Mattarella, la Costituzione e il vincolo esterno

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Political and social notes

L’affidabilità finanziaria dello Stato ed i vincoli all’indirizzo politico governativo nella crisi del compromesso democratico-sociale. Perché la vicenda della mancata nomina del professor Savona a Ministro dell’Economia e delle Finanze ci dice di più sulla forma di Stato che sulla forma di Governo

Dopo il giuramento del Governo Conte si può dire che c’è mancato veramente poco che la XVII legislatura si concludesse senza essersi sostanzialmente mai aperta, con un conflitto istituzionale dirompente in atto e con delle elezioni anticipate che avrebbero avviato il paese verso una ristrutturazione forse inevitabile del quadro politico.

Nella serata di domenica 26 maggio il Presidente del Consiglio incaricato era arrivato a rimettere nelle mani del Capo dello Stato il mandato che gli era stato assegnato quattro giorni prima, avanti all’indisponibilità del Quirinale a nominare Paolo Savona, già ministro del Governo Ciampi, autore in passato di alcune riflessioni tecniche possibiliste rispetto ad una uscita dell’Italia dall’euro, alla carica – ormai cruciale – di Ministro dell’economia e delle finanze. La presenza alla guida del ministero di Via XX Settembre di Paolo Savona era stata fino ad allora prospettata come irrinunciabile dalla Lega, influentissimo partner di minoranza della nascente coalizione governativa. Il Presidente della Repubblica aveva considerato – come poi risultato chiaro nel breve intervento avanti agli organi di stampa – la semplice nomina di un Ministro che si era espresso in passato in maniera possibilista rispetto all’uscita dell’Italia dall’euro, come suscettibile di compromettere la affidabilità finanziaria dello Stato. Questa compromissione veniva in quella sede considerata già un elemento di violazione dei principi costituzionali riguardanti l’equilibrio di bilancio, la partecipazione italiana alla moneta unica e all’Unione europea, la tutela del risparmio. Avanti al rifiuto presidenziale di nominare il ministro indicato, l’accordo di governo si era sfaldato aprendo la strada ad una crisi istituzionale dai toni violenti e dagli esiti che parevano assolutamente imprevedibili. Minacce di avviare la procedura di messa in stato di accusa da parte grillina, ombra delle elezioni anticipate che si proiettava scura sulla legislatura, turbolenze furenti sui mercati finanziari e spread in rapida ascesa, incarico ad un Governo tecnico che, verosimilmente senza maggioranza parlamentare, avrebbe dovuto portare semplicemente il paese a nuove ravvicinatissime elezioni: il paese pareva sull’orlo di una spaccatura sul tema cruciale del sovranismo e dell’europeismo e su quello altrettanto cruciale della forza democratica del mandato popolare e dei limiti alla democrazia rappresentativa. Quando i giochi parevano ormai chiusi e mentre il nuovo Presidente del Consiglio incaricato Carlo Cottarelli era già al lavoro sulla compagine ministeriale, è invece arrivato, a sorpresa, sul nome di Savona al MEF, il passo indietro di Luigi Di Maio, probabilmente spaventato da un ritorno alle urne potesse ridefinire a proprio svantaggio i rapporti di forza con la Lega e un rinnovato protagonismo di Alessandro Di Battista potesse mettere in discussione la propria leadership all’interno del Movimento. Sul motivo per il quale Salvini, fino a quel momento tetragono sulla propria posizione e vincitore indiscusso della partita, quasi sicuro beneficiario di un ritorno alle urne, abbia infine consentito la designazione di Savona alla titolarità di altro dicastero è cosa sulla quale si eserciteranno nei mesi prossimi venturi notisti, politologi e storici.

