Il sistema politico americano, come è noto, ha fissato il riferimento al metodo di calcolo delle elezioni presidenziali addirittura in Costituzione. Come la Pasqua cade la prima domenica dopo l’equinozio di primavera, il Presidente degli Stati Uniti – e il vicepresidente, elemento non secondario dato che a questo turno i due candidati sono piuttosto âgée, absit iniura verbis! – si elegge il martedì dopo il primo lunedì di novembre: quest’anno l’election day cade il 3 novembre, martedì prossimo. In realtà la data in questione chiude semplicemente il lungo procedimento di voto che si è aperto già con i suffragi espressi per posta e, poi, nei seggi. Di conseguenza i sondaggi elettorali che vengono pubblicati in questi giorni sono una sorta di creatura anfibia, metà sondaggio e metà exit poll, che possono in maniera più o meno significativa gettare luce su quello che sta per succede dall’altra parte dell’Atlantico. Già, i sondaggi. Perché le elezioni americane di quattro anni fa inaugurarono la stagione della “crisi dei sondaggisti”, proseguita poi con la Brexit e altri successivi infortuni di sorta. Una stagione nella quale gli esperti del ramo parevano non essere in grado di rilevare una serie di eventi politicamente eccentrici rispetto ad una presunta normalità politica. Quattro anni fa era favorita la Clinton, così dicevano con una certa sicurezza i commentatori progressisti e non da questa e da quell’altra parte dell’Atlantico, forse convinti dell’inverosimiglianza del tycoon alla Casa Bianca[1]. In realtà, anche allora il dato espresso dai sondaggi era più complesso: sicuramente data in vantaggio nel voto popolare (dove in effetti la signora Rodman in Clinton arrivò prima in scioltezza) la candidata dei democratici mostrava vantaggi molto più risicati in una serie di battelground States: la magica cifra dei 270 grandi elettori sembrava non così sicura come certa stampa voleva credere. 270 questo è, infatti, il numero dei grandi elettori necessari per eleggere un presidente. Per noi abitanti di questa sponda dell’Atlantico, cittadini di democrazie figlie o nipoti della Rivoluzione francese e del mito della volontà popolare, il meccanismo del collegio elettorale pare assai strano, barocco, artificioso, beffardo e in definitiva poco democratico. La verità è che i Padri fondatori erano piuttosto lontani dal concetto di democrazia così come poi si sarebbe sviluppato dalla tradizione rivoluzionaria francese ed erano molto più interessati alla costruzione di una repubblica nella quale il meccanismo della separazione dei poteri, dei check and balance garantisse, assieme al judicial review of legislation, la supremazia della Costituzione sulla volontà contingente del corpo elettorale[2]. In questo senso vanno lette quelle celebri pagine del n. 10 del Federalista nelle quali Madison introduce la differenza tra governo popolare e governo repubblicano, ritenendo il governo repubblicano (delega, rappresentanza, divisione dei poteri, supremazia della Costituzione) il solo strumento in grado di salvaguardare la libertà, a differenza di un sistema democratico-popolare destinato a collassare sotto il peso potenzialmente tirannico del principio di maggioranza[3]. Lo stesso scetticismo sulla partecipazione popolare si ritrova, d’altra parte, anche in altri saggi dei Federalist Papers, come nel n. 63, secondo il quale la peculiarità della democrazia americana rispetto a quelle antiche consisteva, non nella mancanza di forme di rappresentanza e di delega nelle seconde, ma nella “completa esclusione del popolo nella sua capacità collettiva da una partecipazione diretta alla cosa pubblica”[4]. I due testi citati si riferiscono in primo luogo chiaramente al funzionamento dell’organo legislativo, più che di quello esecutivo, e hanno come riferimento polemico in primis la concezione rousseauiana della democrazia e della volontà generale, ma è altrettanto chiaro di come mostrino un generale scetticismo nei confronti del protagonismo popolare nei meccanismi di scelta politica, quindi indirettamente anche nella elezione presidenziale. L’elezione indiretta del Presidente degli Stati uniti rappresenta in questa ottica, da una parte un ulteriore riconoscimento della identità federale del