Di fronte alle due tempeste “globali” che hanno investito l’Unione Europea, le migrazioni di massa e la grande Recessione, è stata particolarmente evidenziata l’inadeguatezza delle istituzioni europee a farvi fronte . Una moneta comune senza uno Stato comune, una politica monetaria senza una politica di bilancio non si erano mai viste, è stato giustamente ripetuto. E in effetti la UE non assomiglia né a una Confederazione di Stati né, meno che mai, a uno Stato federale.
Non è stato però altrettanto sottolineato che la nascita della UE non ha avuto nulla in comune appunto con la nascita di una Confederazione di Stati o di uno Stato federale. Essa non è nata per mettere in comune e per potenziarli alcuni aspetti positivi dei singoli Stati, anche se a livello ideologico e culturale questo è stato teorizzato, bensì come presa d’atto che la lotta per l’egemonia tra i due principali Stati europei si era risolta, dopo due guerre mondiali, in un nulla di fatto e anzi aveva condotto quasi alla loro disintegrazione e con essa della stessa civiltà europea e del suo antico primato.
Premessa fondamentale era dunque che il fine della UE non era quello di iniziare un processo che avrebbe dovuto far capo a delle caratteristiche nuove in qualche misura comuni e comunque diverse da quelle iniziali dei singoli Stati membri, bensì di rendere compatibili alcune specificità essenzialmente economiche che avrebbe resa inutile e definitivamente controproducente la lotta per appropriarsene a spese l’uno dell’altro.
Comprendiamo allora perché ad es. la libera circolazione delle persone del trattato di Schengen dovesse entrare drammaticamente in crisi di fronte al premere dei rifugiati e soprattutto dei migranti economici ai confini dei welfare State della UE. Ma comprendiamo per lo stesso motivo perché la “clausola di flessibilità”, introdotta accanto al “patto di stabilità e di crescita” fondativo della UE per far fronte alla grande Recessione, dovesse in qualche misura andare incontro ad una sorte analoga.
Nella formulazione del gennaio 2015 da parte della Commissione europea, l’utilizzazione della “clausola di flessibilità” era ammissibile a condizione che servisse per l’attuazione di “riforme strutturali”, di “spese per investimenti”, e le conseguenti “correzioni” che si sarebbero rese necessarie per i paesi utilizzatori fossero rapportate ai rispettivi livelli di “Pil potenziale”.
Concretamente, era consentita una deviazione dal deficit previsto per un singolo paese nella misura massima dello 0,5 % del Pil (per l’Italia circa 8 miliardi di euro) per “riforme strutturali” aventi un “impatto postivo di lungo periodo sulla crescita del Pil”; che fossero “sostenibili” dalla finanza pubblica e non comportassero lo “sforamento” del tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil (che avrebbe sottoposto automaticamente il paese ad una “procedura di infrazione per deficit eccessivo”); che infine tale deviazione fosse “corretta” nei tre anni successivi a quello in cui si era utilizzata la clausola di “flessibilità”[1].
Ma, come è stato notato, una tale “flessibilità” rischia di rivelarsi una specie di “gioco a somma zero”: non solo la misura e il tempo del suo utilizzo possono essere insufficienti; ma i tempi del rientro ( i tre anni immediatamente successivi) possono innescare addirittura una reazione di tipo recessivo. Si pensi ad es. al caso dell’Italia, che per il 2016 si è avvalsa di una flessibilità superiore a quella consentita, con una conseguente minore riduzione del proprio deficit di bilancio strutturale, ma che proprio per questo, a partire dal 2017, in virtù della presenza delle cosiddette “clausole di salvaguardia”, dovrebbe operare una “correzione” di circa 1,4 punti di Pil, pari a 24 miliardi euro[2] !
Com’è noto, i vincoli del Patto di stabilità e di crescita europeo alla politica di bilancio pubblico sono basati sulla nozione di “saldo strutturale”, cioè il saldo di bilancio pubblico depurato dagli effetti del ciclo economico e dalle misure cosiddette una tantum. La componente ciclica del saldo di bilancio pubblico, a sua volta, si ottiene moltiplicando un parametro di impatto ciclico per il cosiddetto output gap, cioè per la differenza tra il Pil effettivo e quello potenziale o Pil che si otterrebbe con il massimo impiego possibile dei fattori produttivi, capitale e lavoro, al netto di spinte inflazionistiche.
Orbene, è evidente che se si sottostima il Pil potenziale si otterrà un output gap più basso, che a sua volta comporterà deficit strutturali più elevati, i quali implicheranno “correzioni” più consistenti. Ma la nozione di Pil potenziale appunto non è univoca: quello calcoltato ad es. dalla Commissione europea, considerato eccessivamente “pro-ciclico” e che dà luogo a saldi strutturali peggiori, differisce, con riferimento all’Italia, da quelli calcolati da FMI e OCSE[3].
Insomma, in conclusione, si potrebbe dire nec cum te nec sine te: se, senza correzione dei deficit di bilancio, non si riduce indubbiamente un debito pubblico come quello italiano; senza crescita o sviluppo quest’ultimo è destinato ineluttabilmente ad aumentare.
[1] A.Fontana-L.Paolazzi, Conti pubblici più flessibili per sostenere le riforme, Nota Centro Studi Confindustria n.3 2016; Conti pubblici, flessibilità cruciale per le riforme, Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016.
[2] R.Petrini, Padoan: i calcoli Ue danneggiano l’Italia, la Repubblica, 31 marzo 2016
[3] M.Sensini, Lavoro, il calo dei giovani disoccupati, Corriere della Sera, 2 aprile 2016.