Dal punto di vista giuridico, il dipanarsi della crisi istituzionale ha in maniera massiccia interrogato il paese e l’opinione pubblica più vasta su alcuni dei nodi inerenti la forma Governo italiana. Il tema centrale pare essere la definizione dei limiti della discrezionalità presidenziale nell’applicazione della regola contenuta nel secondo comma dell’articolo 92 della Costituzione, cioè nell’aderire o – come in questo caso – nel respingere le indicazioni fattegli dal Presidente del Consiglio incaricato – e attraverso lui dai partiti della costituenda maggioranza – in ordine ai nominativi dei futuri ministri. Per intendere i contorni della vicenda, lo schema teorico più efficace e semplice è, probabilmente, la distinzione, ampiamente proposta in dottrina[i], tra indirizzo politico-governativo e indirizzo politico-costituzionale. In questa prospettiva, l’indirizzo politico governativo, il cui esercizio spetterebbe al complesso Governo-maggioranza parlamentare, consisterebbe nella definizione dei fini specifici cui sarebbero, poi, indirizzati gli atti dell’amministrazione e della legislazione. Quella scelta di fini sarebbe, tuttavia, solo limitatamente libera, dovendosi attuare nell’ambito dei principi, dei valori e delle finalità complessive imposte dalla Costituzione. Gli organi titolari di un potere di indirizzo politico-costituzionale – il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale – sarebbero, in questa ricostruzione, preposti ad un ruolo più o meno attivo affinché quei principi e quei valori siano vivificati nella concreta partica delle istituzioni e nella vita politica del paese, garantendo, tra l’altro, che l’indirizzo politico governativo non trascenda al di là delle finalità supreme della Carta. Nell’applicazione della regola di cui all’articolo 92, secondo comma, il Presidente della Repubblica eserciterebbe sicuramente un indirizzo politico-costituzionale.

La questione problematica di questa ricostruzione – ampiamente segnalata, anche al di là della crisi istituzionale di questi giorni[ii] – pare essere allora quella di individuare il confine sottile tra indirizzo politico-governativo e indirizzo politico-costituzionale: fino a che punto di dettaglio la Costituzione prescrive direttamente e da che punto in poi, invece, le forze politiche sono libere di determinare la loro linea contingente? Fino a che punto di specificità di determinazione dei fini politici la Costituzione deve essere soltanto meramente applicata e da che punto in poi può essere variamente attuata? Nel caso che ha agitato il dibattito politico di queste settimane, il Presidente della Repubblica si sarebbe rifiutato di nominare un ministro dell’economia euroscettico perché avrebbe ritenuto anche la semplice nomina in grado di mettere a rischio i principi della Carta costituzionale così come da lui interpretati: in questo caso il rispetto degli accordi internazionali, l’appartenenza alla UE, il pareggio di bilancio, la tutela del risparmio messo in pericolo da possibili manovre speculative sui mercati dei titoli pubblici e privati. La valutazione dell’afferenza di una vicenda di vita istituzionale all’ambito di manifestazione di esercizio di un potere di indirizzo politico governativo o costituzionale è probabilmente, fino al sollevamento di un conflitto di attribuzione avanti alla Corte costituzionale, frutto di una interpretazione della Carta costituzionale e insieme una valutazione politica del Presidente della Repubblica. Una valutazione, tuttavia, che non può essere effettuata a cuor leggero. Più si ritiene che l’impianto costituzionale vincoli in profondità il decisore politico, meno si ritiene la politica costituzionalmente legittimata a decidere: se i margini di attuazione discrezionale si riducono, più ampio diventa lo spazio per una mera applicazione della Carta, riducendo al minimo una discrezionale intermediazione del Parlamento e del Governo.

La questione può essere allora formalizzata in questi termini: la mera nomina di un ministro euroscettico è già di per sè elemento sufficiente per affermare che l’indirizzo politico-governativo abbia trasceso i termini e i limiti imposti dai principi supremi della Costituzione? E ciò, per il solo fatto di ritenere che quella nomina potrebbe produrre effetti sui mercati tali da erodere la consistenza dei risparmi e indurre potenzialmente il Governo a porre in essere misure che mettano in discussione la partecipazione dell’Italia alla moneta unica? Anche se questa messa in discussione non dovesse mai essere stata esplicitata nel programma di governo come obiettivo o anche solo come effetto collaterale accettato di un indirizzo politico più ampio[iii]? La mera possibilità di reazione dei mercati riguardo il merito creditizio dei titoli pubblici e l’affidabilità finanziaria dello Stato, costituisce già una messa in pericolo o una violazione dei principi costituzionali? È necessario allora un intervento di garanzia tanto anticipato, considerando anche che il Presidente della Repubblica avrebbe conservato comunque il potere di rinvio alle Camere degli eventuali atti legislativi che fossero stati concretizzazione di quell’indirizzo ritenuto incostituzionale? O ancora, preso il problema da un’altra visuale: una forza politica che punti esplicitamente all’uscita dall’euro (e non pare essere il caso di specie) sta scardinando il piano dei valori supremi e intangibili della Costituzione? La partecipazione alla moneta unica attiene al nucleo duro dei principi costituzionali estranei ai confini materiali della revisione costituzionale? Sui temi della tenuta finanziaria a quale livello di dettaglio deve arrivare l’indirizzo politico-costituzionale?

