Protezionismo e delocalizzazioni: perché la politica di Trump è sbagliata

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The tariffs introduced by Trump do not prevent relocations because they do not affect companies with tax residence in the USA. It would be better to act on controls of capital movements.

Protezionismo | I dazi introdotti da Trump non contrastano le delocalizzazioni perché non colpiscono le imprese con residenza fiscale negli USA. Sarebbe meglio agire su un altro aspetto: controlli dei movimenti di capitale.

 

Da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca, il protezionismo è tornato ad essere un argomento di estrema attualità. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale, il nuovo presidente degli Stati Uniti si è rivolto ai lavoratori della manifattura promettendo di recuperare posti di lavoro nel territorio nazionale, affermando che ogni decisione riguardante commercio, tasse, immigrazione, e affari esteri sarebbe stata “presa a vantaggio dei lavoratori americani e delle famiglie americane”. Stando alle sue intenzioni, le misure protezionistiche avrebbero dovuto da un lato disincentivare le aziende a delocalizzare la produzione, e dall’altro ad imporre barriere al commercio internazionale. Cosa è successo dall’inizio del suo mandato?

Le misure commerciali prese dalla nuova amministrazione vedono coinvolte soltanto indirettamente la Cina e l’Unione Europea: si tratta di dazi imposti su alcune categorie di beni, senza alcun riferimento a specifici paesi. Tali misure, che rivelano preoccupazione per una eccessiva sofferenza dell’economia statunitense nella competizione internazionale, non sono affatto una novità. D’altronde, il saldo delle partite correnti risulta perennemente in negativo dall’amministrazione Reagan. È opinione diffusa, a tal riguardo, che un saldo commerciale negativo rifletta un peggioramento dello stato di salute delle imprese, contribuendo inoltre alla perdita di posti di lavoro. In effetti, a partire dalla fine degli anni ’70, il settore manifatturiero statunitense ha registrato una forte contrazione occupazionale, coinciso di fatto con il peggioramento del saldo delle partite correnti (Borjas et al., 1992). Si tratta di fenomeni entrambi verificati in concomitanza di un progressivo processo di apertura al commercio estero avviato con la ratifica di diversi accordi internazionali tra cui il GATT (Tokyo Round 1973-79, Uruguay Round 1986-1994) e il NAFTA (1994), fino alla costituzione della World Trade Organization (WTO) nel 1995. La ratifica dei suddetti accordi, volti a facilitare gli scambi commerciali tra i diversi paesi aderenti, ha determinato riduzioni di tariffe e dazi doganali, e allo stesso tempo un allentamento dei controlli sui movimenti di capitale. Negli anni successivi si è registrato un rapido aumento del volume delle esportazioni e delle importazioni statunitensi, con nuovi partner commerciali spesso caratterizzati da bassi livelli salariali, come ad esempio il Messico, la Cina e le tigri asiatiche. Si è allo stesso tempo registrato anche un peso crescente delle importazioni di beni intermedi dovuto alla diffusione del fenomeno della delocalizzazione, ossia la realizzazione delle diverse fasi del processo produttivo in altri paesi – fenomeno che nella letteratura economica viene spesso identificato come maggiore partecipazione alle catene globali del valore, o più genericamente divisione internazionale del lavoro.

Ciò ha dato vita ad un dibattito scientifico da cui non è emerso con chiarezza quale fosse il ruolo del commercio internazionale nella trasformazione della composizione della forza lavoro nel settore manifatturiero statunitense, né tantomeno la sua influenza nell’andamento dei salari delle diverse categorie occupazionali coinvolte.

Le analisi circa l’effetto del commercio internazionale sul mercato del lavoro si sono concentrate sui cambiamenti nella composizione della forza lavoro, piuttosto che sulla dimensione stessa della forza lavoro impiegata. È passata dunque in secondo piano la drastica caduta occupazionale, in favore di un’attenzione particolare sul crescente impiego di lavoratori qualificati. Questa evidenza empirica contrasta con quanto previsto dalla teoria neoclassica, perché per il teorema Stolper-Samuelson si dovrebbe verificare una riduzione relativa dei lavoratori qualificati, i cui salari aumentano relativamente a quelli dei lavoratori non qualificati. Ciò ha portato molti studiosi a ritenere che il commercio internazionale non abbia avuto in passato un’influenza significativa sul mondo del lavoro. A fronte di una marginalità del commercio internazionale, si è ritenuto invece che la fonte principale dei forti cambiamenti nel mondo del lavoro fosse da attribuire al progresso tecnico (Katz e Murphy, 1991; Krugman e Lawrence, 1993; Lawrence et al., 1993; Berman et al., 1994; Sachs et al., 1994), un’argomentazione non a caso recentemente tornata in auge anche in tempi più recenti (Acemoglu e Autor, 2010; Autor e Dorn, 2013).

