se di questo si tratta, occorre prendere atto che il modello caldeggiato da Confindustria e condiviso da una parte del movimento sindacale appare, prima facie, peggiorativo, per tutti i profili essenziali, rispetto a quello, tuttora vigente, del Protocollo del 23 luglio 1993.

La funzione del contratto collettivo nazionale, innanzi tutto, risulta inequivocabilmente legata al mero recupero dell’erosione inflazionistica. Non è così nel modello del luglio ’93, il quale, a prescindere dalla successiva esperienza applicativa, di per sé non avrebbe affatto escluso che a livello nazionale, tenendo conto della produttività media del settore coinvolto, si concordassero incrementi di salario in termini reali.

Neppure l’obiettivo (minimo) di garantire, attraverso il ccnl, la tutela del salario reale risulterebbe acquisito. Vero è infatti che, per conseguire tale obiettivo, si vorrebbe adottare un diverso indice previsionale dell’inflazione (l’Indice dei Prezzi Armonizzato Europeo [IPCA]), più sensibile e realistico dell’ormai inattendibile tasso di inflazione programmata su cui si sono fondate le negoziazioni salariali negli ultimi quindici anni. Va però ricordato, in primo luogo, che il tasso d’inflazione programmata ha perso credibilità in ragione dell’uso strumentale e manipolatorio che di tale strumento è stato fatto negli anni in cui ha governato la destra (basti pensare al tasso dell’1,7% fissato dall’ultimo DPEF); e comunque, in secondo luogo, che neppure col nuovo indice (che, peraltro, di per sé non garantisce di corrispondere all’inflazione effettiva) sarebbe assicurata la tutela del salario reale: questo risultato, anzi, è escluso a priori, dal momento che l’indicatore di aumento dei prezzi dovrebbe essere depurato della c.d. inflazione importata legata all’aumento del prezzo dei prodotti energetici, destinata a scaricarsi interamente sulle spalle dei lavoratori. Quanto al meccanismo di recupero certo degli scostamenti fra l’inflazione prevista secondo i criteri dell’IPCA e quella poi effettivamente registrata, esso appare delineato, allo stato, in termini ancora troppo indeterminati per permettere di farsene un’idea e concludere che si tratti di qualcosa di più incisivo del criterio già oggi previsto in relazione alla successione nel tempo dei bienni di negoziazione dei salari.

Rispetto alla contrattazione di secondo livello, nulla cambia. Essa è destinata a svolgersi a livello aziendale o, alternativamente, territoriale, avendo ad oggetto emolumenti retributivi totalmente variabili (legati a produttività, redditività, ecc.) e non determinabili a priori: esattamente come prevede già oggi il protocollo del luglio 1993. Semmai, oggi risulta ancora più chiaramente espressa l’impossibilità di consolidare in cifra fissa le erogazioni riconosciute al secondo livello di contrattazione: essendo d’altra parte la variabilità delle stesse condizione imprescindibile per beneficiare del trattamento di favore contributivo e soprattutto fiscale (previsti dalla legge 247/2007 e, rispettivamente, dal d.l. n. 185/2008).

Nulla cambia, in particolare, con riguardo all’essenziale questione dell’effettività della contrattazione aziendale: la quale, svolta oggi in un numero ridotto di imprese di medio-grandi dimensioni con riferimento ad una platea di meno di 2.000.000 di lavoratori, verosimilmente non appare destinata a particolare espansione. Si ipotizza, naturalmente, che la ‘spinta’ fiscale decisa dal Governo possa determinare uno sbilanciamento verso la periferia degli equilibri della contrattazione collettiva: ma non è affatto detto che quest’effetto si verifichi (o, almeno, che si verifichi nelle dimensioni immaginate: v. infra).