Per specificare meglio la questione giovino due esempi di segno opposto. Il primo si spera solo di scuola: cosa dovrebbe fare il Presidente della Repubblica avanti alla proposta di nomina di un ministro apertamente fascista? La risposta che fornisce la Carta è chiara: stante la radicale incompatibilità del fascismo con la forma di Stato democratico-sociale (esplicita nella XII disposizione transitoria e finale, ma implicita in tutto l’impianto) dovrebbe rifiutare la nomina. Sulla questione specifica del fascismo la Costituzione non prevede la possibilità di articolare una varietà di risposte: essa va semplicemente applicata. Altro esempio: cosa dovrebbe fare il Presidente della Repubblica avanti ad un programma di governo o ad uno o più ministri indicati che si dovessero far promotori di alcune riforme costituzionali? La risposta in questo caso è assai meno di scuola rispetto all’esempio precedente, dato che dal 1988 con qualche interruzione e molte ridenominazioni esiste un Ministero senza portafoglio preposto alle riforme istituzionali e, d’altra parte, riforme costituzionali più o meno articolate sono state inserite in quasi tutti i programmi di governo degli ultimi trent’anni. L’articolo 138 della Costituzione delinea un procedimento di revisione che ha come unico limite materiale i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, di conseguenza – come è stato per trent’anni – nulla osterebbe a nominare un Presidente del Consiglio o un Ministro che si propongano di modificare disposizioni costituzionali cui non sono connessi principi supremi dell’ordinamento.

Se la risposta alle domande prima formulate dovesse essere nel senso di ritenere che l’esercizio del potere di indirizzo politico-costituzionale arrivi fin anche alla doverosità di sindacare le indicazioni di nomina di un Ministro da parte Presidente del Consiglio incaricato sulla sola base di una astratta lesività dei possibili effetti indiretti delle pregresse opinioni dell’indicato, come pare sostenere Mattarella, allora bisogna rovesciare il discorso rispetto all’impostazione prevalente. Perché nominare un ministro dell’economia latamente euroscettico mette a repentaglio determinati principi costituzionali e nominare invece un ministro degli interni in odor di xenofobia invece non genererebbe uguale impatto eversivo? Perché a questo punto anche solo accettare un programma di governo che, promettendo la flat tax, mette al meno a rischio il principio di progressività dei tributi? È accettabile costituzionalmente il liberi tutti in tema di legittima difesa? Sarebbe stato plausibile rifiutare la nomina di un Ministro con deleghe in queste materie per le sole posizioni politiche manifestate? indipendentemente e prima dell’eventuale esercizio del potere presidenziale di rinvio sui singoli successivi atti legislativi incostituzionali eventualmente approvati?

Se si ritiene – tesi coraggiosamente interventista, sulla quale si possono esprimere molte riserve – che il Presidente della Repubblica debba esercitare il proprio indirizzo politico-costituzionale così in fondo da sindacare scelte tanto embrionali di un nascente (inquietante, sia chiaro, a parere di chi scrive) Governo, perché si ritiene che questo sindacato si debba esercitare solo sul campo dei vincoli europei e nell’ambito di una così rigorosa lettura del portato costituzionale di quei vincoli? La questione su cui interrogarsi, allora, non riguarda più l’interpretazione del comma secondo dell’articolo 92 ma riguarda la capacità precettiva dei singoli principi costituzionali che giustificano una modalità o l’altra dell’esercizio del potere presidenziale di nomina, la capacità che alcuni (e non altri) principi costituzionali avrebbero di condizionare l’applicazione della regola contenuta in quella disposizione. Perché l’articolo 11 e l’articolo 117 primo comma, (da cui si fa discendere la connessione strutturale tra ordinamento interno e ordinamento europeo) o l’articolo 47 (tutela del risparmio) o l’articolo 81 primo comma (pareggio di bilancio) dicono e pesano, ad esempio, più dell’articolo 10 terzo comma (diritto di asilo) o più dell’articolo 53 secondo comma (progressività del sistema tributario)? Se Mattarella non ha manifestato la volontà politica (perché a questo livello credo si interrompa il discorso, prima ancora di valutarne la fattibilità tecnico-giuridica) di rifiutare in toto l’incarico ad un governo gialloverde, con un programma che sotto molti profili potrebbe essere considerato di complessa digeribilità costituzionale, perché ha fatto valere così in profondità le proprie prerogative di definizione dell’indirizzo politico-costituzionale solo sul presunto antieuropeismo del Ministro dell’economia indicato?