Il fatto che le analisi tradizionali non riescano a raccordarsi con l’evidenza empirica (almeno con riferimento al caso degli Stati Uniti) non significa che il commercio internazionale non abbia svolto un ruolo rilevante nei cambiamenti della composizione della forza lavoro e delle remunerazioni salariali. La liberalizzazione del commercio internazionale ha infatti favorito un processo di dequalificazione della manodopera, attraverso una capillare divisione del lavoro, rendendo i lavoratori più facilmente sostituibili ed indebolendone di conseguenza la forza contrattuale. Ciò ha di fatto determinato una contrazione del livello occupazionale dei lavoratori più facilmente sostituibili con quelli dei paesi caratterizzati da livelli salariali decisamente più bassi. Sotto questo aspetto, il commercio internazionale gioca un ruolo importante nella frammentazione del processo produttivo: infatti le imprese, per poter sfruttare l’abbondanza di manodopera a basso costo nei paesi esteri, devono rendere questi lavoratori in grado di utilizzare le tecniche produttive più efficienti. Ciò risulta tanto più facile quanto più è limitata la conoscenza sull’intero processo produttivo richiesta a questi lavoratori. Questo perché i lavoratori dei paesi più poveri spesso non conoscono le tecnologie più avanzate – perché la maggior parte delle imprese tradizionali dei loro paesi non ne dispongono – e in molti casi viene richiesto loro di produrre beni di cui magari ne ignorano addirittura l’esistenza, o più semplicemente non hanno esperienza di tale processo produttivo. A tal fine risultano fondamentali gli investimenti diretti all’estero – non a caso il volume di questi investimenti è cresciuto notevolmente negli ultimi anniche permettono l’esportazione delle condizioni tecniche anche nei paesi più arretrati tecnologicamente, premessa necessaria per le delocalizzazioni. Gli investimenti diretti esteri rappresentano, sotto questo punto di vista, l’anello di congiunzione tra il commercio internazionale e il progresso tecnico, visti spesso invece come alternativi in molti lavori di impostazione neoclassica nella spiegazione dei cambiamenti della composizione della forza lavoro.

A suffragio di quanto affermato, è possibile mostrare quali sono i principali cambiamenti, avvenuti tra il 2002 e il 2014, nella composizione della forza lavoro coinvolta nel settore manifatturiero statunitense. Ad esempio, l’impiego di ricercatori è passato da 266.000 unità circa nel 2002 alle 280.000 del 2014, e nonostante possa sembrare un aumento modesto (circa il 5%) si deve tenere conto del fatto che il settore manifatturiero, nel periodo considerato, ha perso più di 3 milioni di posti di lavoro passando dai circa 14,4 milioni di impiegati ai circa 11,3 milioni. Tuttavia, il dato più interessante e (per alcuni) sorprendente riguarda gli impiegati nel settore finanziario: con una variazione positiva di quasi il 30%, si passa da poco più di 360.000 impiegati nel 2002 alle quasi 460.000 unità del 2014. All’estremo opposto, si trova la categoria degli operai, che a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo risultano essere la classe maggiormente penalizzata dalle trasformazioni del settore manifatturiero. Per quanto riguarda il livello occupazionale si registra una perdita di oltre 1,5 milioni di posti di lavoro, passando dai quasi 7,8 milioni nel 2002 ai poco più dei 6,2 milioni del 2014, con un picco negativo di 5,8 milioni nel 2010 come probabile conseguenza della crisi dei subprime.

Non sembrerebbe plausibile ipotizzare che la trasformazione della struttura produttiva rifletta principalmente l’operare del progresso tecnico. D’altronde sarebbe difficile immaginare come, all’interno del processo produttivo, si possano sostituire gli operai con i lavoratori appartenenti all’area finanziaria. Sembrerebbe molto più ragionevole ipotizzare che negli Stati Uniti il commercio internazionale – riguardando sempre più lo scambio di beni intermedi che richiedono un uso intensivo di manodopera – contribuisca a ridurre sensibilmente il livello occupazionale degli operai. Viceversa, le attività di finanza e ricerca sembrano piuttosto essere complementari a quelle della produzione diretta (Borjas et al., 1992; Feenstra e Hanson, 1996; Blinder, 2006), oltreché più difficilmente trasferibili all’estero, e dunque potrebbero ricevere una spinta occupazionale dalla divisione internazionale del lavoro.

