Un new deal dell’auto

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Political and social notes

Mentre scrivo quest’articolo le notizie sulla crisi dell’auto registrano un crescendo di chiusure, licenziamenti e dismissioni di impianti; le notizie negative riguardano tutte le imprese in tutto il mondo: chi produce macchine di lusso (Porsche) e chi utilitarie (Tata), chi era considerato eccellente e profittevole (Toyota) e chi incapace (Chrysler), il vecchio mondo con cifre tra le 600 e le 900 auto per 1000 abitanti, in età di guida, e chi invece è ancora a 30 (Cina). Certamente il crollo di vendite è stato subitaneo e drammatico, con punte del 40%, e quindi è facile dire che ciò è un effetto indotto dalla più generale crisi finanziaria che spinge gli acquirenti a rimandare una spesa impegnativa. È proprio così? La domanda non è oziosa perché dalla risposta dipendono le scelte d’intervento. In realtà la crisi ha evidenziato in modo improvviso e totale un problema, ormai più che decennale nel settore dell’auto, che riguarda tutti i principali settori industriali: un eccesso di capacità produttiva installata a causa di un inseguimento senza fine tra i principali produttori per conquistare nuovi mercati e decidere chi, alla fine, sarebbe stato costretto a chiudere. Questa gara, che non è competitiva ma distruttiva, ha poi indotto e facilitato il prevalere degli investimenti finanziari richiesti per sostenere questa folle corsa, sia nel senso di finanziare gli investimenti, sia nel senso di finanziare l’acquisto dell’auto. Si pretendeva, infatti, nell’attesa che le verdi praterie indiane e cinesi soddisfacessero la capacità produttiva potenziale di tutti questi impianti, che, nel vecchio mondo, le vendite dell’auto continuassero a crescere nonostante una contrazione del peso dei salari, giustificata proprio da quella corsa competitiva. È il cane che si morde la coda. Vi è chi sostiene che è solo un problema di pagare il prezzo economico e sociale di un classico consolidamento del settore; insomma i “deboli” e i “malati” verranno soppressi, liquidando così l’eccesso di capacità produttiva, ristabilendo un uso profittevole dei capitali investiti.Dice Marchionne che resteranno solo sei produttori mondiali e che cinque sono già stabiliti (Toyota, Volkswagen, Renault – Nissan, GM, Ford), quindi resta solo da decidere chi è il sesto e non può essere uno di quelli esistenti, perché sono tutti troppo piccoli, quindi vi saranno alleanze e fusioni. Ciò fatto, si dice, non esisterebbe più alcun problema poiché una semplice proiezione della crescita del reddito cinese e indiano ci mostra che in pochi decenni, non appena il PIL per persona raggiunge i 5000 dollari, centinaia di milioni di loro comprerà un’auto e quindi il mercato si moltiplicherà in modo fino a ora mai visto – l’Economist parla di quasi 3 miliardi di auto in alcuni decenni. A sinistra, per converso c’è chi esprime la sua soddisfazione profonda per questa crisi che rappresenterebbe la fine del modello dell’auto. In tutte due i casi si ritiene che i governi non si dovrebbero occupare di questa crisi, ci penserà il mercato, e paradossalmente entrambe chiedono, sia pure in direzioni diverse, forti investimenti in infrastrutture e servizi: le strade, per l’Economist, vero vincolo a un’espansione dell’auto nei paesi emergenti e, per chi vuole uscire da quel modello, un ripensamento della mobilità. Io parteggio per la mobilità sostenibile ma trovo del tutto irresponsabile ritenere che non bisogna intervenire nella crisi. La prima ragione è banale ma sostanziale, infatti, solo in Europa l’auto e le attività da essa indotte interessano dodici milioni di posti di lavoro – 50 milioni nel mondo -, se si riducessero della metà in due anni, la società europea conoscerebbe uno shock da tempi di guerra. La seconda è che il mercato non risolverà nulla da solo, sia si voglia aiutare il consolidamento e il rilancio del settore, sia si voglia porre fine al modello auto-centrico di mobilità. Le notizie contraddittorie sull’intervento del governo e del parlamento USA che, comunque si voglia definire, rappresenta l’assunzione pubblica della responsabilità di definire la mobilità del futuro toglie ogni alibi all’Europa. Il grande passaggio, all’inizio del ‘900, dai tram all’auto dovrebbe insegnarci qualche cosa. Passaggi da una modalità di mobilità ad un’altra infatti richiedono una trasformazione sociale complessiva che non può che basarsi su una regolazione pubblica. In primo luogo, infatti, bisogna ripensare la pianificazione territoriale e urbanistica, fermando il crescente sprawling urbano, e rilanciando l’aggregazione urbana come modello di convivialità. Solo così, infatti, si può seriamente garantire una mobilità delle persone e delle merci non auto-centrica, come già avviene a Parigi, dentro la peripherique, e a Manhattan. Si tratta di un ciclo di pianificazione e riposizionamenti che richiederà, se iniziato, alcuni decenni durante i quali si può mettere in moto il processo di riposizionamento dell’industria dell’auto. La prima urgenza, in questa ipotesi è il problema ambientale. La crisi deve rappresentare l’opportunità della transizione, che può essere ragionevolmente fatta in tempi inferiori al decennio, da auto a combustione interna basata sul petrolio e derivati, ad auto elettriche, con diversi sentieri di aggiustamento. Alcuni di questi sono già in cantiere , richiedono una manovra congiunta sul lato della domanda e della offerta e quindi un forte intervento pubblico. Mi riferisco alla filiera dell’elettrico basato sulle nuove batterie, scelta che già molte case, ad esempio Renault-Nissan, stanno facendo, oppure all’elettrico basto sui motori a cella combustibile, scelta che appare un po’ più lontana nel tempo, e infine a quelli misti, con la possibilità cioè di alternate l’elettrico con una delle tante versioni a combustione, infine la filiera dei gas naturali quali il metano che può interessare in modo specifico certe aree geografiche. Inutile dire che ogni avanzamento in questa direzione riguarda non solo l’auto, come mezzo di mobilità personale, ma tutto il settore automotive; processo di trasformazione che, una volta innescato, può raggiungere in tempi ragionevoli quella soglia da cui inizia un effetto palla di neve. Non tutte queste soluzioni sono strategicamente equivalenti; bisognerebbe, infatti, considerare i vincoli ecologici che suggeriscono che solo quelle filiere che possono, alla fine, congiungersi con l’utilizzo di risorse rinnovabili hanno un respiro strategico. La cosa non è irrilevante, perché se il pubblico deve giocare un ruolo, allora è importante prevedere una linea di investimenti di capitali sia nei nuovi servizi da creare, ad esempio una rete di ricarica elettrica piuttosto che di distribuzione dell’idrogeno, sia nel vero e proprio ripensamento dei sistemi di propulsione.