nascente Stato, dall’altra l’interesse dei Founding Fathers per una repubblica nella quale le scelte politiche ed elettorali del popolo fossero il più possibile mediate dai meccanismi di delega[5]. Il meccanismo di elezione presidenziale è piuttosto noto e non sarà necessario spenderci soverchie parole: il candidato che vince in uno Stato ottiene tutti i voti dei grandi elettori espressi dallo Stato medesimo. Lo Stato del Nebraska, invece, ha 3 collegi, ognuno elegge un grande elettore, per il resto in tutti gli altri Stati the winner takes it all. Chi ottiene la maggioranza di voti tra i grandi elettori – 270 appunto – viene eletto. Nel 2016, per la seconda volta nella storia recente, il candidato premiato dal voto popolare aveva perso le elezioni per il meccanismo di attribuzione dei voti dei grandi elettori; anche nel 2000 il candidato democratico Gore aveva preso più voti popolari di Bush jr, vincitore poi nel decisivo e contestatissimo voto della Florida. Per una sorta di astuzia (o svista, potrebbe dirsi) della Storia, dunque, Donald Trump, il candidato presidente che maggiormente aveva rappresentato, almeno negli USA, il modello populista di costruzione della identità politica è arrivato al potere grazie proprio ad uno di quegli istituti – il voto del collegio elettorale – originariamente pensato come strumento di controllo e di limitazione al potere del popolo sovrano e delle sue maggioranze contingenti[6]. La storia della vittoria elettorale di Trump allora è, anche, quella di un populista andato al potere grazie agli strumenti di quella democrazia costituzionale che, proprio nella retorica populista, appare un limite politicamente intollerabile al pieno sviluppo dell’indirizzo politico della maggioranza in cui si identifica il popolo[7].
Ma cosa dicono i sondaggi ad una settimana dalla chiusura delle procedure di voto?[8] Le medie dei sondaggi dicono innanzitutto che Biden sarebbe in vantaggio di 6,8 punti percentuali a livello nazionale, nel voto popolare, dato politicamente importante, ma elettoralmente non decisivo. Più utile allora è provare a calcolare i voti dei grandi elettori secondo i sondaggi effettuati Stato per Stato. I dati interessanti sono due. Il primo riguarda il computo dei voti dei grandi elettori che, se le medie degli ultimi sondaggi fossero confermate, avrebbero i singoli candidati. Biden potrebbe ottenere 325 voti, Trump 207, in Iowa (6 voti) ci sarebbe, secondo l’ultimo sondaggio, un pareggio esatto. Ma se il tema in questione è il margine di errore dei sondaggi, appare interessante vedere quale vantaggio, nei sondaggi, avrebbe Biden negli Stati marginali, cioè negli ultimi Stati utili per raggiungere i famosi 270 grandi elettori. Ordinando gli Stati per margine di vantaggio di Biden e armandosi di calcolatrice, si può notare che Biden raggiungerebbe i 270 grandi elettori vincendo in Nevada e in Pennsylvania, Stati nei quali i sondaggi lo danno avanti rispettivamente di 5,6 e 5 punti percentuali, oltre che chiaramente in tutti gli Stati nei quali mostra un vantaggio superiore (dal 68% di vantaggio nel District of Columbia a 7 punti di vantaggio nel secondo distretto del Nebraska). Oltre questa soglia – vincendo Pennsylvania e Nevada Biden sarebbe a 280 voti – ci sarebbero ancora 3 Stati nei quali Biden sarebbe in vantaggio su Trump: Arizona (11 grandi elettori e 2,3% di vantaggio), Florida (29 e 2%), North Carolina (15 e 1,4%). Poi Ohio, Georgia e Texas dove Trump sarebbe invece in vantaggio, ma con un margine inferiore all’1%. Quindi, per riepilogare, Biden sarebbe Presidente se vincesse in tutti gli Stati nei quali ha un margine di vantaggio nei sondaggi uguale o superiore ai 5 punti percentuali. Se questa non proprio improbabile condizione si verificasse, i democratici vincerebbero le presidenziali anche perdendo tutti gli altri Stati, compresi i tre in cui pure vantano adesso – sì – un margine di vantaggio ma più limitato, compreso tra il 2,3% e l’1,4%. Vincerebbero anche senza ribaltare alcun pronostico, neanche in quell’Ohio, tradizionale battleground State, nel quale il candidato poi eletto presidente è sempre risultato il più votato, addirittura dai tempi di Lyndon Johnson (e 23 volte su 25 dall’inizio del ‘900!).
