Quota salari e investimenti: alcuni effetti delle riforme del lavoro

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Non c’è dubbio che i tratti distintivi della crisi che sta vivendo l’Italia possano essere indicati nell’alto tasso di disoccupazione e nella caduta degli investimenti.

Ovviamente non si tratta di due fenomeni distinti tra loro: è evidente che bassi investimenti comportano una stagnazione della base produttiva con conseguente scarsa creazione di posti di lavoro. D’altra parte gli investimenti sono una componente della domanda aggregata e perciò bassi investimenti, limitando la domanda aggregata, comportano un’alta disoccupazione.

Sembra generalmente accettato dagli economisti e dai policy makers che la possibilità di uscire dalla crisi sia quella di rilanciare gli investimenti. Ciò che però non è affatto chiaro è come questo obiettivo possa essere raggiunto.

Prima di affrontare questo tema vediamo alcuni dati riguardanti l’andamento in Italia, nell’Unione Europea, in Francia e Germania della “formazione del capitale fisso”. Quest’ultima grandezza statistica, pur non esaurendo il campo degli investimenti (ad esempio non comprendono gli investimenti nel cosiddetto capitale umano) è comunque un buon indicatore degli investimenti reali di un paese.

Nel confrontare i dati sulla formazione del capitale fisso è interessante considerare separatamente il settore pubblico e quello privato. Per quanto riguarda il settore pubblico, come si vede dalla tabella seguente per l’intero periodo per il quale sono disponibili i dati della zona euro, la media dei tassi annui di variazione[1] della variabile considerata è stata notevolmente più bassa per l’Italia che per tutti gli altri paesi confrontati. Tuttavia, precedentemente alla crisi, la media dei tassi di variazione è stata in Italia superiore sia rispetto alla Francia che alla Germania. Dal 2007 in poi, con l’irrompere della crisi, la media delle variazioni annue è stata in Italia negativa e decisamente più bassa che negli altri paesi. Un caso a parte è la Germania, che ha sperimentato una media negativa degli investimenti pubblici prima della crisi, ma poi proprio a partire dallo scoppio della crisi, mostra un andamento decisamente positivo.

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Tabella 1. Elaborazione da dati AMECO

Per quanto riguarda la formazione del capitale fisso lordo nel settore privato, si nota che per l’intero periodo considerato la media dei tassi di variazione in Italia è bassa, sia a livello assoluto che nei confronti degli altri paesi europei. Nel periodo precedente la crisi gli investimenti privati sono cresciuti, a differenza che in Francia e Germania, meno di quelli pubblici. In questo periodo il valore della media è inferiore non solo a quello della zona euro, ma anche a quello della Francia. Con la crisi la media dei tassi di variazione diviene negativa in Italia, come anche nella zona euro. E’ bene tenere in mente infine che tassi negativi di variazione degli investimenti privati si sono avuti in Italia a partire dal 2008, con l’eccezione del 2010, mentre la diminuzione degli investimenti pubblici è stata molto più concentrata, manifestandosi solo a partire dal 2011. Occorre anche notare che durante la crisi  in Germania gli investimenti pubblici sono cresciuti più di quelli privati, permettendo a questo paese di affrontare meglio la recessione.

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Tabella 2. Elaborazione su dati AMECO

Per concludere questa prima parte si può osservare che la dinamica degli investimenti privati è stata in Italia più debole sia nell’intero periodo considerato sia nel periodo precedente la crisi. La maggiore crescita degli investimenti pubblici ha in parte compensato la minore dinamicità del settore privato nel periodo precedente la crisi. Con la crisi e con le politiche di aggiustamento dei bilanci pubblici la funzione degli investimenti pubblici è decisamente venuta a mancare.