Pare, invece, che le vicende in esame, rappresentino una manifestazione abbastanza significativa del modo di leggere il tema dell’indirizzo politico-costituzionale portato avanti con estrema coerenza e tenacia dalla Presidenza della Repubblica ormai fin dalla crisi del 2011[iv]. Da una parte, il vincolo esterno viene letto fondamentalmente come acquiescenza completa a qualunque indicazione politica ed economica, diretta o indiretta, provenga dall’Unione Europea, dai paesi creditori e in generale dai mercati finanziari, accettando in toto l’idea che la crisi fiscale dello Stato[v] abbia sostituito al principio del no taxation without representation il principio concorrente del no credit without control esercitato dai mercati finanziari e all’interno delle procedure europee di controllo multilaterale dei bilanci[vi]. In quest’ottica, l’affidabilità creditizia dell’Italia e la partecipazione alla moneta unica arrivano ad essere considerati oramai alla guisa dei principi supremi dell’ordinamento, asse di una nuova costituzione in senso materiale, se – addirittura costituzionalmente inconcepibile e inammissibile una revisione costituzionale nel senso di una fuoriuscita del paese dall’euro[vii] – una semplice loro messa in pericolo può e deve comportare una risposta tanto radicale. Dall’altro lato, la Presidenza della Repubblica ritiene di dover profondere ogni sforzo nel garantire la conformità dell’indirizzo politico-governativo ai vincoli (prevalentemente finanziari) europei ed internazionali perché, una volta costituzionalizzato il vincolo esterno, su quei temi la Costituzione andrebbe solo applicata e applicata, ça va sans dire, nella direzione di un rigorismo che valuta il vincolo esterno sempre prevalente. Secondo questa interpretazione dell’indirizzo politico-costituzionale, inaugurata da Napolitano e oggi portata avanti da Mattarella, non residuano in questo campo margini di una qualche rilevanza sostanziale per lo sviluppo di un indirizzo politico-governativo, fino al divieto di nominare Ministro dell’economia un professore che alcuni anni fa aveva studiato la possibilità per l’Italia di uscire dall’euro. In questo senso si può dire che, paradossalmente, la vicenda di questi giorni attenga più alla definizione della forma di Stato che alla definizione della forma di governo.

La prassi della Presidenza della Repubblica appena descritta è preoccupante per due ordini di motivi, istituzionali e politici. L’esperienza costituzionale anche stavolta ci conferma che non si ammette che il Presidente della Repubblica possa o debba rifiutarsi di nominare tutti i ministri portatori di una storia politica dalla quale si potrebbe vagamente inferire l’esercizio futuro di un indirizzo che produca atti potenzialmente incostituzionali. Non sono, dunque, ammessi processi alle intenzioni neppure esplicitate. Se ciò è vero, dal punto di vista istituzionale l’alternativa è duplice: o – a Costituzione immutata – la ricostruzione in termini di centralità del principio di affidabilità creditizia dello Stato è sbagliata, oppure – come si teme – attorno al principio del no credit without control è avvenuto un processo costituente a livello europeo di cui, oggi come nel 2011, la Presidenza della Repubblica si fa garante. Dal punto di vista politico, d’altra parte, oggi la Presidenza della Repubblica sta dando al paese l’idea che il rispetto della Costituzione (cioè, per quello che le compete, l’esercizio del potere di indirizzo politico-costituzionale) si riduca alla sola attuazione, pardon applicazione, dei vincoli di bilancio anche a costo del sacrificio della sovranità popolare.

Nessuna benevolenza, allora, per il nascente governo gialloverde, anzi, profonda inquietudine per la portata potenzialmente destrutturante che il suo programma di governo potrebbe avere sulla tenuta del compromesso democratico sociale così come si è articolato in Italia dal dopoguerra ad oggi. Ci si chiede, tuttavia, se oggi non ci sia ancora più da temere se l’Italia dovesse spaccarsi sui temi specifici dell’europeismo e del sovranismo (e non, ad esempio, su tutte le altre questioni enormemente problematiche che il koalitionsvertrag all’italiana lascia intravedere: la xenofobia o la distribuzione della ricchezza e del reddito).