Questi dati sono sufficienti per assegnare già la vittoria ai democratici? Probabilmente no, anche se vicende simmetriche in Europa come in America hanno dimostrato che avanti al rischio pandemico, almeno nella prima ondata, la strategia della rimozione (se non della negazione) posta in essere dai populismi di destra al governo probabilmente non ha pagato in termini politici (si confronti il peso che la gestione della pandemia ha avuto sulla popolarità di Trump con le difficoltà di Johnson nel Regno Unito)[9]. I dati dei sondaggi, si diceva, e la strutturazione delle corse elettorali nei singoli Stati non sono sufficienti ad attribuire già la vittoria. Sicuramente consegnano, come spesso accade, un quadro della democrazia americana più complesso di quanto appaia a prima vista.
[1] Sullo spiazzamento del mondo dell’informazione statunitense avanti alla vittoria di Trump si veda M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017, p. 39 e ss.
[2] Su questo aspetto del pensiero costituzionale statunitense si veda M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 31 e ss..
[3] Per una analoga lettura del pensiero di Madison si veda P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma, 2017, p 28.
[4] La traduzione indicata e contenuta in J.W. Müller, Cos’è il populismo?, Università Bocconi Editore, Milano, 2016, p. 113.
[5] Si legga in questo senso James Madison nel numero 10 dei Federalist Papers “The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; […] The effect of the first difference is, on the one hand, to refine and enlarge the public views, by passing them through the medium of a chosen body of citizens, whose wisdom may best discern the true interest of their country, and whose patriotism and love of justice will be least likely to sacrifice it to temporary or partial considerations. Under such a regulation, it may well happen that the public voice, pronounced by the representatives of the people, will be more consonant to the public good than if pronounced by the people themselves, convened for the purpose”. I testi dei Federalist Paper sono consultabili in lingua originale sul sito istituzionale della Biblioteca del Congresso https://guides.loc.gov/federalist-papers/full-text
[6] Sul carattere populista della presidenza Trump la letteratura è piuttosto vasta, per limitarsi ad alcune delle più notevoli opere scientifiche pubblicate in italiano, si veda V. E. Parsi, Titanic. Il Naufragio dell’ordine liberale, Il Mulino, Bologna, 2018 p. 139 e ss.; M. Revelli, Populismo 2.0, cit., p 39 e ss..
[7] Per un’analisi generale del conflitto tra valori liberali e populismi si veda tra i tanti J. Zielonka, Controrivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale, Laterza, Roma-Bari, 2018 in particolare p. 24 e ss. e J.W. Müller, Cos’è il populismo?, cit, p. 68 e ss.
[8] Tutti i sondaggi di seguito citati sono reperibili, con i relativi dati connessi alle metodologie di indagine e alla committenza, sull’autorevole sito https://www.270towin.com/2020-polls-biden-trump/
[9] Per un’analisi della politica economica americana nel quadriennio trumpiano, anche al netto della vicenda Covid, si legga J. Komlos, S. Perri Un’economia vulnerabile: i risultati economici della prima presidenza Trump, in Economia e politica, 14 Settembre 2020.