Come conseguenza di questo andamento degli investimenti, l’intero stock di capitale fisso netto ha avuto in questi anni i seguenti tassi divariazione medi annui. Con l’eccezione della Germania, l’Italia ha avuto il più basso tasso medio annuo di crescita dello stock di capitale nell’intero periodo e negli anni dal 1996 al 2007, mentre sperimenta un tasso minore anche della Germania nel periodo successivo alla crisi. C’è da osservare che dal 2011 al 2015, secondo le stime dell’Ameco, il tasso medio annuo diviene negativo (-0,27%), cioè lo stock di capitale fisso netto diminuisce.

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Tabella 3. Elaborazione su dati AMECO.

Il fatto che per uscire dalla crisi sia necessario stimolare gli investimenti non è più negato da nessuno. Tuttavia, l’approccio dominante alle politiche economiche non punta ad un incremento diretto della componente pubblica degli investimenti, ma a stimolare per mezzo di incentivi gli investimenti privati. In questo senso si muove il Piano di Investimenti proposto dalla Commissione Europea nel Novembre del 2014 (il c.d. Piano Juncker) tramite agevolazioni e misure per attenuare i rischi degli investimenti privati[2].

Inoltre si ritiene che gli investimenti possano essere stimolati da misure che rendano il mercato del lavoro più flessibile. Al contrario, come viene affermato dal recente Workers Act, proposto da Sbilanciamoci  in alternativa al Jobs Act, “la recente involuzione del sistema produttivo italiano, ma anche quella di molti paesi europei, mostra come la riduzione del costo del lavoro rispetto a quello d’uso del capitale … può avere l’effetto perverso e opposto di incentivare le imprese a rinviare nuovi investimenti e a ridurre il contenuto tecnologico delle loro attività produttive”[3].

L’effetto perverso di un indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori e della precarizzazione del rapporto di lavoro sugli investimenti trova una verifica empirica puntuale se consideriamo la correlazione tra quota dei salari sul PIL, aggiustata per i redditi da lavoro imputati al lavoro autonomo e il rapporto tra la formazione del capitale fisso lordo e il PIL. Può sembrare strano, ma i dati sono chiari: all’aumentare della quota dei salari tende ad aumentare la quota degli investimenti in capitale fisso lordo. I dati si riferiscono ad un lungo arco temporale: partono infatti dal 1960 e comprendono le previsioni dell’AMECO per il 2015 e il 2016.

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Grafico 1. Elaborazione su dati AMECO

In primo luogo occorre notare che questa relazione tra quota dei salari e degli investimenti non si verifica solo nel nostro paese, ma è al contrario molto diffusa. Ad esempio, come mostrato nei grafici seguenti, è riscontrabile anche per l’insieme dei paesi dell’Unione Europea (in questo caso i dati disponibili si riferiscono all’Europa a 15) e per gli Stati Uniti.

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Grafico 2. Elaborazione su dati AMECO

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Grafico 3. Elaborazione su dati AMECO

E’ opportuno osservare che L’Italia ha sperimentato tra il 1975 e il 2000 una caduta drammatica della quota dei salari sul reddito, molto più consistente che negli altri paesi, (dal 66% al 51%). Negli anni dal 2000 al 2009 la quota è risalita fino al 54%, restando peraltro sensibilmente più bassa che nella media europea, e poi ha ripreso a diminuire. Questa caduta, alla luce della correlazione vista sopra, non ha certo favorito gli investimenti in Italia, per usare un eufemismo.

Il grafico seguente confronta l’andamento della quota aggiustata dei salari in Italia con quelle della media dei paesi dell’Unione Europea e degli Usa in cui la discesa della quota è stata più graduale e meno consistente.

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Grafico 4. Dati AMECO

Poiché il complemento ad uno della quota dei salari sul reddito è la quota del surplus operativo lordo, questa relazione implica anche che mano a mano che la quota dei profitti aumenta diminuisce la quota degli investimenti sul reddito.

