Gli inutili venti della seconda grande crisi

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Political and social notes

Il G 20 appena concluso non ha portato ai risultati concreti necessari per far fronte alla seconda grande crisi. Si scontravano due posizioni. Quella americana che chiedeva un maggior impegno europeo nel sostegno di politica fiscale alla ripresa, e quella europea volta a imporre una maggiore disciplina e supervisione internazionale sul settore finanziario indicato al grande pubblico come il responsabile della crisi. Né gli uni né gli altri hanno prevalso, e le misure decise riguardano sostanzialmente altro. Ma gli europei sono probabilmente i grandi sconfitti. Vediamo perché.

1. Grande mattatore della vigilia è stato Sarkozy che aveva minacciato di alzare i tacchi se gli americani non avessero accettato i suggerimenti europei di una più forte regolazione dei mercati finanziari. Ha così costituito una inedita alleanza con la Merkel ferma nell’attribuire le cause ultime della crisi nella dissolutezza del consumatore americano, mai sazio di beni e di debiti, laddove i tedeschi son saldi nella loro proverbiale assennatezza finanziaria. Eppure lo scorso autunno Sarkozy aveva strepitato contro sia la passività della politica fiscale dei tedeschi che la flemma della BCE, chiedendo di istituzionalizzare il coordinamento di politica fiscale e monetaria fra i paesi dell’Eurozona (l’Eurogruppo) così da costituire una controparte politica alla BCE. Di fronte al nein tedesco, timoroso che la BCE dismettesse il suo ruolo di guardiana di salari e prezzi e soccombesse, da organo tecnico qual è, a fronte di un Eurogruppo rafforzato politicamente rafforzato, Sarkozy ha, com’è nel corso naturale delle cose, dapprima cominciato a adottare o minacciare misure protezioniste per poi, come s’è visto, cambiare fronte e schierarsi con i tedeschi nel respingere il keynesiano americano, sia nella precedente versione Greenspan del consumatore indebitato, che in quella Obama della più classica spesa pubblica. Con un dirigente dopo l’altro sequestrato dai lavoratori francesi inferociti, a Sarkozy non era rimasto che cercare di indirizzare la loro rabbia, come si usa fare, verso il nemico esterno, le economie a bassi salari che sottraggono posti di lavoro, o l’avidità del capitalismo americano.

Gli americani, d’altra parte, di troppi controlli non ne vogliono sapere. L’establishment finanziario Usa non ha avuto difficoltà a collocare i suoi uomini a fianco di Obama, così nei risultati del G20 al di là della vaga affermazione, buona per soddisfare Sarkozy, non si è andati. D’altronde sia gli americani che gli europei, per non parlare dei cinesi, non sperano altro in cuor loro che di licenziare questa crisi come una parentesi e continuare nel casino-capitalismo di prima. Jeffrey Garten, docnte a Yale e alto funzionario al Commercio con Clinton ha ben sintetizzato la situazione: “ Qui c’è il paradosso centrale. Ciascuno ha perso la fiducia sul sistema americano perché più se ne viene a sapere più si capisce che si è perseguito un capitalismo molto irresponsabile. Ora ciascuno sta aspettando che gli Usa li vengano a salvare. …L’ironia è che molti dei nostri partner, dopo averci rimproverato per essere stati irresponsabili ed avidi, vogliono ora ritornare all’era quando i consumatori americani sostenevano il mondo, quando noi spendevamo molto e risparmiavamo poco” (NYTimes.com, 31/3/09).

A fronte di questa posizione Obama non brandirà l’arma del protezionismo, anche se anche gli Usa, come altri 17 paesi dei 20 paesi, hanno intrapreso passi in questa direzione in maniera da assicurarsi che gli stimoli siano spesi per merci americane. Il protezionismo costituisce il pericolo paventato dal ministro britannico Lord Malloch-Brown che ha organizzato il G 20: “L’idea più pericolosa che gira è che il mondo in qualche modo si aspetti che il consumatore americano accorra in soccorso. …Se questa idea persiste condurrà l’America al protezionismo” (Int.Herald Tribune, 23/3/09). L’America non lo farà, sarebbe la fine della sua leadership mondiale, ma lo minaccerà seriamente, specie contro gli europei.

2. L’atteggiamento incostante di Sarkozy ha fatto perdere l’occasione per guidare l’opinione pubblica europea verso i veri problemi, progressivamente emersi già dalla fine degli anni settanta: (a) superare la situazione in cui tre fra le quattro più grandi economie, Germania, Giappone e successivamente la Cina, pretendono di vendere ma non acquistare dagli altri, lasciando così agli Usa il ruolo di locomotiva solitaria, cioè di mercato di ultima istanza, ruolo svolto col keynesismo balordo di cui abbiamo detto; (b) restituire ai salari la quota del reddito che hanno perso (nel caso della Cina, che non ha mai avuto) negli ultimi 25 anni sì da stabilizzare la domanda.

Le misure concordate dal G20 non affrontano tali questioni. Le cifre eclatanti stanziate, 1100 miliardi al Fmi, consistono in gran parte di erogazioni già previste o di mere promesse. Sopratutto esse curano uno degli effetti della crisi, le possibili crisi finanziarie dei paesi in via di sviluppo, ma non le cause. K.S.Rogoff di Harvard ha per esempio dichiarato: “I paesi ricchi si congratulano per aver intrapreso i passi giusti, come se il solo problema ora fosse di aiutare i mercati emergenti” (NYTimes.com 3/4/09). Tale aiuto è in realtà un salvataggio indiretto delle banche creditrici europee e americane, e se avverrà con il tradizionale corredo di misure restrittive, non c’è da stare allegri in quanto contributo alla deflazione mondiale. Il resto, come la denuncia dei paradisi fiscali, costituisce il solito specchietto per le allodole. Se è per questo, l’UE i paradisi fiscali se li è già portati in casa sotto forma, ad esempio, delle repubbliche baltiche. Non si è mancato di costituire la classica “commissione” che si istituisce quando non si fa nulla di concreto allargando il Financial Stability Forum ai paesi emergenti. Nessun potere di supervisione internazionale sulla finanza come richiesto a gran voce da Sarkozy, solo un ruolo di osservatore affidato al Fmi. Sulle politiche di stimolo fiscale solo un vaghissimo impegno.

Un serio coordinamento delle politiche economiche globali richiederebbe ben altro, sia come volontà politica che come salto intellettuale. E’ possibile che gli americani lo faranno, almeno in qualche misura, con un interlocutore più serio come la Cina, in un G2 che emarginerà gli europei, mentre questi ultimi continueranno a subire il neomercantilismo tedesco.

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.