La crisi pare essersi chiusa e l’operazione della Presidenza della Repubblica volta a spostare Savona su un altro Ministero è alla fine riuscita senza ulteriori strascichi, ma che azzardo sarebbe stato spaccare il paese proprio sul tema del sovranismo e dell’europeismo, lasciando totalmente in sordina altri temi dirompenti e decisivi come appunto le politiche sociali, la solidarietà, la distribuzione della ricchezza, che pure in passato hanno costituito, sull’asse destra-sinistra, temi fondanti delle identità politiche collettive e individuali! Che errore sarebbe lasciare al paese l’idea che esistono dei poteri internazionali così pregnanti avanti ai quali la sovranità popolare può così poco! Che errore sarebbe quello di lasciare il tema della difesa della sovranità del demos a quella estrema destra che la ha sempre declinata solo in termini di sovranità della nazione, per non dire di sovranità dell’ethnos[viii]! Oggi più che mai è forte il rischio che il cleavage sovranismo-europeismo divenga il discrimine dominante del panorama politico italiano[ix], lasciando il campo della sacrosanta critica al deperimento della democrazia nazionale e all’Europa dell’austerity – che in altri paesi è stato terreno fertile per nascenti forze di sinistra – in completa balia dell’azione egemonica delle forze della destra gialloverde e contemporaneamente affidando la bandiera (pure gloriosa) dell’europeismo in mano alle forze che accettano i vincoli finanziari, l’austerity e la ristrutturazione in chiave neoliberista del compromesso democratico sociale come elemento basilare, costituzionalmente imprescindibile, della forma di Stato. Anche dal punto di vista istituzionale, tuttavia, il ritorno alle urne in questo senso sarebbe stato estremamente pericoloso. Se non esistono, come nei fatti sostiene Mattarella, sul tema politico del come stare in Europa, margini costituzionalmente possibili di decisione politica, un voto sull’Europa – come sarebbe accaduto nella sostanza se si fosse tornati[x] alle urne – non avrebbe potuto avere che un valore costituente (oltre che un esito – ahimé – scontato), rendendo pieno, esplicito, costituente appunto, il mandato dell’antieuropeismo di destra.

[i] Si veda P. Barile, Presidente della Repubblica, in Noviss.dig.it., Torino 1966, pp.718-720; nonché in precedenza il suo scritto del 1958, I poteri del Presidente della Repubblica, ora in Scritti di diritto costituzionale, CEDAM, Padova, 1967, pp.271-275. Per una lettura dei poteri del Presidente della Repubblica in chiave di esercizio di un potere politico almeno integrante quello del Governo si veda ad es. O. Chessa, Il Presidente della Repubblica parlamentare, Napoli, 2010, pp. 175 ss. È chiaro che, se si volesse aderire ad una ricostruzione analoga a quella appena citata, l’impostazione del problema andrebbe radicalmente capovolgendosi: il rifiuto di nomina del Ministro euroscettico rientrerebbe nei normali poteri di esercizio di indirizzo politico della presidenza della Repubblica, o forse addirittura potrebbe ritenersi che, il fatto che il Presidente della Repubblica rivendichi con successo il potere di rifiutare la nomina di un determinato ministro in ragione di una sua posizione politica pregressa sarebbe conferma della tesi di un potere di indirizzo politico in capo al Presidente della Repubblica. Per i motivi che si vedranno successivamente nel testo si tende a non aderire a questa prospettazione del problema.

[ii][ii] Tra i tanti, anche solo a titolo di rassegna, si veda R. Nania, Presidente della Repubblica e assetto politico costituzionale: a proposito di un libro sul tema, in Osservatorio AIC, dicembre 2014.

[iii] Sulla mancanza di una esplicita o implicita scelta di discesso dalla zona euro nel programma di Governo insiste M. Villone, Un errore sbarrare palazzo Chigi a Paolo Savona, il Manifesto 27 maggio 2018.

[iv] In senso analogo a quanto si dirà si veda R. Manfrellotti, Il Presidente della Repubblica garante della stabilità economico-finanziaria internazionale. Considerazioni a margine di un Governo che non nacque mai, in Osservatorio AIC 30 maggio 2018.

[v] Si usa l’espressione nel senso di J. O’Connor, La crisi fiscale dello stato, Einaudi, Torino, 1977.

[vi] In termini analoghi W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013.

[vii] Villone riflette sul fatto che la posizione di Mattarella arriverebbe a individuare nell’adesione dell’Italia alla moneta unica un limite alla revisione costituzionale; M. Villone, Le scelte del Colle. Rispetto per il Presidente. Ma non ossequio, il Manifesto, 30 maggio 2018.

[viii] Si veda in questo senso E. Balibar, Crisi e fine dell’Europa? Bollati e Bordigheri, Torino 2016, pp. 205 ss.

[ix] Sul tema della centralità del cleavage del sovranismo rispetto al quadro politico attuale in Italia e nel mondo e alla sua importanza rispetto all’affermarsi dei movimenti populisti si veda S. Feltri, Populismo sovrano, Einaudi, Torino, 2018.

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.