Questa correlazione è tutt’altro che intuitiva: in generale la teoria economica, da David Ricardo in poi, tende ad assumere una correlazione opposta, cioè a prevedere un aumento degli investimenti al crescere dei profitti. Sembrerebbe allora ragionevole supporre in questa ottica che al diminuire della quota dei salari sul reddito la quota degli investimenti debba aumentare.

Tuttavia due tra i più grandi economisti nell’intera storia di questa disciplina, non sono stati contagiati dalla saggezza convenzionale, hanno previsto questa correlazione e ne hanno dato spiegazioni teoriche, sia pure in parte diverse tra loro . Il primo è Adam Smith:

Sembra che l’alto saggio di profitto distrugga ovunque la parsimonia che in altre circostanze è connaturata al carattere del mercante. Quando i profitti sono alti, questa sobria virtù sembra essere superflua e il lusso dispendioso sembra essere più conveniente all’opulenza del mercante. Ma i proprietari dei grandi capitali commerciali sono necessariamente coloro  che guidano e indirizzano l’intera attività produttiva di ogni nazione e il loro esempio ha un’influenza molto maggiore sui costumi di tutta la parte attiva della popolazione dell’influenza esercitata dall’esempio di ogni altro ordine sociale (Smith, 1977, p. 605)[4].

Smith assimila gli alti saggi di profitto alle rendite, almeno per ciò che riguarda il comportamento dei percettori di reddito. Con alti saggi di profitto i capitalisti non sono più indotti ad accumulare il loro capitale, ma al contrario si comportano come i proprietari fondiari.

Partendo sempre dall’assimilazione degli alti profitti alle rendite, la spiegazione teorica di Keynes, contenuta nel celebre passo sull’eutanasia del rentier, è diversa: egli infatti riteneva che il reddito tratto dal capitale

…dovrebbe coprire poco più del suo esaurimento per logorio e obsolescenza oltre ad un certo margine per coprire il rischio e l’esercizio delle capacità e del giudizio personali. In breve, il rendimento tratto da beni durevoli nel corso della loro vita coprirebbe esattamente, come nel caso di beni di breve durata, il costo di lavoro della loro produzione più una quota per il rischio e per i costi di capacità e di reazione

Ora, sebbene questo stato di cose sia del tutto compatibile con un certo grado di individualismo, esso significherebbe tuttavia l’eutanasia del redditiero e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale[5].

La conseguenza negativa di questo potere oppressivo del capitalista, diversamente da Smith, non è tanto l’alto livello dei consumi di lusso, ma la bassa propensione ad investire a fronte di un’alta propensione al risparmio. Più specificamente, secondo Keynes, da un lato il rendimento del capitale si traduce in alti interessi, che tenderanno a far diminuire gli investimenti. D’altra parte, il trasferimento di reddito dai salariati ad altri fattori probabilmente favorirà una diminuzione della propensione al consumo, contribuendo per questa via all’indebolimento della domanda aggregata.

I due autori, comunque, considerano entrambi gli alti profitti (rendimenti del capitale) come rendite che finiscono per limitare gli investimenti e di conseguenza lo sviluppo dell’economia.

Alla luce di queste considerazioni andrebbe letto un recente studio, i cui risultati sono stati pubblicati dal Fondo monetario internazionale, che mostra come l’indebolimento dei sindacati e del potere contrattuale dei lavoratori sia una causa importante della crescita recente delle diseguaglianze[6].

Recenti studi, anche di istituzioni economiche internazionali come l’OCSE,  hanno messo in rilievo l’impatto dell’aumento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito sullo sviluppo[7]. Non si tratta solo della diminuzione degli investimenti in capitale umano legati al crescere della diseguaglianza, ma anche più in generale del livello di tutti gli investimenti.