C’è di nuovo la previsione di un “elemento di garanzia retributiva”, che il ccnl dovrebbe fissare in favore dei lavoratori che non beneficiano di erogazioni salariali aziendali. La previsione sarebbe in sé positiva, ma, a parte il fatto che è figlia dell’evidente scetticismo circa la virtù espansiva della contrattazione di secondo livello, si presta a due rilievi che inducono (quanto meno) a sospendere il giudizio: 1. I criteri per la determinazione di tale elemento restano avvolti assolutamente nel vago, cosicché risulta impossibile prevedere se, e come, possano tradursi in incrementi di salario reale (tanto più che l’attivazione di tale elemento è relegata al termine di ciascun triennio contrattuale). 2. La propensione delle imprese alla contrattazione salariale aziendale dovrebbe risultare accresciuta proprio perché, in alternativa, esse sarebbero costrette a corrispondere l’elemento di garanzia retributiva. Nella realtà potrebbero innescarsi comportamenti del tutto diversi. Dal momento che l’elemento di garanzia sembra destinato ai lavoratori che non percepiscono nessun tipo di erogazione salariale aziendale e poiché lo sconto fiscale deliberato dal Governo riguarda il salario di “produttività” comunque definito, anche mediante accordi individuali o addirittura a seguito di erogazioni unilaterali, nulla vieta di aggirare la contrattazione collettiva, provvedendo ad emarginare i sindacati previo ricorso a simili, e ben conosciuti, strumenti.

Si è detto che nulla cambia rispetto alla configurazione della contrattazione di secondo livello. A ben vedere un elemento di novità c’è e riguarda l’eventualità che i ccnl consentano di apportare modifiche ai propri contenuti economici o normativi attraverso accordi di livello territoriale. La novità è evidente, la sua positività altamente discutibile: stante il fatto che le evocate modifiche legittimerebbero, all’evidenza, deroghe peggiorative, e che potrebbero essere concordate non solo per far fronte a situazioni di crisi, ma anche per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale di aree specifiche, se ne deduce che anche la funzione di garanzia salariale minima, riservata al ccnl, rischia nella pratica di rivelarsi della stessa consistenza della carta velina.

Rispetto a quanto previsto dal Protocollo del ’93, infine, muta la cadenza di negoziazione del ccnl che sarebbe unificata per l’insieme dei suoi contenuti e, di conseguenza, anche per la parte salariale risulterebbe calibrata non più su due, ma su tre anni. Questa dilatazione della cadenza della contrattazione salariale appare tutt’altro che irrilevante. In condizioni di normalità del ciclo economico (dunque ovviamente non nella fase attuale, che potrebbe anche dar luogo ad un calo dell’inflazione legato alla più generale depressione delle attività produttive) le previsioni sulla crescita, e comunque sull’andamento, dell’inflazione sono notoriamente tanto più difficili, quanto più ampio è il lasso temporale di riferimento. Appare dunque poco credibile un sistema di negoziazione salariale che, privo di meccanismi di indicizzazione automatica, pretenda di reggersi su cadenze temporali così dilatate. Se si vuole tenere ferma la scelta di rinunciare a forme di indicizzazione dei salari e, nel contempo, non perdere di vista l’obiettivo di salvaguardare il potere d’acquisto dei lavoratori, sarebbe assai più ragionevole la scelta opposta: sarebbe assai più sensato accorciare (e non allungare) le cadenze della contrattazione salariale. Il modello prefigurato, viceversa, incorpora il rischio che, medio tempore (ovvero durante il triennio di vigenza del ccnl), i salari vadano incontro ad un’erosione inflazionistica non adeguatamente controllata ex ante e difficilmente rimediabile ex post.

Si dirà che questo difetto d’impostazione era già presente nella piattaforma unitaria con cui i tre sindacati confederali si sono presentati alla trattativa con la Confindustria. E’ vero. La Cgil però, rifiutando di sottoscrivere le Linee guida, sembra essersi resa tempestivamente conto del pericolo di infilarsi in un vicolo cieco. Sarebbe altamente auspicabile che anche gli altri sindacati sappiano respingere le pressioni di Governo e Confindustria per una conclusione affrettata del negoziato, si concedano una pausa di riflessione ed evitino di imboccare la strada di un accordo interconfederale separato, inedita e gravida di pericoli per l’intero sindacalismo confederale e per la condizione salariale dei lavoratori.

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