Un altro sentiero di aggiustamento riguarda il modello proprietario; si stanno, infatti, sviluppando modalità di uso di un mezzo di locomozione, in particola modo in aree urbane, basato sull’auto ma non in proprietà. Una siffatta soluzione, se adeguatamente sostenuta anche con stringenti regolazioni della mobilità in ambito urbano, può ridurre ulteriormente l’impatto ambientale. Infine vi è il campo alquanto inesplorato e, a mio giudizio, il più strategico della costruzione ex novo di veri e propri sistemi integrati di mobilità urbana, sul modello degli aeroporti.

Una linea di riposizionamento dell’industria europea verso questa direzione richiede una manovra coordinata europea, senza la quale il rischio è di innescare una guerra per la sopravvivenza che, nel momento in cui acquistasse carattere di lotta tra nazioni, metterebbe in moto una spirale preoccupante di destabilizzazione della stessa Unione Europea.

Infine i sindacati. Il rischio è che, in assenza di un progetto di respiro europeo, ognuno dei sindacati nazionali si schieri con la propria industria e, dove ve n’è più di una, con il proprio marchio. Dato che la cura che è vista universalmente come salvifica, è il taglio di capacità produttiva, il risultato di una chiusura nazionalistica e corporativa è anche quello di difendere il nucleo duro e sindacalizzato di ciascun’impresa leader, a spese dei precari, in primo luogo – molti immigrati e giovani – poi della subfornitura a bassa specializzazione, poi dei servizi, ecc. Andrebbe messa in discussione la saggezza di puntare ad un taglio delle capacità produttive ed a conseguenti licenziamenti. Un new deal europeo non consiste nell’investire senza senso ingenti quantità di denaro per il rilancio dei consumi, come non lo fu il new deal degli anni ‘30, ma nella difesa e creazione di posti di lavoro per svolgere attività produttive che riorganizzino l’attività industriale e modifichino la struttura dei servizi. Un piano di transizione dell’industria dell’auto in Europa può partire dal rifiuto dei licenziamenti, infatti, nelle ipotesi avanzate vi è una grande quantità di lavoro da fare, da questo punto di vista è di grande interesse la posizione del governo tedesco che chiede alle grandi imprese un anno di moratoria sui licenziamenti. È evidente, e qui sta il problema, che in tale ipotesi il ritorno sui capitali investiti non può, per un periodo lungo, avere i livelli sino ad ora realizzati, il che ci porta di nuovo alla finanziarizzazione di questi decenni e a un ruolo dello Stato. È tempo quindi di superare Maastricht, non semplicemente per allentarne i vincoli, ma per ripensare l’idea stessa del patto di stabilità; appare, infatti, evidente che gli investimenti necessari per il new deal non possono essere considerati come pura e semplice spesa. Analogamente non ha più alcun senso l’idea che, all’inizio di una deflazione, ci si debba proteggere dal rischio d’inseguimento salari nominali-prezzi, adesso il problema è solo politico: che peso deve avere il monte salari nella ricchezza nazionale.

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