Parallelamente, la quota del settore manifatturiero sul valore aggiunto statunitense è passata dal 13,5% del 2002 a poco più del 12% nel 2014. Nonostante ciò, il volume degli scambi internazionali di questo settore rappresenta circa il 95% delle esportazioni e delle importazioni totali. Ciò significa che questo settore è particolarmente esposto alle pressioni che il commercio internazionale può esercitare sul mondo del lavoro, in termini di retribuzioni salariali e di livelli occupazionali. In particolare, quella pressione, più che la modesta contrazione del settore manifatturiero in termini di quota sul PIL, potrebbe concorrere a spiegare il crollo occupazionale registrato nello stesso periodo. Come è stato possibile mantenere una quota sul valore aggiunto, nonché un livello di produzione, più o meno stabile nonostante la drastica contrazione occupazionale? La spiegazione sembrerebbe trovarsi, per l’appunto, nell’importazione di beni intermedi che richiedono un impiego intensivo di lavoratori, attraverso cui è possibile mantenere lo stesso livello di produzione con un minor numero di occupati. Le dinamiche relative al commercio internazionale – ossia il sempre più frequente ricorso all’importazione di beni intermedi che poi vengono nuovamente esportati, una volta concluso il processo produttivo, come beni finali – potrebbero far venire meno la correlazione tra deficit di partite correnti e livello occupazionale.

Alla luce di queste considerazioni, sembrerebbe che il grado di apertura al commercio internazionale (FTI) – come rapporto tra la somma delle esportazioni e delle importazioni e il valore della produzione – possa rappresentare uno strumento migliore del saldo di bilancia commerciale (FCT) per spiegare i cambiamenti avvenuti nel settore manifatturiero, con riferimento al mondo del lavoro. Dal 2002 al 2014 si può osservare come, nei diversi comparti, il saldo di bilancia commerciale mostri un trend stazionario nel tempo e nella maggior parte dei casi negativo, mentre l’indice di apertura al commercio internazionale registri una forte crescita, evidenziando di fatto un aumento parallelo delle esportazioni e delle importazioni.

 Grafico 1: il settore della chimica

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Grafico 2: il settore delle macchine industriali

Uno dei casi più significativi è rappresentato dal settore chimico, in cui si riscontra un sostanziale pareggio commerciale per tutto il periodo considerato a fronte di un sostanziale incremento nel volume degli scambi, che passa dall’80% nel 2002 al 112% el 2014 (Grafico 1). Un caso analogo è rappresentato dal settore dei macchinari industriali, in cui si osservano oscillazioni intorno al pareggio commerciale congiuntamente a un sensibile aumento del grado di apertura al commercio internazionale, che passa dal 145% del 2002 al 207% del valore aggiunto settoriale del 2014 (Grafico 2). In questi settori, il saldo della bilancia riuscirebbe a catturare difficilmente l’influenza del commercio internazionale sulla composizione della forza lavoro.

Tuttavia, in entrambi i casi le trasformazioni nella composizione della forza lavoro sembrerebbero evidenziare ancora una volta la contrazione occupazionale degli operai (production workers) – come conseguenza della delocalizzazione delle fasi di produzione che richiedono manodopera diretta – parallelamente ad uno sviluppo di quelle attività complementari che riguardano altri aspetti, quale quello dell’area finanziaria (business&finance).

Grafico 3: cambiamenti nella composizione della forza lavoro nel settore della chimica

Grafico 4: cambiamenti nella composizione della forza lavoro nel settore dei macchinari industriali

Questa digressione sulle relazioni tra commercio internazionale e lavoro occupazione settoriale ci permette di rituffarci nell’attualità disponendo tuttavia degli strumenti utili per analizzare le misure apparentemente protezionistiche adottate dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Infatti, i dazi introdotti da Trump non contrastano in alcun modo le delocalizzazioni perché le misure adottate non colpiscono le imprese aventi residenza fiscale negli Stati Uniti: ciò significa che le imprese statunitensi operanti all’estero non subiscono alcun dazio quando importano un bene intermedio da un paese estero per completare il processo produttivo del bene finale all’interno degli Stati Uniti. Essendo perfettamente compatibili con le delocalizzazioni, i dazi saranno difficilmente in grado di fornire uno stimolo significativo all’occupazione nel settore manifatturiero.

Oltre a questo aspetto, è opportuno sottolineare come, all’interno della teoria classico-keynesiana, una maggiore apertura al commercio internazionale non debba necessariamente portare alla contrazione occupazionale. Con riferimento alle esperienze delle economie più sviluppate si è assistito, nei trenta anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, ad un periodo in cui aumentavano gli scambi commerciali tra i Paesi e al contempo aumentava l’occupazione. Al riguardo, si può asserire che durante i cosiddetti “trenta gloriosi” lo sviluppo del commercio internazionale è stato una conseguenza della crescita della domanda interna, sostenuta da politiche keynesiane (Barba e Pivetti, 2016). Viceversa, a cavallo degli anni ’80, si è osservato un cambiamento radicale nei menù di politica economica, caratterizzato da un continuo processo di liberalizzazioni e di deregolamentazione del mercato del lavoro, accompagnato da un progressivo contenimento della spesa pubblica. Ciò significa che, per contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, bisognerebbe attuare una regolamentazione più rigida. Ad esempio nella Carta dell’Avana (1953), che avrebbe dovuto sancire la costituzione dell’International Trade Organization (ITO) – poi decaduta in quanto non ratificata dal Congresso americano – dopo aver stabilito nell’articolo 1 le finalità dell’accordo internazionale “to assure a large and steadily growing volume of real income and effective demand, to increase the production”, si individuavano le condizioni attraverso le quali raggiungere uno sviluppo bilanciato dell’economia mondiale (art. 2). Oltre alla finalità del pieno impiego vi era poi la difesa delle condizioni lavorative nei Paesi più sviluppati, come descritto dall’art. 7:

(The Members) recognize that all countries have a common interest in the achievement and maintenance of fair labour standards related to productivity, and thus in the improvement of wages and working conditions as productivity may permit. The Members recognize that unfair labour conditions, particularly in production for export, create difficulties in international trade, and, accordingly, each Member shall take whatever action may be appropriate and feasible to eliminate such conditions within its territory.

Questo passaggio è particolarmente significativo perché pone l’attenzione su due aspetti distinti ma collegati tra loro. Il primo si riferisce alla crescita dei salari e al miglioramento delle condizioni lavorative, mentre il secondo evidenzia le difficoltà che sarebbero emerse per uno sviluppo equilibrato del commercio internazionale qualora si fosse fatto ricorso a pratiche scorrette nel mercato del lavoro, in particolare nei settori maggiormente orientati alle esportazioni. Ciò significa che attraverso la reintroduzione dei controlli sui movimenti di capitale – come accadeva nel sistema di Bretton Woods – si potrebbe arrestare questa emorragia delle delocalizzazioni che ha causato una sensibile riduzione dell’occupazione nel manifatturiero. Tra l’altro, il controllo sui movimenti di capitali, limitando la possibilità di comprimere il costo del lavoro, potrebbe incentivare le imprese a realizzare investimenti puntando invece sull’innovazione e su una maggiore qualità del lavoro che garantirebbero una crescita della produttività: ciò rappresenterebbe un percorso verso un’altra accezione di competitività, come spiegato da Ginzburg su Economia & Lavoro (2014), compatibile con un obiettivo di piena e buona occupazione.

Ad oggi, invece, la capacità di competere nei Paesi si sostanzia principalmente nel contenimento del costo del lavoro, come già mostrato su Economia e Politica (Paternesi Meloni, 2018), con conseguenze disastrose per i lavoratori. In quest’ottica, le misure protezionistiche adottate da Trump – non essendo in grado di arrestare in alcun modo le delocalizzazioni – non sembrano ad oggi essere in grado di contrastare i cambiamenti occupazionali che abbiamo descritto.

*Dottore di ricerca presso il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Roma Tre

 

Riferimenti bibliografici

Autor, D. H., & Dorn, D. (2013). The growth of low-skill service jobs and the polarization of the US labor market. American Economic Review103(5), 1553-97.

Barba, A., & Pivetti, M. (2016). La scomparsa della sinistra in Europa. Imprimatur editore.

Berman, E., Bound, J., & Griliches, Z. (1994). Changes in the demand for skilled labor within US manufacturing: Evidence from the annual survey of manufacturers. The Quarterly Journal of Economics, 367-397.

Blinder, A. S. (2006). Offshoring: the next industrial revolution?. Foreign affairs, 113-128.

Borjas, G. J., Freeman, R. B., & Katz, L. F. (1992). On the labor market effects of immigration and trade. In Immigration and the workforce: economic consequences for the United States and source areas (pp. 213-244). University of Chicago Press.

Feenstra, R. C., & Hanson, G. H. (1996). Globalization, outsourcing, and wage inequality (No. w5424). National Bureau of Economic Research.

Ginzburg, A. (2014). Perché si parla (si dovrebbe parlare) oggi in Italia di politiche industriali?. Economia & lavoro48(3), 67-78.

Katz, L. F., & Murphy, K. M. (1991). Changes in relative wages, 1963-1987: Supply and demand factors (No. w3927). National Bureau of Economic Research.

Krugman, P., & Lawrence, R. (1993). Trade, jobs, and wages (No. w4478). National Bureau of Economic Research.

Lawrence, R. Z., Slaughter, M. J., Hall, R. E., Davis, S. J., & Topel, R. H. (1993). International trade and American wages in the 1980s: giant sucking sound or small hiccup?. Brookings papers on economic activity. Microeconomics1993(2), 161-226.

Paternesi Meloni, W., (2018). La ripresa e lo spettro dell’austerità competitiva, Economia e Politica, anno 10 n.15 sem. 1.

Sachs, J. D., Shatz, H. J., Deardorff, A., & Hall, R. E. (1994). Trade and jobs in US manufacturing. Brookings papers on economic activity1994(1), 1-84

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