Si conferma anche che “tesi come quelle secondo cui: lo Stato dovrebbe limitarsi a qualche spintarella per indirizzare il settore privato nella giusta direzione; i crediti di imposta sono un metodo che funziona perché le imprese sono smaniose di investire in innovazione; ostacoli e normative devono essere ridotti; le piccole imprese sono più flessibili e imprenditoriali semplicemente perché sono piccole e quindi è giusto sostenerle, in forma diretta o indiretta; il problema chiave dell’europa è semplicemente un problema di “commercializzazione”, sono altrettanti miti sull’origine dell’imprenditorialità e dell’innovazione”[8].

Lo stato deve invece intervenire direttamente, e non solo attraverso incentivi al settore privato, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti sull’innovazione, mentre la distribuzione del reddito resta un fattore decisivo per questioni di equità, ma anche economiche, per quanto riguarda il livello degli investimenti e quindi dello sviluppo economico.

[1] Si è deciso di considerare la media dei tassi annui di variazione piuttosto che il tasso medio di variazione annuo (cioè il tasso che applicato al dato dell’anno iniziale per tutto il periodo dà come risultato il dato dell’anno finale) perché, trattandosi di un flusso, in questo modo il risultato sarebbe influenzato esclusivamente dai valori assunti dagli investimenti nell’anno iniziale e in quello finale.
[2] Per una critica alla tesi secondo cui lo stato debba semplicemente eliminare il rischio a beneficio di qualcun altro si veda M. Mazzucati (2014), Lo stato innovatore, Editori Laterza, Bari, soprattutto il capitolo terzo, Sollevare dal rischio? Assumere il rischio.
[3] Sbilanciamoci! (2015) Workers Act. Le politiche per chi lavora e per chi vorrebbe lavorare, p.32. Si veda anche, in questo senso, il recente Outlook del Fondo Monetario Internazionale, che, sia pure cautamente, è costretto ad ammettere che non è possibile riscontrare un impatto positivo delle riforme strutturali del mercato del lavoro sulla produttività totale dei fattori. International Monetary Fund (2015), World Economic Otlook: Uneven Growth – Short and Long-Term Factors, p. 108 http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2015/01/pdf/text.pdf.
Tra gli economisti italiani già Francesco Saverio Nitti nel 1895 aveva notato che i bassi salari scoraggiano l’introduzione delle macchine nella produzione: le macchine sono labour saving e il lavoro deve essere risparmiato solo “perché è una merce costosa: dove il suo prezzo è vile non v’è alcuna necessità di sostituirlo o almeno di risparmiarlo”. F. S. Nitti (1895), Il lavoro umano e le sue leggi, ora in Scritti di economia e finanza, vol. II, Laterza, Bari, 1960, p. 404.
[4]A. Smith (1977), Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano, Mondadori, p.605. Sono molti i luoghi in cui Smith afferma che gli alti profitti hanno un effetto negativo sull’economia: essi fanno crescere i prezzi più degli alti salari (p. 97), sono causa di scarsa competitività nel commercio (p. 591) e scoraggiano i miglioramenti della terra (p. 604). Come è noto, nella visione di Smith, bassi saggi del profitto sono indice della prosperità del paese (p. 90).
[5] J. M. Keynes (2006), La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Milano, Istituto Geografico De Agostini, p. 513.
[6] F. Jaumotte e C. Osorio Buitron (2015), Power from the people, Finance and Development, International Monetary Fund, 52, 1, pp. 29-31: http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2015/03/jaumotte.htm.
[7] Tra l’altro si vedano OECD (2015), In IT Together: Why Less Inequality Benefits All, OECD Publishing, Paris, F. Cingano (2014), Trends in Income Inequality and its Impact on Economic Growth, OECD Social, Employment and Migration Papers, 163, http://www.oecd-ilibrary.org/docserver/download/5jxrjncwxv6j.pdf?expires=1435228038&id=id&accname=guest&checksum=3044FA3288E9C0A8D8C72DB3FB5FF43B.
[8] M. Mazzucato (2014), Lo stato innovatore, Editori Laterza, Bariì, p. 35.

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